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3. La questione sociale nella dinamiche di “divergenza” e

3.2 La (parziale) convergenza

3.2.2 Convergenza degli ordinamenti nazionali verso i princip

Nel processo di convergenza si deve considerare anche l’altra faccia della medaglia, ovvero la convergenza delle democrazie costituzionali degli Stati nella direzione dell’ordinamento sovranazionale. Dopo un trentennio caratterizzato dall’affermazione e, per certi versi, dal successo dello Stato sociale, dall’interventismo economico a fini redistributivi e da politiche industriali dirigiste, iniziano a fare capolino i problemi legati alla competitività delle economie nazionali, all’efficienza e ai costi della burocrazia, alla scarsa rappresentanza nel circuito democratico degli attori economici e sociali. Da un punto di vista storico, non si deve dimenticare che la fine dell’età dell’oro del welfare state in Europa coincide grossomodo con l’avvento della svolta neoliberista, espressione con cui si fa riferimento ad un insieme di idee economiche e sociali che rappresenta il frutto della rielaborazione – e, per certi versi, della radicalizzazione – delle posizioni classiche del liberismo pre-bellico177. L’ideologia neoliberista ebbe come idolo polemico il welfare state di ispirazione keynesiana, al quale si imputavano alcuni squilibri178. Com’è noto, i grandi esponenti del trionfo del neoliberismo sono Ronald Reagan e Margaret Thatcher nel corso degli anni Ottanta, in particolare quando «formularono proposte di riforma del

welfare alquanto radicali, volte allo “smantellamento” o quanto meno al

forte contenimento degli schemi di protezione basati su spettanze (i cosiddetti entitlement programs, secondo l’espressione americana), comprese pensioni e sanità. Le prestazioni di disoccupazione e di assistenza                                                                                                                

177 Vedi M. FERRERA, Neowelfarismo liberale, cit.,, 5. Come spiega l’A., «il nucleo

centrale del neoliberismo si formò e consolidò nel corso degli anni Settanta, imperniandosi sulla “fede” nelle capacità di auto-regolazione del libero mercato e nella sua superiorità rispetto ad altri meccanismi allocativi e distributivi nel sostenere le scelte razionali e auto- interessate dei singoli individui». Forse non casualmente, la genesi e il successo di questa corrente di pensiero furono concomitanti con un’altra grande crisi economica, quella causata dagli shock petroliferi.

178 Secondo Ferrera, alla responsabilità del welfare keynesiano si attribuivano

sostanzialmente due tipi di eccessi: «innanzi tutto un eccesso di egualitarismo e di tassazione, con conseguenze deleterie in termini di efficienza, capacità d’impresa, propensione al rischio, incentivi economici in generale. In secondo luogo, eccessiva burocratizzazione, troppo paternalismo e controllo sociale (lo “stato-mamma”) e dunque meno libertà di scelta, meno dinamismo, una cultura “assistenziale” de-responsabilizzante, incentivi alla difesa di “rendite” corporative e comportamenti predatori nei confronti della

sociale (ad esempio gli Aids to Families with Dependent Children negli Stati Uniti e le prestazioni di Income Support nel Regno Unito) divennero oggetto di attacchi ideologici particolarmente marcati, non solo per i loro effetti distorsivi sul piano degli incentivi e dunque dell’efficienza, ma anche per la loro presunta “immoralità” (i beneficiari venivano descritti come irresponsabili ed interessati ad avvantaggiarsi in modo opportunistico delle imposte pagate da chi si affatica lavorando)179». L’ideologia neoliberista, sebbene con efficacia minore, esercitò il suo fascino anche nell’Europa continentale. In effetti, essa rappresentava un’arma ideologica che veniva scagliata contro problemi e difficoltà reali delle democrazie costituzionali dell’epoca. Non stupisce che in un tale contesto storico e ideologico queste ultime cominciassero ad accogliere l’idea di iniziare al proprio interno un processo di trasformazione ispirato dalle istanze del diritto sovranazionale180. ‹‹Insomma, anche le democrazie costituzionali, come già il mercato comune, iniziano a confrontarsi con i propri limiti e, al contempo, con l’altro da sé incarnato dagli obiettivi e dalla cultura originaria del diritto sovranazionale181››. Un primo fenomeno riguarda l’impatto della cultura del mercato sulle politiche industriali nazionali e il ‹‹progressivo declino del metodo della programmazione economica e del modello costruttivista di politica industriale››182. Si comincia ad affermare l’idea che la crescita economica e l’occupazione possano essere meglio perseguiti attraverso l’apertura dei mercati, piuttosto che con interventi distorsivi della concorrenza183. Le politiche economiche nazionali convergono verso una maggiore tutela della concorrenza184. Addirittura, le nuove normative attuative dei principi comunitari della concorrenza esigono la reinterpretazione, alla luce di questi, dei principi costituzionali in campo economico.

                                                                                                                179 IVI, 5-6.

180 Non è irrilevante, forse, il fatto che il diritto sovranazionale si facesse, almeno in parte,

veicolo della stessa ideologia neoliberista che tanto fieramente voleva debellare “i mali oscuri” dei welfare nazionali. Vedi supra, nota 33.

181 M. DANI, Il diritto pubblico europeo, cit., 187.

182 IVI, 188.

183 Vedi IVI, 188-189.

184 A partire dalla fine degli anni ’80, vengono approvate leggi rivolte a situazioni escluse

dall’ambito di operatività del diritto comunitario, contenenti norme che ricalcano i principi dei trattati: si pensi al Competition Act del 1998 nel Regno Unito (vedi ivi, 189).

Le trasformazioni riguardano anche lo stesso welfare state. Le politiche redistributive si ridefiniscono in base all’idea di solidarietà competitiva: lo stato sociale deve riconvertirsi, passando da una logica di mera protezione dei più svantaggiati dalle conseguenze negative dell’economia di mercato alla promozione della partecipazione al mercato. Mentre un tempo l’esclusione sociale si combatteva perseguendo l’inclusione nella società e la piena cittadinanza, ora si combatte promuovendo l’inclusione nel mercato e nei circuiti della competizione globale185. Profonde trasformazioni avvengono anche nei paradigmi del diritto del lavoro e delle relazioni industriali, che un tempo mirava alla redistribuzione del reddito e del potere nelle relazioni industriali, mentre adesso deve promuovere diversi obiettivi come la competitività e l’efficienza degli apparati produttivi: ‹‹l’antagonismo sociale viene progressivamente screditato, preferendosi ad esso una concezione delle relazioni industriali ispirata all’idea di cooperazione››186. Ciò comporta anche una nuova concezione dei diritti fondamentali in questo ambito: ‹‹se nella tradizione dello stato sociale i diritti fondamentali sono riconosciuti come gli istituti attraverso cui si garantisce il conflitto sociale nel suo svolgersi, nell’orizzonte della solidarietà competitiva la loro funzione è quella di favorire la cooperazione all’interno dell’impresa per migliorarne le prestazioni nei mercati››187. E                                                                                                                

185 Vedi IVI, 192-193 .

186 IVI, 193.

187 IVI, 193. Evidentemente, il welfare, per sopravvivere alle nuove sfide (emergenti sia nel

campo della sfera pratica, sia in quello della sfera ideativa), deve adattarsi e trasformarsi. Da un lato, infatti, le prescrizioni di stampo neoliberale in campo sociale hanno mostrato la loro insufficienza a fronte di fenomeni quali l’incremento dei tassi di povertà e l’esclusione sociale. Dall’altro, è abbastanza diffusa la convinzione che il “vecchio” welfare non è in grado di affrontare la transizione al post-industrialismo, le trasformazioni sociali e demografiche, l’emergenza dei nuovi rischi sociali. Le forme tradizionali di intervento sociale “passivo” sono presentate come inconciliabili con i bisogni dell’economia della

conoscenza (vedi B. PALIER, Social policy paradigms, welfare state reforms and the crisis,

in Stato e mercato, n. 97, aprile 2013, 41). Tali trasformazioni hanno bisogno di essere supportate e promosse da uno sforzo di pensiero, anche di tipo ideologico. Tuttavia, secondo Palier, mentre vi è ormai largo consenso sulla definizione del periodo che va dal secondo dopoguerra ai primi anni settanta come gli anni del keynesismo, e quello che va dalla metà degli anni settanta alla fine degli anni novanta come gli anni del neoliberismo, non sarebbe chiaro se la prospettiva del cosiddetto “investimento sociale”, legata alla fase attuale, costituisca un nuovo paradigma. Non è del tutto chiaro se vi sia una diffusa e condivisa opinione sul fallimento del neoliberismo come paradigma economico per affrontare le sfide economiche e sociali del 21° secolo (vedi ivi, 37-38; 43). Ferrera, dopo aver descritto la traiettoria storica del neoliberismo come una parabola, afferma che è possibile individuare l’emersione di una nuova sintesi ideologica che riassumerebbe le caratteristiche di fondo della prospettiva post-neoliberista sui temi del welfare. L’A.

                                                                                                                                                                                                                                                                                          propone anche una denominazione di tale sintesi ideologica: neowelfarismo liberale. «Esso unisce i nuclei centrali della tradizione liberaldemocratica e di quella socialdemocratica (libertà ed eguaglianza) decontestando ciascuno di essi, nonché la loro relazione, in un modo nuovo e riadattando un certo numero di componenti adiacenti di ciascuna tradizione. […] L’ideologia del neowelfarismo liberale tende a decontestare la nozione di libertà in almeno tre modi. Innanzitutto, pur riconoscendo la priorità lessicografica della libertà negativa (come in Rawls), essa la considera come inestricabilmente legata alle libertà positive e alle opportunità che consentono lo sviluppo dell’individuo e la “fioritura” (flourishing) delle sue potenzialità (la prospettiva di Stuart Mill). In secondo luogo, tale ideologia fa perno sulla libertà negativa per rafforzare il principio di non discriminazione e generare così nuovi tipi di diritti civili che possiedono rilevanti implicazioni sociali (ad esempio, il matrimonio omosessuale; le quote di genere; i diritti al “riconoscimento” delle minoranze; opzioni pro-scelta riguardo ai temi eticamente sensibili). In terzo luogo, essa pone l’accento sul legame fra libertà e diritti fondamentali (pensiamo all’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). La nozione di eguaglianza è a sua volta decontestata attenuando l’enfasi sui risultati a favore delle opportunità, delle chance di vita, delle capacità e dei “funzionamenti” (come in Sen). Pur non rinunciando agli obiettivi di protezione e solidarietà sociale, all’interno della prospettiva neowelfarista liberale l’eguaglianza assume inoltre: 1) un carattere dinamico: ciò che conta è il ciclo di vita, non l’eguaglianza “qui e ora”; 2) un carattere multidimensionale: non solo il reddito, ma anche altri aspetti come il genere, l’etnia, l’orientamento sessuale e così via; 3) un carattere “prioritario” […]: pur mantenendo universalità di accesso alle prestazioni e ai servizi pubblici, la politica sociale (e più in generale l’intero sistema “fisco-trasferimenti”) deve

dare priorità ai meno avvantaggiati» (M. FERRERA, Neowelfarismo liberale, cit., 21-22).

L’A., poi, individua tre concetti-ponte volti a conciliare le tensioni che tipicamente si generano tra libertà e uguaglianza: solidarietà produttivista o flessibile, inclusione attiva, promozione sociale. «La solidarietà produttivista (una componente adiacente centrale nella tradizione storica della socialdemocrazia scandinava) si riferisce all’idea che la provvisione collettivamente garantita di prestazioni e servizi sociali è non solo uno strumento fondamentale di redistribuzione e coesione, ma anche un fattore “produttivo” che può accrescere la performance economica, a condizione di rimanere basato su criteri di reciprocità, sulla disponibilità al lavoro e alla partecipazione nella società. La lotta alla povertà e la promozione dell’inclusione devono diventare una priorità e debbono essere perseguite non soltanto attraverso trasferimenti passivi ma anche attraverso servizi pubblici di elevata qualità ed occasioni formative. La controparte dell’inclusione è l’attivazione, ossia l’aspettativa/requisito che i beneficiari delle prestazioni si impegnino in attività che promettano di ricondurli a condizioni di autosufficienza economica. La nozione di promozione sociale enfatizza l’importanza di preparare gli individui ad affrontare i diversi rischi dei loro cicli di vita piuttosto che risarcire ex post i danni che conseguono a tali rischi. Gli investimenti sociali (nella cosiddetta early education and care, nell’istruzione, nella conciliazione vita-lavoro, nell’apprendimento lungo l’arco della vita, nei servizi attivi per l’impiego e così via) svolgono un ruolo centrale nel consentire agli individui di realizzare i propri piani di vita (la libertà in senso milliano), nel parificare le opportunità e garantire equità di risultati, specialmente per i più sfavoriti (egualitarismo prioritario), e al tempo stesso nel sostenere la performance economica e la sostenibilità finanziaria

(produttivismo socialdemocratico) (IVI, 23). L’A., però, prende anche atto del fatto che «il

potenziale trasformativo del neowelfarismo liberale è fortemente vincolato oggi dall’intransigenza “rigorista” delle autorità economiche UE e dalla debolezza della dimensione sociale europea. Il nuovo discorso sul welfare, nonostante i numerosi “ponti” da esso lanciati verso i temi della crescita, della competitività, dell’occupazione, non è riuscito a scalfire (né ha sfidato in modo aperto) il prevalente consenso di matrice monetarista e di conservatorismo fiscale nella gestione dell’UME. […] Durante la cosiddetta “età dell’oro”, il paradigma keynesiano offriva ampi margini (in buona misura, li richiedeva) per una elevata complementarità tra le politiche economiche e quelle sociali. Inoltre, vi era una divisione del lavoro relativamente lasca e virtuosa tra market-making a livello sovranazionale e market-correcting a livello nazionale. Come è noto, le pressioni “di mercato” da parte di Bruxelles hanno gradualmente sovrastato l’autonomia degli stati nazionali sul fronte della “correzione di mercato”. Le probabilità che il neowelfarismo liberale possa rafforzare le proprie radici culturali e istituzionali sono oggi fortemente

tuttavia, come nel processo di convergenza del diritto dell’Unione si ravvisa la persistenza degli elementi originari dell’ordinamento sovranazionale, anche nel processo di convergenza degli ordinamenti nazionali rimangono elementi di lunga durata che ne rappresentano la cifra originaria. Per esempio, la tutela della concorrenza, divenendo un principio costituzionale, assume le caratteristiche di questi principi, e quindi anche la bilanciabilità con altri principi costituzionali188. In generale, sembrerebbe di potersi dire che, nonostante il processo di trasformazione e revisione critica avvenuto a partire dagli anni Settanta, le fondamenta dello stato sociale non sono state distrutte189.