Ermanno Orlando
Nel dicembre 1396 l’Avogaria di comun, una della magistrature giudi-ziarie del comune di Venezia, aveva esaminato il caso di un certo Paolo del fu Giorgio Alessi, albanese, residente nella contrada di San Moisè, accusato di ammutinamento e sedizione. Secondo i capi di accusa, nel precedente viaggio delle galee di Fiandra, cui aveva partecipato in quali-tà di uomo da remo, aveva indotto la ciurma alla ribellione, a motivo della miseria delle paghe corrisposte e delle pessime condizioni del lavoro. Una volta attraccati i vascelli nel porto di Londra, Paolo, imbracciando una bandiera strappata ad una delle galee, aveva guidato la rivolta; gli insorti, radunati su una collina alla periferia della città, l’avevano proclamato loro capo e «rex», investendolo della guida della sommos-sa e delegandone le trattative con i sopracomiti della muda, ansiosi di giungere ad una conciliazione per riprendere quanto prima possibile il viaggio di ritorno. Presto assicurato alla giustizia, Paolo era stato con-dannato ad una pena esemplare: viaggio infamante per il Canal grande, da San Marco a Rialto, legato ad un palo su di una imbarcazione piatta (in modo da risultare ben visibile da riva); proclamazione pubblica della sua colpa sulle scale del ponte di Rialto; fustigazione davanti alle carceri inferiori; reclusione per cinque anni; infine, bando perpetuo dalla città e dai suoi domini. In aggiunta – ed è quanto qui interessa –, con evidente intento mimetico e derisorio, Paolo avrebbe portato per tutto il tempo della sua esposizione al pubblico ludibrio una corona di carta in testa; lui che era stato il re dei rivoltosi, si sarebbe accomiatato dalla città e dal suo sistema di tutele e protezioni recando in capo, in segno di scherno e riprovazione, la corona che ne aveva provocato l’infamia e l’espulsione dalla comunità.1
1. Venezia, Archivio di Stato (=asve), Avogaria di comun, Raspe (=Raspe), reg. 3645, cc. 57v-58v.
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L’imposizione della corona o della mitria, vale a dire l’esibizione del condannato in luogo pubblico con un copricapo di carta o pergamena in testa, spesso recante il tipo di colpa imputata, a «sollazzo» della platea e «vergogna» di chi subiva la punizione, faceva parte della vasta gamma delle pene d’infamia sviluppate dalla giustizia di età comunale (assieme alle diverse altre pene corporali e afflittive) come deterrente per i com-portamenti criminali e freno ad ulteriori infrazioni, ma finalizzate pure ad imporre una umiliazione pubblica ai trasgressori, con intenti dida-scalici e correttivi (oltre che, naturalmente, derisori).2 La pena d’infamia era, alla stessa stregua delle altre sanzioni afflittive e compensative imposte dai comuni medievali, uno strumento prescrittivo e vincolante, con stretto valore giuridico; essa, infatti, comportava pesanti esiti sulla condizione giuridica di chi ne era colpito, in quanto l’infamia svincolava immediatamente il trasgressore dal sistema di protezioni e solidarietà del comune cittadino e ne decretava l’espulsione (temporanea o defini-tiva) dalla comunità, o, quantomeno, la sua relegazione ai margini e la privazione di diritti fondamentali. Inoltre, essa colpiva il responsabile nella dignità e reputazione (o fama), esponendolo per periodi più o meno prolungati alla derisione e al disprezzo pubblici, con una accentuazione del disonore proporzionale ai tempi e alle modalità dell’esposizione subita.3 Oltre a comprensibili finalità intimidatorie e parenetiche e ad evidenti funzioni pedagogiche, le pene d’infamia, e i rituali di derisione ad esse associati, perseguivano intenti, neppure tanto riposti, di osten-tazione del potere comunale, inteso quale garante dell’ordine e della quiete pubblici, e di propaganda, volti a catturare consenso e a stabiliz-zare il sistema, legittimandone gli apparati di giustizia e i suoi canoni di ordine, fedeltà e gerarchia.4
2. A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, v, Torino, utet, 1892, p. 241.
3. Sono queste le riflessioni sviluppate sulla pena d’infamia, e in particolare sulla pittura infamante, da Gherardo Ortalli, cui spetta il merito di aver ricostruito, nei suoi diversi aspetti, il sistema delle pene di umiliazione pubblica nell’Italia di comune, e ai cui fondamentali lavori qui si rinvia: G. Ortalli, «...pingatur in Palatio...». La pittura infamante
nei secoli xiii-xvi, Roma, Jouvence, 1979, in part. pp. 13-15, 32-33; G. Ortalli, Comunicare con le figure, in E. Castelnuovo, G. Sergi (a cura di), Arti e storia nel Medioevo, iii, Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino, Einaudi, 2004, pp. 477-518, in part. p. 503.
4. G. Schwerhoff, Verordnete Schande? Spätmittelalterliche und frühneuzeitliche
Ehrenstrafen zwischen Rechtsakt und sozialer Sanktion, in A. Blauert, G. Schwerhoff (a
cura di), Mit den Waffen der Justiz. Zur Kriminalgeschichte des Spätmittelalters und der
Frühen Neuzeit, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch, 1993, pp. 158-188; A. Zorzi, Rituali di violenza, cerimoniali penali, rappresentazione della giustizia nelle città italiane centro-settentrionali (secoli xiii-xv), in P. Cammarosano (a cura di), Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Roma, École française de Rome, 1994, pp. 395-425, in
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La pena della mitria infamante era applicata soprattutto per i reati finanziari – bancarotte, fallimenti ed esecuzioni per debiti – e per i casi di truffa, inganno, spergiuro, calunnia e falsa testimonianza. A Padova come a Modena, a Firenze come a Parma essa colpiva in particolare i debitori insolventi, costretti a rituali complessi che li esponevano all’u-miliazione delle pene afflittive, spesso all’esposizione vergognosa del corpo denudato e all’ignominia della pittura d’infamia o della corona derisoria. Sono per esempio note le modalità disonoranti e irrisorie con cui in alcune città dell’Italia di comune gli insolventi erano costretti ad attuare pubblicamente la cessio bonorum: nelle pubbliche piazze o in tribunale, di fronte a platee gremite, essi subivano l’ignominia della cerimonia dell’acculattata, che li faceva cadere ripetutamente e con violenza, a sedere scoperto, su apposite pietre, dette del vituperio; messi comunali accompagnavano la pena con il suono della tromba, sino alla promessa del debitore di svendere i propri beni per saldare i debiti (cedo
bona o cedo bonis); sul capo era loro imposto un berretto verde o giallo
o, appunto, la mitria infamante. Ma, in realtà, il copricapo derisorio era applicabile alle più disparate fattispecie di reato, con preferenza per i crimini contro la religione e la morale, ossia quelle particolari forme di pravità e devianza, in specie sessuale, necessitanti, a scopo sanzionato-rio o risarcitosanzionato-rio, pene severe e allo stesso tempo esemplari.5
part. pp. 405-417; A. Zorzi, Dérision des corps souffrants dans les exécutions en Italie à
la fin du Moyen Âge, in E. Crouzet Pavan, J. Verger (a cura di), La dérision au Moyen Age. De la pratique sociale au rituel politique, Paris, Presses de l’Université Paris-Sorbonne,
2007, pp. 225-240; A. Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento: un processo per
frode contro un ebreo nel tribunale della Mercanzia, in D. Ramada Curto, E.R. Dursteler,
J. Kirshner, F. Trivellato (a cura di), From Florence to the Mediterranean and Beyond.
Essays in Honour of Anthony Molho, Firenze, Olschki, 2009, i, pp. 83-102, in part. pp.
97-98. Più in generale, sui riti della giustizia penale, qui si rinvia solo a C. Gauvard, R. Jacob (a cura di), Les rites de la justice. Gestes, rituels judiciaires au moyen âge, Paris, Le Léopard d’or, 2000, e alla bibliografia ivi contenuta; per Venezia un utile punto di partenza rimane G. Ruggiero, Constructing civic morality, deconstructing the body: civic rituals of
punishment in Renaissance Venice, in J. Chiffoleau, L. Martines, A. Paravicini Bagliani
(a cura di), Riti e rituali nelle società medievali, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1994, pp. 175-190.
5. Pertile, Storia del diritto italiano, vi, 2, pp. 385 sgg.; A. Solmi, Storia del diritto
italiano, Milano, Società editrice libraria, 1930, p. 70; T. Kuehn, «Multorum fraudibus occurrere». Legislation and Jurisprudential Interpretation Concerning Fraud and Liability in Quattrocento Florence, «Studi Senesi», xciii, 1981, pp. 311-312; F. Franceschi, Criminalità e mondo del lavoro: il tribunale dell’arte della Lana a Firenze nei secoli xiv e xv,
«Ricerche Storiche», xviii, 1988, p. 573; Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento, pp. 96-98; K. Siebenhüner, Pene infamanti, in A. Prosperi (a cura di), Dizionario storico
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A Firenze, per esempio, la pena infamante della mitria era stata im-posta nel 1359, a pochi mesi di distanza gli uni dall’altro, dapprima a tre uomini di Empoli condannati in contumacia per aver testimoniato il falso in una controversia avente per oggetto la compravendita di alcune pecore; in seguito ad un ebreo originario di Montefiascone, inquisito dal locale tribunale della Mercanzia per truffa, aggravata da falsa accusa, ai danni di un cittadino (frode che gli aveva procurato una pena pecuniaria di 200 fiorini, oltre appunto all’esposizione riprovevole in pubblico con in testa il copricapo d’infamia). Qualche decennio più tardi, nel 1404, la medesima punizione aveva colpito un praticante di magia, detentore di libri d’evocazione, cui era stato comminato un giro infamante per la città con la mitria sul capo.6
Una delibera assunta nel 1420 dal comune di Modena aveva discipli-nato sin nei minimi (e più scabrosi) dettagli il cerimoniale ignominioso dell’acculattata, di cui si è detto innanzi, un passaggio nodale del quale era l’esposizione in pubblico del trasgressore con in testa la mitria in-famante. In essa si era stabilito che il debitore avrebbe dovuto essere portato per tre sabati consecutivi nella piazza del mercato, affollata di gente, «con la tromba in anze e con el coraço senza capuzo e conne una mitria in co in la quale sia scripto uno C». Avrebbe fatto per tre volte l’intero giro della piazza e ad ogni giro sarebbe stato obbligato «de dare a culo nudo suxo la preda rengadora [la pietra del vituperio], la quale sia ben unta de trementina». Ad ogni colpo, con la faccia rivolto verso il Palazzo comunale, avrebbe dovuto urlare, per tre volte, «cedo bonis,
cedo bonis, cedo bonis».7
Come detto, allo stesso modo dei reati finanziari erano colpiti con l’infamia della mitria o corona derisoria pure i reati contro la religione, in particolare la magia, il sortilegio e la stregoneria. Per avere praticato le arti magiche, una contadina di un paese vicino ad Assisi era stata con-dannata, nel 1445, alla pena del rogo. La fattucchiera era stata condotta al supplizio a cavallo di un asino, seduta all’indietro, seguita da una pro-cessione tanto macabra quanto colorata; in testa portava un copricapo infamante, sorretto ai lati da due diavoli. In maniera del tutto simile
6. M. Montesano, «Fantasima, fantasima che di notte vai». La cultura magica nelle
novelle toscane del Trecento, pref. di G. Airaldi, Roma, Città nuova, 2000, p. 39; Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento, pp. 96-99.
7. G. Bedoni, La pietra del vituperio a Modena durante il Medioevo, «Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le province Modenesi», s. 11, 6, 1984, pp. 77-95. L’uso della trementina era una particolarità della «pietra del vituperio» di Modena e «serviva […] per attaccare saldamente alla lapide i «fiati animali» espulsi dal cedente, affinché non andassero ad inquinare l’aria e ad infettare il popolo presente».
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erano state punite, nel 1493, in un villaggio della pianura torinese, tre donne accusate di stregoneria. Istruito il processo e appuratane la col-pevolezza, le responsabili erano state condannate al rogo, nella piazza del paese; la sanzione era stata eseguita in un freddo giorno di dicembre, dopo aver posto sul capo delle tre imputate delle mitrie ereticali. Per spettacolarizzare l’evento e renderlo maggiormente fruibile – a perenne monito e correzione – alla comunità, era stato incaricato un pittore loca-le, un certo Lionello, di dipingere i copricapo a colori vivaci con figure malvagie, a scherno del demonio. Alla medesima infamia erano state, infine, condannate, nel più tardo 1587 in una metropoli come Venezia, Valeria e Spandiana Brugnalesco, anch’esse accusate di stregoneria, negromanzia «et altre cose diaboliche», oltre che della frequentazione proibita della locale comunità ebraica. Avendo solennemente abiurato, le due donne avevano scampato la dannazione del rogo ma non l’igno-minia della mitria derisoria; infatti, esse erano state entrambe condan-nate alla pubblica fustigazione in piazza San Marco e all’esposizione per un’ora alla berlina con la mitria sulla testa (dopodiché erano state bandite dalla città e dai suoi domini per cinque anni).8
Il copricapo denigratorio, infine, aveva accompagnato in diversi casi i colpevoli di eresia nel loro ultimo viaggio verso il patibolo. Alcuni episodi sono celeberrimi; basterà citarne un paio per rendere conto della diffu-sione della pena infamante in tali reati contro la religione. Si pensi, per esempio, al processo che aveva condannato al rogo, nel 1415, durante il concilio di Costanza, Giovanni Huss per eresia. Appena pronunciata la sentenza, aveva avuto immediatamente inizio, davanti ai padri conciliari che ne avevano riconosciuto la colpevolezza, il rito della degradazione. I vescovi avevano fatto indossare all’imputato gli abiti sacerdotali; do-podiché, uno dopo l’altro, ogni prelato gli aveva strappato di dosso i pa-ramenti appena infilati, accompagnando la rimozione ciascuno con una maledizione. Alle fine gli era stata posta sul capo una specie di mitria di carta, dalla forma piramidale, sulla quale erano dipinte orribili figure di demoni e recante sulla parte anteriore la scritta «eresiarca». Huss non si era opposto all’infamia del copricapo, anzi l’aveva accettato di buon grado, dicendo: «molto lietamente porterò questa corona infamante per amor tuo, Gesù, che cingesti per me una corona di spine». Una volta por-tato sul luogo del supplizio, il condannato si era inginocchiato a pregare;
8. A. Toaff, Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 155; P.C. Ioly Zorattini, Processi del S. Uffizio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti
(1587-1598), Firenze, Olschki, 1990, viii, pp. 177-195; P. Castagno, Roghi a Carignano. Eresia e stregoneria tra xv e xvi secolo in un piccolo comune della pianura torinese, Carignano,
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nel piegarsi, «quella scandalosa corona, raffigurante i tre demoni», gli era scivolata di dosso, cadendo a terra. Accortosi dell’accaduto, aveva sorriso. I soldati che gli stavano appresso, invece, si erano affrettati a ricollocargli la mitria sul capo; qualcuno aveva ordinato di rimettergliela addosso, dimodoché fosse bruciato coi demoni suoi signori che aveva servito in terra. Pure Giovanna d’Arco, il 30 maggio 1431, dopo la con-danna per eresia, era stata consegnata al boia con su in testa una mitria infamante. Sarebbe spirata di lì a breve tra le fiamme del rogo, di fronte ad una folla numerosa riunitasi per l’occasione; non prima, tuttavia, di aver esibito alla platea quel copricapo diffamatorio, recante a grandi lettere la scritta «eretica, rinnegata, apostata, idolatra».9
Dagli esempi appena riportati, emergono con chiarezza gli aspetti più prettamente rituali della pena d’infamia, oltre alla sua sintassi e al suo linguaggio simbolico. Il ricorso a copricapo offensivi e derisori era un modo per enfatizzare e rendere più efficace il messaggio di una pedagogia della violenza e della vergogna così funzionale alla giustizia di apparato medievale, specie nelle realtà comunali dell’Italia centro-settentrionale. In tal senso le pene infamanti e irrisorie, con i loro tratti di manifesta ostentazione e di voluta drammatizzazione, oltre a rappre-sentare una immediata stigmatizzazione sociale dei reati puniti, dal va-lore parenetico ed espiatorio, e a sanzionare l’esclusione dell’infame dal sistema di tutele e protezioni giuridiche del comune, avevano una chiara funzione pedagogica e deterrente. I colori e le rappresentazioni di mitrie e corone rendevano immediatamente intellegibile, con il loro linguaggio simbolico, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ciò che si poteva fare e ciò che non si doveva o era meglio non fare. Attraverso tali raffigurazioni il comune aveva da tempo imparato a parlare e la comunità ad ascolta-re, specie quando la pena, come nel caso in oggetto, era investita di un evidente carico sacrale, con tutto il portato di espiazione, purificazione, ammonimento ed esortazione proprio di ogni rito sacrificale collettivo.10
Peraltro, come in ogni altra cerimonia collettiva, era necessario cura-re con pcura-recisione tutti gli elementi che concorcura-revano alla sua pubblicità:
9. E. de Bonnechose, Les réformateurs avant la réforme. xve siècle. Jean Hus et le Concile de Constance, Paris, Cherbuliez et C., J. Renouard et C., 1845, ii, pp. 95-99; J. Quicherat, Procès de condamnation et de réhabilitation de Jeanne d’Arc dite la Pucelle [...], Paris, chez
Jules Renouard et C.ie, 1847, iv, p. 459.
10. E. Crouzet Pavan, Violence, société et pouvoir à Venise (xive- xve siècles): forme et
évolution de rituels urbains, «Mélenges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age-Temps
modernes», 96, 1 (1984), pp. 912-930; Ortalli, Comunicare con le figure, p. 41; Zorzi,
Rituali di violenza, pp. 398, 406-411; A. Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Torino, Einaudi, 2008, pp. 113-116; Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento, pp. 101-102.
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i tempi, i luoghi, i modi e la liturgia delle procedure formali. Innanzitutto, nel rito doveva essere coinvolta l’intera compagine sociale; per avere efficacia esso doveva necessariamente avere un pubblico, il più ampio e differenziato possibile. I messaggi veicolati dalle pene d’infamia sareb-bero caduti nel vuoto senza una platea numerosa pronta a coglierne i contenuti e a recepirne i precetti; per tale motivo il rito collettivo doveva largheggiare di elementi anche ludici e spettacolari, in modo da risultare gratificante per chi assisteva alla sua esecuzione e garantire un impat-to emotivo tale da amplificarne la funzione specificamente deterrente, ammonitoria e purificatrice. Inoltre, i luoghi prescelti dovevano essere tra quelli socialmente più qualificati e di più intenso uso collettivo: la piazza comunale, il mercato, il palazzo di giustizia e così via. Anche gli itinerari individuati per l’esecuzione della pena non erano mai casuali, ma sempre funzionali a dare la maggior enfasi e pubblicità possibile al rito infamante: a Firenze il corteo rituale si dipanava per le piazze e le vie che rappresentavano il cuore pulsante della vita economica citta-dina, quelle maggiormente brulicanti di gente e di attività; a Venezia si snodava lungo il Canal grande, percorrendo in andata e in ritorno il tragitto che collegava tra loro piazza San Marco e Rialto, ossia l’anima politico-religiosa e quella finanziario-produttiva della città.11
Infine, un ruolo centrale aveva l’iconografia, con la sua semantica di significati simbolici, mimetici e sacrali e la sua ampia gamma di segni socialmente condivisi. Come visto, essa prevedeva che sulle mitrie e le corone fossero dipinti figure e simboli che ne accentuassero la valenza infamante e derisoria, oltre a didascalie o tituli che ne pubblicizzassero il crimine da biasimare e censurare. Spesso, le immagini prescelte erano raffigurazioni demoniache e allegorie infernali: i diavoli in particolare richiamavano «la minaccia di una sanzione trascendente, capace di pu-nire il colpevole con una pena portata nella dimensione dell’eternità». In tal caso all’infamia terrena si affiancava una sorta di maledizione ultraterrena, che ne accentuava la funzione disonorante: «la giustizia degli uomini chiamava [così] in causa la giustizia divina, proponendo di fatto un’equazione reo-peccatore». Le immagini erano accompagnate da
tituli, dal tono volutamente offensivo, ironico o denigratorio, oltre che
correttivo e ammonitorio. Tale associazione di scrittura e immagini era del tutto congeniale ad un uditorio ancora largamente analfabeta ma assai sensibile alle rappresentazioni in figura, e capace senza indugio di leggervi quei messaggi e quelle informazioni che i poteri costituiti inten-devano trasmettere attraverso di esse. Il mezzo figurativo rappresentava,
11. Ortalli, «...pingatur in Palatio...», pp. 13, 43-49; Zorzi, Rituali di violenza, p. 419; Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento, p. 98.
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in sostanza, uno strumento di comunicazione tra i più efficaci per veico-lare notizie, disciplinare comportamenti e ammonire sulle conseguenze penali (terrene e ultraterrene) dei reati più riprovevoli e deprecabili.12
Per tornare al caso veneziano, da cui si sono prese le mosse, va detto che anche in Laguna le pene d’infamia avevano avuto una significativa diffusione, e tra queste pure l’imposizione ai condannati di copricapo denigratori di carta o pergamena. Non diversamente che altrove, i reati maggiormente colpiti con la vessazione di mitrie e corone infamanti erano stati, in aggiunta alle solite trasgressioni finanziarie, le truffe, gli spergiuri e le false testimonianze, oltre all’ampia gamma dei crimini contro la morale sessuale.
Per esempio, per concorso in una truffa ordita dalla nobile Antonia Bragadin, sterile e in quanto tale estromessa da un lascito dell’eredità paterna, Margherita schiavona, ostetrica di Santa Sofia, era stata punita dall’Avogaria di comun nel maggio 1470 con l’infamia della corona deri-soria. Approfittando anche della malattia del marito, Antonia si era finta incinta, in modo tale da impossessarsi del lascito contestato; Margherita