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La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul conflitto tra diritt

4. Un deficit sociale europeo, nonostante la convergenza reciproca?

4.1 Alcuni ambiti del deficit (o squilibrio) in campo sociale:

4.1.2 La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul conflitto tra diritt

Un passaggio cruciale per pesare il processo di convergenza dell’Unione europea sul versante sociale è rappresentato dalla giurisprudenza sui casi

Viking e Laval206 (e su quelli che li hanno seguiti). La produzione scientifica su questa giurisprudenza è sterminata e caratterizzata anche da forti accenti polemici. Il problema di fondo che avvolge le due decisioni è quello del                                                                                                                

204 La direttiva ‹‹è stata, cioè, convertita in una sorta di « scudo protettivo » in favore del

datore di lavoro distaccante, più e prima che in uno strumento di tutela del lavoratore distaccato, il quale, in questa impostazione, viene invero protetto guardando al suo interesse a continuare a reperire, per il tramite dell’imprenditore, e grazie al suo minor costo, occasioni d’impiego nello Stato che riceve la prestazione di servizi, piuttosto che alla sua condizione di lavoratore subordinato e contraente debole meritevole di protezione analoga a

quella valevole per i lavoratori del paese ospitante›› (S. GIUBBONI, Diritti e solidarietà, cit.,

61).

205 Si segnala che con la Direttiva 2014/67UE sull’applicazione della Direttiva 96/71/CE,

gli Stati membri potranno imporre ai prestatori di servizi obblighi amministrativi e misure

di controllo, valutati come strettamente necessari. Vedi S. SCIARRA, Il diritto sociale

europeo al tempo della crisi, in E. CATELANI - R. TARCHI (a cura di), I diritti sociali nella

pluralità degli ordinamenti, Editoriale scientifica, Napoli, 2015, 272.

206 Per uno studio interessante sulla letteratura che si è cimentata con i casi Viking e Laval,

si rimanda a C. BARNARD, The calm after the storm: time to reflect on EU (labour) law

scholarship following the decisions in Viking and Laval, University of Cambridge, Faculty

of Law, Legal Studies Research Paper Series, paper n. 55/2015, September 2015, disponibile su http://www.law.cam.ac.uk/ssrn/.

social dumping. Pertanto, per comprendere appieno le “risonanze” che

hanno avuto le due decisioni (e l’allarme che hanno suscitato in molti) occorre provare a immaginare il clima di paura diffuso all’interno dei “vecchi” Stati membri, preoccupati della possibile corsa al ribasso degli

standard di tutela dei lavoratori che potrebbe scaturire dalla circolazione

delle imprese e dei lavoratori provenienti dai “nuovi” Stati membri (in particolare, quelli dell’Europa centro-orientale)207.

Nel caso Viking si trattava di un conflitto tra azione collettiva e libertà di stabilimento. Alla Corte di Giustizia veniva chiesto: 1) se rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art. 43 TCE (relativo alla libertà di stabilimento) un’azione collettiva promossa da un sindacato o da un’associazione di sindacati per indurre un’impresa a sottoscrivere un contratto collettivo tale da dissuaderla dall’esercitare la libertà di stabilimento; 2) se l’art. 43 TCE conferisse ad un’impresa diritti opponibili ai sindacati; 3) se l’azione collettiva del tipo indicato costituisse una restrizione alla libertà di stabilimento ed in quale misura, eventualmente, tale restrizione fosse giustificata. Nel caso Laval veniva in gioco il conflitto tra libertà di prestazione di servizi e diritto di sciopero, ma si aggiungevano anche questioni di interpretazione del diritto svedese e della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori208. In relazione a queste decisioni, il primo aspetto che bisogna segnalare, probabilmente, è il fatto stesso che la Corte si sia ritenuta competente a giudicare sul rapporto tra la libertà di circolazione e il diritto sindacale azionato. Tale esito non era affatto scontato, dato il disposto dell’art. 137.5 TCE (oggi art. 153.5 TFUE), da cui si poteva evincere l’esclusione, dalle competenze regolative dell’Unione, delle retribuzioni, del diritto di associazione, del diritto di sciopero e del diritto di serrata209. La Corte di Lussemburgo, affermando che gli Stati membri, pur essendo in linea di principio liberi di determinare le condizioni                                                                                                                

207 Vedi R. ZAHN, The Viking and Laval Cases in the Context of European Enlargement, in

Web Journal of Current Legal Issues, 2008, disponibile su

http://webjcli.ncl.ac.uk/2008/issue3/zahn3.html.

208 La struttura del caso Laval era più complessa di quella del caso Viking.

209 D’altro canto, bisogna ricordare che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

europea contempla, all’art. 28, il diritto di negoziazione e di azioni collettive. Pertanto, sembra che nel diritto primario sia contenuta un’ “ambiguità” circa la sussistenza di competenze dell’Unione.

di esistenza e i modi di esercizio dei diritti afferenti ad aree che esulano dalla competenza europea, sono comunque tenuti a rispettare anche nelle suddette aree il diritto comunitario, ha trovato una soluzione piuttosto sbrigativa (e non particolarmente convincente) al problema, come messo in luce da alcuni commentatori210. Infatti, se dalle competenze regolative dell’Unione sono esclusi il diritto di sciopero e l’autonomia sindacale,,è possibile ammettere che la Corte di Giustizia stabilisca in che modo gli Stati debbano esercitare le proprie competenze in tali ambiti? Inoltre, invadendo la sfera riservata agli Stati, la Corte di Giustizia ha manipolato diritti costituzionali che afferiscono a quella competenza, senza preoccuparsi particolarmente della posizione sistematica che quei diritti occupano nei rispettivi ordinamenti. Qual è l’altra faccia della medaglia? Attraverso la (discutibile) operazione di sconfinamento, la Corte di Giustizia non può che riconoscere i diritti coinvolti, con il loro status di diritti fondamentali. Ciò può essere interpretato (ed in effetti è stato salutato da taluno) come un miglioramento nella tutela dei diritti fondamentali in Europa211. Tuttavia, il risultato finale non è così pacifico (altrimenti non si spiegherebbe, del resto, il “polverone” di polemiche che si è abbattuto su queste decisioni): infatti, riconoscendo i diritti sociali fondamentali, la Corte di Giustizia si è anche conquistata la possibilità di “trattarli” secondo i suoi criteri e la sua sensibilità. Emerge, in una vicenda come questa, tutta l’ambiguità che caratterizza il processo di convergenza del diritto dell’Unione europea verso i canoni e i motivi ispiratori delle costituzioni nazionali: è vero che l’ordinamento sovranazionale si appropria di tali canoni e motivi ispiratori, ma sembra perfettamente in grado di “digerirli” senza mutare profondamente la propria identità, anzi funzionalizzandoli alla propria originaria ragion d’essere. Pertanto, sorge, spontanea e legittima, la                                                                                                                

210 Vedi, per esempio, M. V. BALLESTRERO, Le sentenze Viking e Laval: la Corte di

Giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, in Lavoro e diritto, a. XXII, n. 2, 2008, 389-391.

Vedi anche U. CARABELLI, Il contrasto tra le libertà economiche fondamentali e i diritti di

sciopero e di contrattazione collettiva nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia: il sostrato ideologico e le implicazioni giuridiche del principio di equivalenza

gerarchica, in Studi sull’integrazione europea 2/2011, disponibile su

http://studium.unict.it/dokeos/2012/courses/56879C0/document/Letture_per_ commento_sentenze/CARABELLI_2010_Studi_int_eur.pdf, 232-237.

211 Si pensi ai Paesi dove il diritto di sciopero non è stato legalmente riconosciuto, come il

domanda: la convergenza dell’Unione verso le istanze sociali del costituzionalismo rappresenta, in fondo, un guadagno o una perdita per queste istanze? Infatti, da un lato, con il processo di appropriazione, le Costituzioni nazionali non possono più vantare l’esclusiva su tali istanze (con le evidenti ripercussioni in termini di legittimazione e autorevolezza al cospetto del diritto sovranazionale); dall’altro, tali istanze si trovano inglobate nell’architettura sovranazionale, di cui devono rispettare gli assi portanti. Probabilmente, alla precedente domanda non si può dare una risposta univoca e generale. “Saltando” l’ostacolo rappresentato dall’art. 137.5 TCE, e riconoscendo effetti orizzontali alla libertà di circolazione, che diventa, in questo modo, opponibile anche all’autonomia delle organizzazioni sindacali, la Corte si conquista la possibilità di effettuare un bilanciamento, in cui l’azione collettiva viene qualificata come “restrizione” della libertà di circolazione. Perché sia ammessa una tale restrizione, occorre che ‹‹persegua un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato e sia giustificata da ragioni imperative di interesse generale. È, tuttavia, anche necessario, in tali casi, che essa sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e che non vada al di là di ciò che è necessario per conseguirlo›› (sentenza Viking, punto 75). Secondo la Corte, per considerare giustificata l’azione collettiva occorre che essa sia effettivamente connessa all’obiettivo di tutela, e a tal fine bisogna accertare se i posti e le condizioni di lavoro siano compromessi o seriamente minacciati; inoltre, il giudice deve verificare se il sindacato disponga di mezzi meno restrittivi della libertà di circolazione e se li abbia adoperati, prima di giungere a operare una certa azione collettiva. Emerge abbastanza chiaramente che la Corte sta adoperando gli schemi e il linguaggio del test di proporzionalità.

Su questi aspetti bisogna soffermarsi. Innanzi tutto, occorre apprezzare in maniera più consapevole le implicazioni del riconoscimento degli effetti orizzontali delle libertà economiche di circolazione nei confronti dell’azione sindacale e del contratto collettivo. Tale riconoscimento non è affatto pacifico. Infatti, la tutela delle libertà economiche di circolazione contro le limitazioni e le restrizioni apportate da misure del potere pubblico nazionale, al fine di costruire un mercato unico, non comporta come conseguenza logica e necessaria che tali libertà debbano essere protette

anche da possibili limitazioni costituite dall’esercizio di diritti sindacali. Le due situazioni sono sostanzialmente diverse: se l’ordinamento sovranazionale mira alla creazione di un mercato libero, ne deriveranno le necessarie conseguenze per il potere pubblico statale, il quale potrà apportare restrizioni alle libertà di circolazione sono nella misura in cui esse siano proporzionate; su tutt’altra dimensione si muovono invece i soggetti sindacali, in quanto si tratta di soggetti privati che prendono parte al conflitto sociale. Una volta che il mercato è stato aperto e non ci sono (sproporzionate) restrizioni alla libertà di circolazione provenienti dalla pubblica autorità, perché i soggetti economici che godono i vantaggi di una più elevata mobilità non dovrebbero anche affrontare gli oneri di un conflitto sociale più aspro, a seconda dello Stato membro in cui approdano? Non c’è una ragione che porta necessariamente a qualificare i diritti sindacali come restrizioni alla libertà di circolazione. Si può aggiungere, anzi, che l’impostazione della Corte di Giustizia appare criticabile alla luce di una considerazione di fondo, che si può riassumere nella frase attribuita all’economista del lavoro americano John Commons: “un sindacato deve organizzare la lunghezza e la larghezza del mercato”. Significa che «un sindacato deve essere in grado di porre il prezzo del lavoro al di fuori della concorrenza del mercato, e può farlo solo se è in grado di organizzare tutti i lavoratori che realizzano il prodotto che sarà venduto nello stesso mercato212››. Le libertà economiche europee permettono alle imprese di entrare in altri mercati: pertanto, è normale che i sindacati operanti in quei mercati cercheranno di tutelare anche i lavoratori delle imprese che fanno ingresso nel mercato, altrimenti queste sfrutteranno il vantaggio derivante dai più bassi costi del lavoro (con pregiudizio per le imprese che hanno costi più alti, e per i loro lavoratori). Quindi, desta perplessità una considerazione del diritto di sciopero e della negoziazione collettiva come limitazioni delle libertà economica europea di circolazione: l’impresa è libera di entrare in nuovi mercati, ma a questo punto dovrebbe affrontare le azioni sindacali alle quali sono soggette le imprese di quel mercato (si potrebbe dire, in un modo                                                                                                                

212 J.BELLACE, Modernizzazione del lavoro: come gli ordinamenti nazionali affrontano le

sfide dell’economia globalizzata, in F. BASENGHI – L. . GOLZIO (a cura di), Regole,

più semplice, che, quando l’impresa sceglie di entrare in un nuovo mercato, di questo prende il “positivo” e il “negativo”: e nel “negativo” per l’impresa rientrano anche i contrasti sindacali). Ragionando diversamente, si adotterebbe una logica al ribasso delle tutele sociali e ostile all’idea di conflitto sociale213. Fatta questa premessa critica sugli effetti orizzontali delle libertà economiche di circolazione, bisogna affrontare la questione dell’applicazione del test di proporzionalità. Conferendo effetti orizzontali alle libertà economiche di circolazione, la Corte di Giustizia ha dovuto effettuare un bilanciamento tra queste e le ragioni dei diritti sindacali; nel fare ciò, essa ha applicato il test di proporzionalità secondo uno schema concettuale sovrapponibile a quello utilizzato nei confronti delle misure statali restrittive delle libertà di circolazione. Pertanto, sembra proprio che la Corte abbia implicitamente equiparato l’esercizio di un diritto sindacale all’esercizio del potere pubblico. Una simile impostazione è parsa – giustamente – del tutto criticabile. Come ricorda Giubboni, il test di adeguatezza e proporzionalità era stato tradizionalmente pensato e modulato con riferimento alle misure statali, per cui la sua applicazione all’azione sindacale o al contratto collettivo è in grado di dare luogo a ‹‹risultati perversi, aggravando la posizione di debolezza delle parti sociali nel conflitto collettivo transnazionale››214. Giubboni accusa la Corte di                                                                                                                

213 Si deve dare conto del fatto che in dottrina non tutti criticano l’attribuzione alle libertà

economiche di effetti orizzontali anche nei confronti della sfera d’azione dei soggetti collettivi. Per Giubboni, per esempio, l’applicabilità in via orizzontale anche nei confronti dei soggetti collettivi ‹‹può apparire di massima giustificata alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza sul mercato interno››; tuttavia, secondo l’A., l’impostazione della Corte ha molti aspetti controversi, ‹‹a partire dalla difficoltà di elaborare criteri sufficientemente definiti in ordine ai presupposti oggettivi che giustifichino, in concreto, siffatta estensione in via orizzontale del raggio applicativo – già ampio e pervasivo – delle libertà economiche. La soluzione sinora accolta a questo riguardo dalla Corte, con una sostanziale assimilazione tra azione sindacale (in primis nella forma dello sciopero) e contrattazione collettiva (ovvero con un’equiparazione funzionale tra la sfera dei comportamenti materiali in cui si attua il conflitto collettivo e quella dell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti sociali e dei relativi prodotti regolativi), solleva evidenti problemi concettuali, e non può

essere assunta nei termini schematici delle sentenze Laval e Viking›› (S. GIUBBONI, Diritti e

solidarietà in Europa, cit., 67). In realtà, la diversità di opinioni tra quanti colgono nella

giurisprudenza in esame un rapporto di equivalenza gerarchica, e quanti vi colgono, invece, un rapporto di prevalenza delle libertà economiche, è forse più apparente che reale. L’equivalenza gerarchica, infatti, si risolve, in definitiva, in una prevalenza della libertà economica sui diritti sociali, in quanto libertà economica e diritti sociali corrispondono a posizioni che sono in partenza squilibrate (il capitale e il lavoro): pertanto, se le corrispondenti tutele giuridiche si pongono su un piano di equivalenza, lo squilibrio permane.

“confusione concettuale” tra due situazioni soggettive che, nella storia del costituzionalismo liberale, sarebbero state sempre distinte: da un lato il potere pubblico impersonato dalla potestà normativa dello Stato, dall’altro il diritto di sciopero e la libertà garantita alle manifestazioni dell’autonomia privato-collettiva. La Corte, dunque, in Viking e Laval, considera il diritto di sciopero e di contrattazione collettiva come forme di potere del tutto analoghe a quelle esercitate dalla pubblica autorità. Osservando che un potere non è un diritto, e che, mentre il primo richiede controllo, il secondo esige protezione, Giubboni ravvisa il pericolo di un allontanamento della Corte dalla tradizione di pensiero che concepisce lo sciopero, la contrattazione collettiva e la libertà sindacale come radicate nell’autonomia privata215. Utilizzando in maniera peculiare (e impropria) il test di proporzionalità, la Corte affida al potere giudiziario il compito ingrato di valutare addirittura se una certa azione sindacale sia proporzionata216. Si può parlare di una sorta di “giurisdizionalizzazione del conflitto sociale”. Tale fenomeno è alquanto discutibile. Ci si potrebbe chiedere, infatti, da quale fonte di conoscenza il giudice tragga i parametri e i criteri per compiere le valutazioni su un’azione sindacale alla luce del test di proporzionalità. Probabilmente, c’è il rischio, amplificato dal carattere flessibile ed elastico del concetto stesso di proporzionalità, che tali valutazioni siano rimesse alla sensibilità politico-sociale del singolo giudice217. L’autodeterminazione sindacale è seriamente minacciata218. Nel                                                                                                                

215 Vedi IVI, 68.

216 E quindi idonea a raggiungere lo scopo e insuscettibile di essere sostituita con

alternative meno restrittive della libertà di circolazione.

217 A tal riguardo, nel giudizio di proporzionalità scorge una minaccia per l’imparzialità

dello Stato nei conflitti economici B. BERCUSSON, The Trade Union Movement and the

European Union: Judgment Day, in European Law Journal, 2007. A tale rischio è

connessa la possibilità di creare forti disparità tra gli Stati con riguardo alla protezione

dell’azione collettiva (vedi R. ZAHN, The Viking and Laval Cases , cit., 17).

218 Vedi, per esempio, M. V. BALLESTRERO, Le sentenze Viking e Laval, cit., , 383-384.

Per De Salvia, la Corte di Giustizia imprigiona il conflitto in una logica strettamente funzionalista, rigettando una dimensione più squisitamente volontaristica delle relazioni

industriali in cui l’autonomia collettiva persegue liberamente qualsiasi fine (A. DE SALVIA,

Il bilanciamento tra le libertà economiche e i diritti sociali collettivi operato dalla Corte di Giustizia è un contemperamento tra diritti equiordinati?, in WP CSDLE “Massimo

D’Antona”.INT – 98/2012, 3). Per Giubboni, il criterio della proporzionalità ‹‹spinge la Corte in territori inesplorati anche nelle tradizioni giuridiche dove lo sciopero viene più debolmente protetto, attirando il giudice nazionale in una difficilissima valutazione sul merito del conflitto collettivo, sulla giustificatezza stessa degli obiettivi di tutela e sulla congruità dei mezzi volti a conseguirli. Una valutazione di merito sindacale che – a rigore –

caso Laval, il test di proporzionalità viene adoperato svolgendo uno strict

scrutiny particolarmente restrittivo. La Corte, infatti, entra nel merito degli

obiettivi e della proporzionalità dell’azione collettiva sulla scorta di una certa interpretazione della direttiva 96/71. La Corte ha ritenuto che un aspetto del diritto sindacale svedese sia inconciliabile col diritto europeo, fissando anche un limite massimo al miglioramento delle tutele dei lavoratori tramite la contrattazione collettiva. Infatti, in Svezia il contratto collettivo non aveva efficacia generale219. Quindi, era compito delle parti sociali determinare mediante negoziazione le retribuzioni e, nel caso delle imprese edili (di cui si tratta in Laval), le trattative dovevano avvenire caso per caso, sul luogo di lavoro. Tale sistema non è imponibile, secondo la Corte, alle imprese straniere, per due motivi essenzialmente: da un lato, ciò renderebbe impossibile prevedere i costi, dall’altro, nel caso di specie, i sindacati volevano imporre alcune condizioni superiori a quelle previste dalle stesse leggi svedesi nelle materie di cui all’art. 3, n. 1, primo comma, lett. a) e g) della direttiva. Nonostante l’art. 3.7 della direttiva contenga una previsione che parrebbe far salve le condizioni più favorevoli, la Corte ha escluso un’interpretazione secondo la quale lo Stato membro ospitante potrebbe subordinare la realizzazione di una prestazione di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima. Dunque, appiattendo il

test di proporzionalità sulla verifica dell’osservanza della direttiva sul

distacco, la Corte adopera un test di strict scrutiny particolarmente restrittivo, che neutralizza le potenzialità di elevazione degli standard di tutela attraverso l’azione e la contrattazione collettiva220. La Corte parrebbe essersi preoccupata di conservare il vantaggio competitivo dei prestatori di servizi stabiliti in Paesi con più bassi costi del lavoro.

La Corte compone il rapporto tra diritti sociali e libertà economiche secondo un assetto che non è precostituito altrove, ma che costruisce essa stessa,                                                                                                                                                                                                                                                                                           non dovrebbe essere neppure lambita dal controllo giudiziale e che è oltretutto condotta alla stregua di un test di strict scrutiny che si rivela particolarmente ostile all’autonomia dell’azione collettiva, finendo per limitare gli scopi di autotutela legittimamente

perseguibili dalle parti sociali›› (S. GIUBBONI, Diritti e solidarietà in Europa, cit., 70).

219 La Svezia non si era avvalsa della possibilità – consentita dalla direttiva – di estendere

l’efficacia dei contratti collettivi, mediante il test of applicability in fact.

arrivando ad esiti non prevedibili. Se il bilanciamento delle libertà economiche con alcuni diritti fondamentali aveva visto la prevalenza di questi ultimi nei casi Schmidberger e Omega, il bilanciamento delle libertà economiche con i diritti sociali ha visto prevalere le prime. La logica procedurale e asettica del giudizio di proporzionalità si sovrappone ad una opzione forte verso un certo modello economico-sociale, che però non viene espressamente alla luce (proprio perché “coperta” dall’utilizzo della tecnica della proporzionalità)221. In riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, si è parlato anche di un bilanciamento “libero”, perché non orientato da vincoli costituzionali o paracostituzionali, e affidato semplicemente ad un “indeterminato” principio di proporzionalità222. Il problema non sta tanto nell’effettuazione di un bilanciamento, in quanto esso pare inevitabile, ma piuttosto nel tipo di bilanciamento che viene effettuato223. I due poli in conflitto (i diritti sociali e le libertà economiche) sono caratterizzati entrambi dall’essere “fondamentali”, ma ciò di per sé non