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La mediazione sociale

Ma l’aspetto corporeo non è l’unica componente oggettiva del soggetto; altrettanto importante è la mediazione attraverso il contesto storico e sociale. In quanto finita e cor- porea, la singola coscienza fa parte del mondo di oggetti che la società manipola e cerca di plasmare a suo piacimento.

Adorno spinge la dipendenza della soggettività dalla realtà esterna fino a conse- guenze radicali: non solo i contenuti, ma persino le forme del pensiero non hanno origine al suo interno. Le categorie, che Kant considerava universali, sono invece un prodotto del contesto sociale e dei rapporti di produzione in cui il singolo vive e viene formato e dun- que relative ad essi.

Nei meccanismi soggettivi di mediazione si prolungano quelli dell’oggettività, alla quale è aggiogato ogni soggetto, pure quello trascendentale. Che i dati, come essi pretendono, vengano appercepiti così e non altrimenti, è frutto di quell’ordine presoggettivo che a sua volta costituisce essenzialmente la soggettività che per la gnoseologia è costitutiva.1 La stessa mediazione soggettiva è mediata dall’oggettività sociale: ogni pensiero viene cioè preformato in base ad un ordine che precede, sul piano storico come su quello gnoseologico, il soggetto individuale.

Si potrebbe dire che in Adorno la società assume la funzione di un oggetto tra-

scendentale, del quale appunto non si può fare esperienza immediata, ma che precede e

forma ogni nostra esperienza. I meccanismi sociali si sono insinuati fin dentro alla sfera privata, addirittura nel pensiero soggettivo. È la società, insomma, che insegna come pen- sare. E ciò per quanto riguarda non solo i pregiudizi e il senso comune – contro i quali il singolo potrebbe quasi tentare di esercitare il diritto al libero pensiero –, ma anche la struttura secondo la quale vengono raccolti e organizzati i dati, la loro comunicazione e in fondo persino il modo in cui il desiderio di conoscenza si trasforma in identificazione.

dimenticare da dove viene la sua pretesa, se non vuole decadere» (ivi, p. 160). La condizionatezza del soggetto, in altre parole, rende condizionato, e dunque ideologico, anche il suo dichiararsi incondizionato.

83 Proprio questo legame strettissimo tra identificazione e organizzazione sociale spinge la critica dialettica ad accusare entrambe di falsità.

Così Adorno conserva la tesi aristotelica, passata poi per Hegel, del primato della società sull’individuo. L’uomo, perfino nel suo modo di pensare, è quello che è grazie alla società che lo ha formato: non è possibile fare esperienza delle cose, nemmeno dell’uomo stesso, se non attraverso la mediazione sociale, che nel suo bisogno identifi- cante coincide con la mediazione concettuale. Ma come nel rapporto tra soggetto e og- getto, a questo primato dell’universale deve essere contrapposto quello del particolare. Proprio perché essenzialmente falsa, questa società non può ricondurre totalmente l’uomo a quello che essa ne ha fatto: l’hegeliano “Tutto ciò che l’uomo è, egli lo deve allo stato” è per Adorno «la più vistosa delle esagerazioni»1.

Se il primato dell’oggetto riconosce alla cosa la possibilità di sussistere immedia- tamente in sé al di fuori del pensiero, all’ente l’indipendenza dall’ontologia, il singolo può avere una sua esistenza al di fuori della società, e non è quindi tenuto a sottomettersi ad essa come a un dio creatore. Non tutto ciò che è l’uomo proviene dalla società: la sopravvivenza barbara del singolo, seppur brutale, resta possibile in un ipotetico stato di natura.

Ovviamente sarebbe fuorviante leggere nella critica adorniana un invito a ritornare alla vita animale. Piuttosto, la possibilità di un’esistenza diversa, fosse anche peggiore di quella all’interno della società moderna, lascia aperta la possibilità del cambiamento in meglio, verso una società liberata da quella violenza ancora naturale all’interno della cul- tura. Allora, come il primato dell’oggetto mira a controbilanciare il primato del soggetto e ad abolire così la gerarchia, l’interesse che Adorno mostra per il particolare vuole ria- bilitare la sua pretesa di fronte all’universale sociale, senza esaltare l’individuale astratto2.

La critica adorniana alla società è allora la critica a un trascendentale. La sua indi- spensabilità per l’esperienza, dunque in fondo per l’esistenza umana, non lo rende esente

1 Ivi, p. 302.

2 Quest’ultimo non sarebbe in grado di condurre un’esistenza libera e giusta opponendosi imme-

diatamente alla totalità falsa, perché ne conserva i tratti fin nella sua costituzione. «All’interno della società repressiva, l’emancipazione dell’individuo non va senz’altro a suo vantaggio. La libertà dalla società lo spoglia dalla forza di essere libero. Per quanto reale, infatti, possa essere l’individuo nel suo rapporto con gli altri, concepito come assoluto è una pura astrazione. Esso non ha alcun contenuto che non sia – nella sua costituzione – sociale, nessun impulso trascendente la società che non sia diretto ad ottenere che lo stato sociale trascenda se stesso» (id., Minima moralia, cit., p. 176).

84 dalle critiche, dal momento che queste non puntano a eliminarlo, quanto a curarlo dalla sua irrazionalità.

Ecco allora l’importanza del primato dell’oggetto: nel suo corrispettivo sociale – l’individuo – la critica trova il suo punto di appoggio e il suo fine. Se al trascendentale non fosse opposto quel qualcosa di trascendente a cui il non identico rimanda, se la di- pendenza degli uomini dalla società fosse davvero totale, come quella dell’oggetto dal soggetto creatore dell’idealismo, la critica in vista dell’uomo non farebbe che riproporre una società coercitiva, accettando la sua irrazionalità come condizione intrascendibile sia della critica che della vita umana.

Ciò significa anche che la stessa trascendenza dell’oggetto deve essere intesa in senso critico. Si potrebbe infatti accusare Adorno di restaurare, con la tesi del primato dell’oggetto, un dualismo astratto di pensiero e realtà, dove la verità viene nettamente opposta alla falsità dell’identificazione. In effetti, un sospetto del genere non sarebbe in- giustificato: l’insolubilità del qualcosa, l’immediatezza di un in sé di ispirazione kantiana, la falsità del sistema concettuale e la conseguente verità negativa di ciò che gli sfugge, sono tutti elementi che puntano in quella direzione. Ma questo significherebbe mettere

l’oggetto sul trono del soggetto, concependo la verità in maniera ingenuamente realista,

come ciò che semplicemente e oggettivamente è.

Adorno non ha dunque intenzione di assolutizzare la separazione. Questo perché, come abbiamo visto, nessun soggetto è puramente tale, perché mediato sia dall’oggetti- vità corporea, sia dall’oggettività sociale. Ma c’è una motivazione più sostanziale: il dua- lismo assoluto, proprio perché assoluto, è contrario al principio dialettico. Se ha senso parlare di dualismo per Adorno, lo ha solo dandogli un’accezione critica, opposta cioè all’unità e al pensiero identificante, e non come una verità in sé.

La polarità di soggetto e oggetto appare facilmente come una struttura a sua volta non dialettica dove avrebbe luogo ogni dialettica. Ma entrambi questi concetti sono categorie derivate di riflessione, formule per un non unificabile; non un positivo, non rapporti pri- mari di cose, bensì del tutto negativi, espressione unicamente della non identità. Tuttavia

85 non si può nemmeno semplicemente negare a sua volta la differenza di soggetto e oggetto. Essi non sono una dualità ultima, né dietro di essi si nasconde un’unità ultima.1

Che Adorno rimanga scettico nei confronti del dualismo netto, anche dopo la di- fesa del primato dell’oggetto e la critica all’idealismo, non deve sorprendere. Il pensiero identificante, ben prima dell’avvento di Hegel, aveva basato su di esso il suo approccio al mondo: il Sé borghese si costruiva proprio nell’avventura, nello scontro con una realtà che considerava diversa. L’assoluta estraneità e l’assoluta uguaglianza portano, seppur per vie differenti, ad appropriarsi dell’altro: «Se il dualismo di soggetto e oggetto venisse posto alla base come un principio basilare, sarebbe uguale al principio di identità che respinge»2. Per questo il dualismo non è una verità dimenticata a cui fare ritorno, ma unicamente uno strumento della critica: esso va mantenuto criticamente «contro la pretesa di totalità inerente al pensiero»3.

Si può dire che questo dualismo critico funge nella Dialettica negativa come un consolidamento del suo nucleo centrale: la non identità che dall’interno del pensiero rin- via a un qualcosa aconcettuale. Come il non identico, anche il dualismo non può divenire un positivo, non può essere pensato come una verità preferibile all’idealismo, perché gli è dialetticamente legato. D’altronde la Dialettica negativa non abbandona il concetto e la ricerca dell’identità della cosa, ma critica la coercizione identitaria. Allo stesso modo il dualismo – tra pensiero e cosa, o tra società e individuo – deve essere rafforzato contro la falsa unità, in vista di quella vera. In questo senso, allora, il dualismo ha in Adorno una funzione critica: non impone di rinunciare all’identità o alla vita in società, ma costringe a metterla in relazione alla non identità, all’umanità nella sua esistenza oppressa.

Questa negatività si nota anche nel modo in cui Adorno giunge al primato dell’og- getto, all’oggettività del soggetto, alla trascendenza della cosa: questi non vengono po- stulati, in base all’ovvietà che le cose continuano a sussistere anche quando non ne fac- ciamo esperienza, che ognuno di noi ha un corpo oltre che una mente, e che il cittadino non coincide con la società che abita. Al contrario, ognuna di queste tesi scaturisce dalla contraddizione immanente al concetto e alla identità: è il non identico a costringere il

1 Id., Dialettica negativa, cit., p. 157. 2 Ibid.

86 soggetto a riconsiderare la propria supremazia e ad autolimitarsi. Il dualismo, limite del soggetto, è cioè inscritto nel soggetto stesso, ed «è raggiungibile unicamente dalla rifles- sione del soggetto e sul soggetto»1.

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L’oggettività della contraddizione