• Non ci sono risultati.

3. La questione sociale nella dinamiche di “divergenza” e

3.2 La (parziale) convergenza

3.2.1 Convergenza del diritto sovranazionale verso il

Con l’attivazione del processo di convergenza, si assiste ad una tendenza del diritto dell’Unione europea ad inglobare l’idea di giustizia sociale all’interno del mercato comune152 . Ciò avviene, in maniera assai significativa, attraverso un ridimensionamento del ruolo del mercato comune all’interno dell’ordinamento sovranazionale, cosa che, oggi, traspare, per esempio, al livello apicale delle fonti del diritto eurounitario, all’art. 2 e all’art. 3, par. 3 TUE. Il primo recita: ‹‹L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini››. Si tratta, evidentemente, del recepimento della tradizione del costituzionalismo democratico. Il secondo recita: ‹‹L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri. Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del                                                                                                                                                                                                                                                                                           necessaria autonomia dello Stato sociale nazionale nell’ambito del nuovo contesto istituzionale di apertura economica controllata››.

152 Secondo Dani, ciò avviene almeno lungo quattro traiettorie principali : il

ridimensionamento del ruolo del mercato comune nell’assetto istituzionale complessivo dell’Unione, l’incorporazione di principi e politiche sociali, l’appropriazione del tema dei

diritti fondamentali e l’introduzione della cittadinanza europea (vedi M.DANI,Il diritto

patrimonio culturale europeo››. Da questo paragrafo traspare che l’obiettivo del mercato interno non è più solitario, ma si inquadra in un contesto più ampio e complesso in cui trovano spazio, per esempio, idee come quella di giustizia sociale, piena occupazione e progresso sociale: ne deriva necessariamente che l’obiettivo del mercato interno è relativizzato e ridimensionato, non porta più sulle sue sole spalle il peso dell’integrazione europea. Si pensi, poi, alla clausola sociale orizzontale di cui all’art. 9 TFUE153.

Questa mutazione della collocazione e del ruolo del mercato nell’ordinamento sovranazionale si può vedere in atto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia154, ma anche in altre fonti del diritto dell’Unione155. Tuttavia, il processo di convergenza ha mosso i suoi primi passi in un tempo non recente. Con specifico riguardo all’ambito sociale, si può evidenziare che già negli anni ’70 si possono cogliere i primi segnali della sensibilità sociale delle istituzioni comunitarie. Come spiega Giubboni, in questa fase storica si ravvisa un primo allontanamento dalla “purezza dei paradigmi teorici ordoliberali”, ma si tratta di un allontanamento ancora fortemente ancorato alla logica di fondo dell’assetto originario dei rapporti tra le due componenti del diritto pubblico europeo: preservare, da un lato, il corretto funzionamento del mercato comune, dall’altro la sovranità sociale degli Stati membri. A un certo punto, cambiano alcune precondizioni fondamentali sulle quali si reggeva la summa divisio originaria (europeo- economico/nazionale-sociale), muta lo scenario globale: le pressioni della crisi economica mettono a dura prova la tenuta dei sistemi nazionali di                                                                                                                

153 Su tale clausola, vedi M.D. FERRARA,L’integrazione europea attraverso il « social

test » : la clausola sociale orizzontale e le sue possibili applicazioni,in Rivista giuridica del lavoro e delle previdenza sociale, 2013, fasc. 2.

154 Dani rammenta la causa C-267-268/91, Procedimento penale a carico di Bernard Keck

e Daniel Mithouard [1993], in cui la Corte di Giustizia, moderando il suo precedente

orientamento sull’art. 34 TFUE, stabilisce che in via di principio le misure statali relative alle modalità di vendita sono escluse dal divieto di misure equivalenti alle restrizioni quantitative. Dani ricorda anche la giurisprudenza in cui la Corte mostra una maggiore disponibilità ad ampliare il novero delle esigenze imperative, con una interpretazione meno

incisiva del principio di proporzionalità (per questi riferimenti, vedi M. DANI, Il diritto

pubblico europeo, cit., 173).

155 Si può ricordare il Regolamento (CE) 994/1998 del Consiglio, 7.5.1998, in cui si ravvisa

un allentamento del rigore dei divieti imposti dai trattati anche in materia di aiuti di stato. Inoltre, più recentemente, in occasione della crisi economico-finanziaria, con una serie di comunicazioni la Commissione ha ulteriormente allentato la presa sugli aiuti di stato (vedi

welfare, fino al punto di decretare la fine dell’età dell’oro dello Stato

sociale, ovvero il ciclo espansivo trentennale iniziato col secondo dopoguerra (il “trentennio glorioso”). Non è un caso che, proprio nel momento in cui si avverte una forte battuta d’arresto del percorso espansivo e ascendente del welfare nazionale, si registra l’esordio delle politiche sociali, o comunque delle politiche armonizzatrici della CEE in materia di lavoro156. In questa stagione breve di armonizzazione “nel progresso”, si concretizza, attraverso alcune importanti direttive (licenziamenti collettivi, 1975; trasferimento d’azienda, 1977; tutela dei lavoratori di fronte all’insolvenza dell’impresa, 1980), ‹‹il compito in qualche modo costitutivo della politica sociale comunitaria, così come pensata dal TCEE: quello della difesa dei sistemi nazionali dalle spire del dumping sociale e della concorrenza al ribasso sugli standard di tutela dei lavoratori157››. In un certo senso, è come se al “patto originario”, caratterizzato da una spartizione netta e da una marcata delimitazione dei confini, si apportasse una correzione, una deroga: si deve garantire l’intervento sovranazionale, sub specie di armonizzazione nel progresso, ogniqualvolta i fallimenti del mercato comune possano mettere in pericolo – soprattutto attraverso forme di concorrenza al ribasso – il mantenimento di elevati livelli di protezione sociale da parte degli Stati158. Alla luce di ciò, si può condividere la conclusione per cui la stagione (breve) dell’armonizzazione nel progresso rappresenta un tentativo di rinnovare fedeltà ai grandi fini del progetto europeo delle origini, attraverso un primo allontanamento dalla purezza della strategia originaria di perseguimento di quei fini. Tra questi fini, vi erano senz’altro quelli legati alle promesse di uguaglianza, redistribuzione e liberazione dal bisogno inscritte nel cuore dei sistemi di welfare159. Se in origine il raggiungimento di questi fini era delegato interamente all’ambito nazionale, con la stagione dell’armonizzazione nel progresso si riconosce la possibilità che il diritto sovranazionale possa intervenire quando i sistemi                                                                                                                

156 S. GIUBBONI, Diritti e solidarietà in Europa, cit., 41-43.

157 IVI, 43.

158 Vedi IVI, 44.

159 È pienamente condivisibile, a tal riguardo, l’affermazione di Giubboni, per il quale,

nella visione originaria ispiratrice del progetto europeo, ‹‹non esiste […] come non è effettivamente esistito in una prima fase del processo di integrazione, un deficit sociale

nazionali incontrano difficoltà. Come si è detto, però, la stagione dell’armonizzazione nel progresso è stata breve160. Intorno alla metà degli anni Ottanta si colloca una svolta importante per la costruzione comunitaria161 . Il progetto contenuto nel Libro bianco di Delors ‹‹presuppone che i nuovi paradigmi di razionalità economica e di efficienza mercantile possano dispiegarsi ben oltre le tecniche della mera integrazione negativa e della rimozione degli ostacoli alle libertà di circolazione dei fattori produttivi: esso esige, infatti, la costruzione di una “sofisticata macchina regolativa”, un corrispondente adeguamento del processo legislativo comunitario ed un ampliamento delle competenze delle Comunità in sfere d’intervento squisitamente politiche. Ed esige – quantomeno nei propositi e nelle ambizioni di Delors – il potenziamento, in funzione compensativa, delle capacità di governo della “dimensione sociale” da parte delle istituzioni sopranazionali, essendo chiaro ai redattori del Libro bianco che la forte impronta di razionalizzazione economica impressa al rilancio dell’integrazione europea avrebbe altrimenti generato, senza contrappesi, quel deficit sociale ormai latente nella rottura degli originari assetti comunitari162››. Purtroppo, l’Atto unico europeo non è stato all’altezza degli obiettivi (e delle conseguenti esigenze) di Delors:                                                                                                                

160 ‹‹In mancanza di basi adeguate (o, meglio, costretto dentro gli angusti limiti funzionali

disegnati dal TCEE), per quanto perseguito “con audacia e fantasia innovativa”, “l’obiettivo della armonizzazione legale, cioè della normativa di intervento diretto sugli ordinamenti nazionali”, rivelerà tuttavia ben presto la sua fragilità, esposto com’era (e com’è) alle variabili contingenze del compromesso e del sempre più difficile consenso politico prodotto dalla negoziazione intergovernativa comunitaria›› (ibidem).

161 Per Joerges, il libro bianco della Commissione Delors è stato percepito «not only as a

turning point, but also a breakthrough in the integration process. […] Economic rationality, rather than “law”, was, from now on, to be understood as Europe’s orienting maxim, its first commitment and its regulative idea. In this sense, it seems justified to characterise Delors’programme as a deliberate move towards an institutionalisation of economic rationality» (C. JOERGES, Sozialstaatlichkeit in Europe, cit., 342).

162 S. GIUBBONI, Diritti e solidarietà in Europa, cit., 45. Vedi anche C. JOERGES, Sozialstaatlichkeit in Europe, cit., 342: «What had started out as an effort to strengthen

Europe’s competitiveness and to accomplish this objective through new (de-regulatory) strategies, soon led to the entanglement of the EU in ever increasing policy fields and the development of sophisticated regulatory machinery. It was, in particular, the concern of European legislation and the Commission with “social regulation” (the health and safety of consumers and workers, and environmental protection) which served as irrefutable proof of this. The weight and dynamics of these policy fields had been thoroughly under- estimated by the proponents of the “economic constitution”. Equally important and equally unsurprising was the fact that the integration process intensified with the completion of the Internal Market and affected ever increasing policy fields. This was significant not so much in terms of its factual weight, but in view of Europe’s “social deficit”, in terms of the new efforts to strengthen Europe’s presence in the spheres of labour and social policy».

nonostante siano state apprestate nuove basi giuridiche dell’ “Europa sociale”, l’armonizzazione sociale per direttive si rivolge a modelli di intervento minimo, poco invasivo, tendenti più al coordinamento delle politiche e non tanto alla standardizzazione normativa163. È negli anni Ottanta che si rompe l’equilibrio originario e si può, forse, cominciare a parlare di deficit sociale europeo.

Da un certo punto di vista, potrebbe sembrare un fenomeno un po’ paradossale. Finché il diritto sovranazionale non si è occupato di temi sociali, non sussistevano serie preoccupazioni circa il perseguimento dei fini di giustizia redistributiva, mentre proprio quando i contenuti sociali si immettono in maniera evidente nel tessuto del diritto sovranazionale, si accusa un deficit sociale europeo. In realtà, se si allarga lo sguardo alla complessità dei fenomeni e non ci si arresta alla superficie, si può arrivare alla spiegazione di questo (apparente) paradosso. Alla spiegazione si può giungere osservando il percorso del processo di convergenza delle due componenti del diritto pubblico europeo, facendo attenzione alle sue peculiarità e soprattutto alle sue ambiguità. Si osservi il processo di immissione di contenuti sociali nel diritto sovranazionale (una sorta di “socializzazione” del diritto sovranazionale). Il Trattato di Maastricht e il Trattato di Amsterdam prevedono ulteriori competenze in materia sociale, contemplando un ruolo formale per le parti sociali nell’elaborazione delle norme sui rapporti di lavoro, e creando le basi per una lotta alle discriminazioni164. Successivamente, il quadro delle politiche sociali viene arricchito da tentativi di coordinamento delle politiche del lavoro e di altri settori dello stato sociale e, attualmente, l’Unione interviene a diverso titolo in materie quali l’occupazione (art. 145 TFUE), l’istruzione (art. 165 TFUE), la formazione professionale (art. 166 TFUE) e la sanità pubblica                                                                                                                

163 Vedi IVI, 46.

164 Da un certo punto di vista, non stupisce che le critiche più nette al Trattato di Maastricht

siano state mosse proprio dagli ordoliberali tedeschi. Dal momento che venivano esplicitamente riconosciute e rafforzate nuove competenze, non era più plausibile assegnare una funzione costitutiva e un primato normativo al sistema della concorrenza non distorta, perché la politica della concorrenza era ora divenuta uno tra i molteplici “impegni” assunti dall’Unione. Inoltre, l’espansione delle competenze in campo lavoristico da parte del Protocollo sociale e da parte dell’Accordo sulla politica sociale del Trattato ha reso confuse le - un tempo chiare - linee di confine tra la costituzione economica dell’Europa e la responsabilità politica assunta dagli Stati membri in relazione alle politiche sociali e del

(art. 168 TFUE)165. Di grande importanza è il recepimento dei diritti sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione: ‹‹nel codificare le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri in materia di tutela dei diritti sociali, la Carta sembra procedere spedita sulla strada di un impegno per la giustizia sociale e la solidarietà […] ingenerando l’impressione (o, forse, solo la suggestione) di un’avvenuta legittimazione del conflitto sociale a livello sovranazionale sulla falsariga di quanto già accaduto al momento dell’approvazione delle costituzioni democratiche166››. Un ulteriore ambito in cui si manifesta l’emersione dell’Europa sociale è quello della cittadinanza europea: con le norme sulla cittadinanza europea, infatti, sono sufficienti lo status di cittadino europeo e l’esercizio della libertà di movimento per accedere alla protezione fornita dalla Corte di Giustizia, ragion per cui si può affermare che la garanzia dei diritti viene scissa dall’esercizio di una libertà economica. Si delinea, dunque, una sorta di cittadinanza sociale transnazionale, anche in virtù di una legislazione sovranazionale che riconosce a tutti i cittadini europei, che hanno maturato un certo periodo di residenza in uno Stato membro diverso da quello di origine, il diritto di accedere a tutte le prestazioni sociali, grossomodo167. In verità, però, nonostante si riscontrino questi elementi di novità, persiste anche l’influenza delle caratteristiche originarie, che attenua il processo di convergenza. Le competenze dell’Unione in materia di politiche sociali sono molto frammentarie e risentono dei limiti di uno strumentario che è molto distante da quello degli Stati: in particolare, l’Unione non è in grado di promuovere rilevanti strategie redistributive tramite i canali della imposizione fiscale e della spesa pubblica168. Gli strumenti di cui l’Unione si serve per affrontare i temi sociali sembrano, invero, caratterizzati da una certa fragilità. Si pensi, per esempio, a quelli che Joerges ha definito “pilastri” dell’Europa sociale: la nozione di economia sociale di mercato169,                                                                                                                

165 Vedi M. DANI, Il diritto pubblico europeo, cit., 176.

166 IVI, 177. La mutata sensibilità dell’Unione trova espressione nella giurisprudenza in

materia di lotta alle discriminazioni in ragione dell’età e dell’orientamento o dell’identità sessuale.

167 Vedi IVI, 178-179.

168 Vedi IVI, 182.

169 Come ricorda Joerges, la nozione di economia sociale di mercato fu coniata nei primi

tempi della Repubblica Federale di Germania, e indicava una sorta di terza via tra il capitalismo del laissez-faire e il socialismo. Questa terza via implicava: politiche

i diritti sociali170, i meccanismi di soft law per il coordinamento delle politiche sociali e del mercato del lavoro 171. Più che creare discontinuità o                                                                                                                                                                                                                                                                                           redistributive tramite imposizione fiscale e sussidi, salari minimi, supporti tramite il

welfare, sussidi per locazioni, investimenti in istruzione superiore, l’obiettivo di un alto

tasso di occupazione. Nota Joerges che la nozione europea di economia sociale di mercato competitiva non può essere equiparata al modello storico originario, per il semplice fatto che il diritto europeo non dispone delle competenze per raggiungere molti degli obiettivi

prefissati (vedi C. JOERGES, Sozialstaatlichkeit in Europe?, cit., 344).

170 Per i diritti sociali valgono obiezioni simili a quelle mosse nei confronti della nozione di

economia sociale di mercato. Ovviamente, vanno distinti i diritti cosiddetti collettivi (come il diritto di sciopero) dai diritti ad ottenere prestazioni. Questi ultimi richiedono di essere attuati in via legislativa e di essere finanziati: ciò rappresenta un problema per il loro riconoscimento a livello europeo (vedi ibidem).

171 Il pensiero corre immediatamente al Metodo Aperto di Coordinamento, a proposito del

quale afferma Joerges: «What, until then, had been perceived as an obstacle to the

strengthening of Europe’s social dimension, namely, the lack of genuine European competences and the unavailability of the traditional “Community method” was now presented as a normative virtue with some regulatory potential» (C. JOERGES, Sozialstaatlichkeit in Europe?, cit., 343). Le origini del Metodo Aperto di Coordinamento risalgono ad uno storico vertice europeo svoltosi a Lisbona durante la presidenza portoghese del Consiglio (Consiglio europeo straordinario del 23-24 marzo 2000). Si tratta del vertice che lanciò la cosiddetta “strategia di Lisbona”, volta a valorizzare le politiche occupazionali anche attraverso un migliore coordinamento dei processi esistenti (politiche economiche, strutturali e di coesione sociale e potenziamento dell’economia della conoscenza). Si ritenne necessario – per rispettare e attuare un’agenda ricca come quella che era stata definita – dotare il Consiglio di più forti poteri di coordinamento (emanazione di linee guida verso gli Stati membri, da intendersi come indicazioni autorevoli circa le politiche nazionali da attuare). Esso fornisce un quadro di cooperazione tra gli Stati membri per far convergere le politiche nazionali al fine di realizzare obiettivi comuni. Inoltre, gli Stati membri sono valutati da altri Stati membri, e la Commissione si limita a svolgere un ruolo di sorveglianza, mentre il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia sono quasi completamente estromessi. Il Metodo Aperto di Coordinamento si avvale di misure di soft

law che possono essere più o meno stringenti, ma non ricorre mai a regolamenti, direttive e

decisioni. Come afferma Sciarra, «il MAC, proprio per essere un metodo soft, si sottrae al controllo di legittimità da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Le raccomandazioni del Consiglio, se leggiamo attentamente l’art. 263, comma 1, TFUE, devono essere considerate estranee alla giurisdizione della Corte. Siamo in presenza di politiche deboli, non soltanto perché basate su un metodo non vincolante, ma perché questo metodo è anche privo di giustiziabillità e, quindi, in un certo senso, ulteriormente indebolito. Sullo sfondo dell’agenda “Europa 2020”, un documento che si prefigge obiettivi molto ampi e che contiene numerose proposte al suo interno, si possono leggere le indicazioni del TFUE, che prevede espressamente, agli artt. 121 e 148, che gli Stati membri considerino le politiche occupazionali e le politiche economiche come “materie di interesse comune”, e quindi come oggetto di coordinamento. Il metodo è, dunque, pienamente riconosciuto dal diritto europeo primario, sennonché restano incerte le modalità per

pretendere gli adempimenti attesi dai governi degli Stati membri» (S. SCIARRA, “Europa

“2020”, mercato e diritti sociali, in F. BASENGHI – L. E. GOLZIO (a cura di), Regole,

politiche e metodo. L’eredità di Marco Biagi nelle relazioni di lavoro di oggi, Giappichelli,

Torino, 2013, 221-222). Il Metodo Aperto di Coordinamento fu guardato con molto interesse dagli studiosi, in particolare dai cultori della democrazia deliberativa: «l’apertura degli apparati istituzionali all’apporto della società civile e di numerosi stakeholders, portatori di interessi diffusi, serviva, in quegli anni, a garantire una maggiore trasparenza dei processi decisionali (S. Sciarra, L’Europa e il lavoro, cit., 28). Le linee guida del Consiglio avrebbero dovuto innescare comportamenti virtuosi dei governi nel campo delle politiche occupazionali, all’interno di un processo di reciproca emulazione; tuttavia, i risultati raggiunti non sono stati esaltanti, anche a causa di apparati amministrativi a livello nazionale non “all’altezza” dei compiti richiesti. I piani nazionali proposti dai governi si

brusche inversioni di rotta, ‹‹i principi non economici si innestano nel tronco tradizionale del diritto sovranazionale e, per questa via, ne alimentano una rilettura in senso sociale››172. Si potrebbe dire che, in qualche misura, a dispetto di quanto si potrebbe ricavare dalla lettura di alcune previsioni contenute nelle fonti apicali de diritto UE (come gli artt. 2 e 3, par. 3 citati), la “socializzazione” dell’Unione non stia producendo una reale mutazione genetica della stessa, con un corrispondente scompaginamento dell’ordine delle priorità, ma piuttosto contribuisca a smussare le asperità della logica “mercatista”, mostrando un’attenzione agli