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Tutela e punibilità della donna negli statuti di Belluno Enrico Bacchetti

Nel documento Historiae scritti per gherardo ortalli (pagine 152-165)

Che il ruolo della donna nella società medievale fosse di subalternità nei confronti della componente maschile è cosa nota. Il lungo millennio che segna questa fase storica pur vedendo lenti e graduali mutamenti in campo politico, economico, culturale, e pur con i dovuti distinguo, non sembra registrare una particolare evoluzione nel modo di guarda-re, giudicaguarda-re, gestire l’universo femminile verso cui l’uomo si dimostrò sempre piuttosto sospettoso.

Persino nel corso del basso Medioevo, quando si apre la fase della ri-nascita urbana e nuovi gruppi sociali si affacciano alla ribalta, la donna resta ancora sullo sfondo e le poche figure femminili che emergono lo fanno proprio in virtù della loro eccezionalità. Sono gli stessi statuti cit-tadini a dichiarare la loro posizione e da questo punto di vista possiedono una forza davvero esaustiva nel tracciare i principi che regolavano le relazioni sociali tra uomo e donna. Tale considerazione vale anche per la piccola città di Belluno, come emerge dalla consultazione dei suoi statuti del 1392, la redazione più antica tra quelle conservate.1

Naturalmente stiamo parlando di leggi: esse, per loro natura, cer-cando di tracciare un’immagine ideale della società, non possono che fotografarne le aspirazioni, prevedendo semmai le pene per chi non le rispetti. Altra cosa era ovviamente la realtà che spesso, come noto, sfug-ge alla regola, anche a quella del legislatore. Tuttavia, la legsfug-ge rivela sempre i sistemi di valori di una società e dunque, nello specifico del nostro tema, anche la posizione che la donna occupava a Belluno tra xiv e xv secolo in relazione a temi di carattere sessuale.

Ovviamente statuti e leggi non rappresentano l’unica fonte medievale che parli di donne, ma costituiscono senza dubbio il documento che più di ogni altro si avvicina a quello che doveva essere il sentire comune,

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l’idea che gli uomini, la parte dominante della società, si era fatta delle donne. Certo, a leggere i poeti del tempo il quadro che ci si presenta può apparire alquanto differente e la donna può presentarsi con caratteri af-fatto diversi e trasfigurata attraverso l’attribuzione di tratti quasi divini. Dunque, quando sognata e cantata nei versi (quasi sempre usciti dalla penna di uomini), la donna era celebrata.2 Ciò poteva accadere perché nella carta la donna era completamente dominata, i suoi pensieri, i suoi desideri, erano quelli che le venivano attribuiti dal poeta, dall’uomo. Del resto, come ricorda Duby, sia pure per l’epoca feudale, «gli artisti, esattamente come i poeti, non si preoccupavano allora di essere realisti. Rappresentavano dei simboli e si attenevano alle formule convenute».3

D’altra parte non mancano esempi di donne «maltrattate» nel ricordo dei contemporanei, come nel caso di Eleonora d’Aquitania, regina pri-ma di Francia, d’Inghilterra poi, attorno a cui si diffusero più leggende, spesso a sfondo sessuale, raramente benevole.4 Tra questi due estre-mi – l’angelo e la peccatrice – si muoveva la rappresentazione della don-na nel Medioevo. Quale fosse però la reale immagine che l’uomo aveva in quell’epoca è difficile dire. Certo era assai diversa da quella offerta dai poeti che ne esaltavano la natura o degli artisti che ne rappresentavano una bellezza puramente ideale. La donna, quella vera, non godeva della stessa considerazione, i suoi pensieri non erano ritenuti sempre esem-pio di purezza, la sua capacità di pensare e agire non era considerata adeguata. Dunque la donna doveva essere dominata.

Tale controllo, naturalmente, si estendeva a tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, dalla gestione dei beni, alla scelta di un marito, ai comportamenti sessuali, questione, quest’ultima, che gli statuti di Bel-luno, come altre raccolte coeve, considerano attentamente, reprimendo tutte le condotte che la sensibilità del tempo riteneva peccaminose e dunque inaccettabili. La prima osservazione che possiamo fare è che le disposizioni che se ne occupano sono inserite nella medesima rubrica

2. Esistono naturalmente notevoli eccezioni, basti pensare alla Becchina di Cecco Angiolieri o a certe figure femminili del Decameron di Boccaccio o ancora alla rappresentazione che il trovatore Oswald von Wolkenstein, originario della Val Pusteria e dunque di un’area geograficamente contigua a Belluno benché culturalmente gravitante piuttosto attorno all’Impero e all’area germanica, ci lascia della moglie proprio a cavallo tra xiv e xv secolo (in proposito vedi Oswald von Wolkenstein, Poesie e canzoni, a cura di P.W. Waentig, Roma, Carocci, 2011). Resta il fatto che nella lirica bassomedievale la donna viene rappresentata spesso come un essere superiore, irraggiungibile.

3. G. Duby, Donne nello specchio del Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. vii-viii. 4. Per alcuni di questi aneddoti Duby, Donne nello specchio, pp. 5-28.

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statutaria, significativamente intitolata «De adulteriis».5 La scelta non è ovviamente casuale e si deve senz’altro al fatto che tali questioni, dalle molestie alla violenza carnale, dall’adulterio ai comportamenti sessuali, tutti riconducibili alla sfera della sessualità, erano sentite come fonda-mentalmente affini, tanto è vero che tutti e tre gli ambiti sono trattati come reati assimilabili, cosa che tutto sommato poco sorprende, consi-derato come la morale medievale fosse globalmente sospettosa verso ciò che facesse riferimento alla fisicità e al sesso.

In generale, il quadro che emerge lascia intravedere una donna sotto tutela, inevitabilmente soggetta all’uomo (il padre, il marito) e del resto la repressione di questi atti non dipende solamente dal desiderio di di-fendere la persona vittima di violenze o di colpire l’adultera, ma anche e soprattutto dalla volontà del legislatore di difendere l’onore e gli interes-si del gruppo parentale: interes-si tratta insomma, per usare una terminologia giuridica contemporanea, di reati contro la morale e l’onore piuttosto che contro la persona.6

Molestie e violenza carnale

Il legislatore distingue nettamente le molestie dalla violenza consuma-ta, prevedendo per le prime unicamente una pena pecuniaria a carico del molestatore. Naturalmente gli statuti definiscono diverse gradazioni che vanno collegate essenzialmente al ruolo e alla condizione della vittima.

In primo luogo, si prospetta il caso che una donna, sposata, vergine7 o vedova, venga molestata da un uomo che le strappi gli abiti o la spogli o assuma comportamenti dichiaratamente sessuali (e spetterà al rettor o ai consoli valutarne la natura). In questa circostanza la pena per il re-sponsabile è compresa tra le 100 e le 200 lire. Tuttavia, per le molestie

5. Si tratta della rubrica 5 inclusa nel libro iii della raccolta normativa. D’ora in poi la cifra in numeri romani andrà riferita al libro degli statuti, quella in numeri arabi alla rubrica, la lettera al capitolo; cfr. Statuti di Belluno, pp. 289-292.

6. Si osservi per inciso che le norme cui si farà riferimento non sono sempre collocate in una successione logica all’interno della rubrica, il che lascia pensare che quest’ultima sia il frutto di successive stratificazioni. Non si tratta di una considerazione inutile, infatti la decisione del legislatore di ritornare successivamente su questi temi per chiarirne alcuni aspetti, lascia intendere quanto la questione fosse sentita dalle autorità e dalla collettività nel suo complesso.

7. Sulla determinazione dello stato di verginità in relazione all’età della donna si esprime in particolare un altro capitolo della rubrica, laddove specifica che «ubicumque fit mencio de virgine in casibus statutorum positorum sub rubrica ista, non intelligatur maiorem viginti annis fore virginem, nisi probatum fuerit ipsa fore honeste conversacionis et vite et publice pro virgine reputari»; cfr. Statuti di Belluno, pp. 291-292, iii, 5q.

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nei confronti di vergini o vedove, si ammette una diminuzione della pena nel caso in cui, in seguito ai fatti, siano state celebrate le nozze tra il reo e la donna.8 Del resto, non era infrequente a quel tempo che un uomo assumesse atteggiamenti sessualmente aggressivi proprio nell’intento di giungere alle nozze con la donna oggetto delle sue attenzioni. Non sempre, però, il reo poteva sottrarsi alla pena attraverso il matrimonio. Ad esempio, se le molestie erano state rivolte ad «aliquam mulierem nundum viripotentem», ossia ad una donna non ancora fertile (e per la legge tale doveva essere comunque intesa una donna di età inferiore ai dodici anni), la pena era fissata in 200 lire o più e non si dava alternativa.9

Ma gli statuti contemplano un altro caso singolare. Si dava infatti la possibilità che qualcuno molestasse una donna sposata con il suo con-senso («mulierem uxoratam volentem»).10 Cosa si debba intendere con questa espressione non è del tutto chiaro, ma si può forse supporre che il legislatore intendesse parlare di atteggiamento provocatorio da parte della donna sposata o di un gioco di seduzione risoltosi in una molestia.11

Anche in questo caso le attenzioni dell’uomo venivano ritenute illecite e tuttavia la pena, che andava da un minimo di 50 ad un massimo di 100 lire, era meno pesante rispetto a quella prevista per chi molestasse una moglie non consenziente. In questo caso, dunque, la pena aveva chiaramente l’intento di difendere la reputazione del nucleo familiare e del marito e nello stesso tempo mirava a disincentivare atteggiamenti provocatori e adulterini delle donne e a bloccare quegli impulsi maschili che avrebbero potuto creare tensioni sociali e familiari.

Sin qui le molestie. Se passiamo a verificare i casi di violenza sessua-le, notiamo come gli statuti prevedano pene decisamente più severe e naturalmente anche in questo caso con distinzioni quanto mai accurate.

8. Statuti di Belluno, p. 291, iii, 5m. Il matrimonio riparatore era prassi consolidata nell’età di mezzo e si fondava su solide basi giuridiche di ascendenza biblica (Esodo 22,15-16 e Deuteronomio 22,28-29), romana (lex Julia de Adulteriis) e canonica (liber Extra).

9. Statuti di Belluno, p. 291, iii, 5n. Naturalmente il problema del superamento della soglia della pubertà e il passaggio da bambina a donna era molto importante e dibattuto; segnali fisici e comportamentali erano le discriminanti adottate dai giudici per valutare l’ingresso della bambina in una nuova fase. Cfr. in proposito E. Orlando, Sposarsi nel

Medioevo. Percorsi coniugali tra Venezia, mare e continente, Roma, Viella, 2010, pp. 143-171.

10. Statuti di Belluno, iii, 5o.

11. Sul tema della seduzione, Giorgia Alessi osserva che «per secoli, nella tradizione giuridica europea, la seduzione di una donna casta e la consumazione del rapporto sessuale autorizzarono una querela di stupro da parte della medesima o dei suoi familiari, pur in assenza di violenza», cfr. G. Alessi, Stupro non violento e matrimonio riparatore. Le inquiete

peregrinazioni dogmatiche della seduzione, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I tribunali del matrimonio (secoli xv-xviii), Bologna, Il Mulino, 2006, p. 610.

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Ad esempio, nel caso in cui la violenza fosse nei confronti di una don-na sposata (ma si noti che la norma parla non già di udon-na dondon-na ma di «uxorem alterius», inconscia ammissione che l’atto era commesso non solo verso una donna, ma anche contro il suo legittimo marito che così diveniva in qualche maniera vittima egli stesso) la pena – cui ovviamente non esisteva possibilità di sottrarsi – non poteva che essere capitale.12 La cosa che tuttavia sorprende maggiormente in questo capitolo è il fatto che il legislatore ritenesse necessario chiarire che la donna non doveva essere in alcun modo sanzionata per un atto che la vedeva unicamente come vittima; una precisazione di questo genere nasceva forse dalla consapevolezza che per una parte della società la sua posizione dovesse essere comunque verificata e destasse comunque dei sospetti.

La situazione non muta molto se consideriamo le violenza contro una vergine o una vedova honeste vite, di buoni costumi. Anche in questo caso per il violentatore si prevedeva la pena capitale e la cessione di par-te dei beni alla vittima in modo che cospar-tei popar-tesse costituirsi una dopar-te o monacarsi; sennonché al reo restava la possibilità di sfuggire alla morte nel caso in cui fosse seguito un matrimonio che avrebbe consentito di commutare la pena in una ammenda la cui consistenza sarebbe stata definita dal rettore e dai consoli.13

Vediamo invece le pene previste nel caso in cui l’abuso sessuale fosse commesso nei confronti di una vergine non ancora sessualmente matura (ma il legislatore parla significativamente già di «mulier»). Si tratta dun-que di bambine o preadolescenti, per le quali era comundun-que prevista una differenziazione tra chi avesse più di dieci anni e chi meno. Al di sotto di tale età si prevedeva unicamente la pena capitale o il rogo, ma al di sopra esisteva la possibilità di riscattare la vita attraverso la corresponsione di 500 lire, cifra evidentemente esorbitante.14 Tale norma si palesava dunque come un evidente caso di discriminazione sociale basato sul patrimonio personale o familiare, in base al quale solo i membri delle famiglie più ric-che, e cioè più potenti (quelle, per intenderci, cui era garantito il controllo della città), avrebbero potuto sfuggire alla pena in cui invece sarebbero sicuramente incorsi gli uomini appartenenti a ranghi sociali inferiori. Ri-guardo alle pene previste per i violentatori, però, molto dipendeva dalla condizione della donna. Ad esempio, qualora si trattasse di una monaca si prevedeva il rinvio alle norme «iuris civilis» e si ammettevano pene ge-nericamente definite pecuniarie o corporali da fissarsi per volontà del

ret-12. Statuti di Belluno, iii, 5a. 13. Statuti di Belluno, p. 289, iii, 5b. 14. Statuti di Belluno, p. 291, iii, 5k.

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tore e dei consoli.15 Se invece l’abuso avveniva nei confronti di una donna nubile, né vedova né considerata vergine e di buoni costumi, il reo poteva incorrere in una ammenda di 100 lire, salvo che non ne fosse seguito il matrimonio con la vittima, nel qual caso la pena sarebbe stata più mite.16

In tutti questi casi, tranne ovviamente per le violenze consumate nei confronti di monache o donne sposate, il fatto che la legge prevedesse la possibilità di riscatto della vita attraverso il pagamento di una multa e il matrimonio con la vittima, sembrerebbe confermare il fatto che spesso l’abuso era consumato con lo specifico intento di giungere alle nozze. Proprio per porre un freno a questa evenienza e pratica (peraltro largamente documentata nel corso del Medioevo), un apposito capitolo prevedeva per entrambi i genitori la possibilità di diseredare «et suo eciam debito bonorum subsidio privari» la figlia che si fosse stata di-mostrata compiacente e disponibile all’atto sessuale.17 Del resto, una norma specifica puniva i figli e le figlie ancor giovani che si sposassero contro la volontà del padre. Mentre però per i maschi si prevedeva solo una forte pena pecuniaria, le figlie erano escluse dalla successione e potevano essere private della dote.18

Norme di questo tipo miravano innanzi tutto a consolidare le fonda-menta della costruzione familiare e nel contempo cercavano di evitare gli episodi di rapimento a fine matrimoniale, che venivano a disturbare le strategie matrimoniali delle famiglie. C’è poi da considerare l’aspet-to non secondario della dote. Va ricordal’aspet-to che il matrimonio era un sacramento e insieme un passaggio pressoché obbligato nella vita di ogni laico. Tuttavia, o forse proprio per questa ragione, veniva perce-pito anche come un vero e proprio contratto attraverso cui alcuni beni paterni passavano nelle mani della figlia (ma di fatto sotto il controllo del marito): una donna senza dote era destinata a non trovare marito e dunque neppure un posto nella società.

15. Statuti di Belluno, p. 290, iii, 5j. Tuttavia, evidentemente a integrazione di questa norma e considerato come tali evenienze non fossero poi così rare, a quanto ricorda Clemente Miari nella sua cronaca, Gian Galeazzo Visconti, nel novembre del 1399 emanò un decreto con cui si stabiliva che chiunque avesse avuto un rapporto carnale con una monaca, dentro o fuori dal monastero, sarebbe stato decapitato in abito da frate. Qualche giorno dopo a Belluno si pubblicava un’altra norma volta a colpire i membri del clero che commettessero un simile reato, prevedendo per loro la condanna all’ergastolo e «ad essere cibati in pane di dolore e in acqua di strettezza»; cfr. C. Miari, Cronaca bellunese (1383-1412), a cura di P. Doglioni, Belluno, Tarantola libraio, 1976, p. 26.

16. Statuti di Belluno, p. 289, iii, 5c. 17. Statuti di Belluno, p. 290, iii, 5j. 18. Statuti di Belluno, p. 236, ii, 34t.

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Ma, per ritornare alla norma che consentiva al padre di diseredare la figlia che si fosse concessa al rapporto sessuale, qui si passava già ad un’altra fattispecie ossia la violenza consumata con il consenso della vittima, situazione questa che parrebbe chiamare in causa il concetto di simulazione. Dunque, l’atto sessuale volontario – ma mascherato da stupro – di una vedova o di una vergine prevedeva per l’uomo una pena unicamente pecuniaria che andava dalle 50 alle 100 lire e per la donna un’ammenda pari a 25 lire o, nel caso non fosse stata in grado di pagare, l’espulsione dalla città «usque ad annum». E se ancora una volta il ma-trimonio avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione riducendo la durezza della pena, vale la pena porre attenzione alla possibilità di espel-lere la vedova dalla comunità cittadina. Un provvedimento di questo tipo, infatti, rivela quanto pericoloso fosse ritenuto tale comportamento da parte di una donna: fingere uno stupro o sottostare alle attenzioni di un uomo, probabilmente a fini matrimoniali, limitava di fatto la possibilità per la famiglia di decidere il futuro della donna così come del figlio e dun-que si presentava di fatto come un grave sovvertimento della struttura sociale cittadina; la minaccia dell’espulsione doveva dunque fungere da deterrente, giacché fuori dalla città, dagli affetti e dalle certezze della casa, la vita per una donna doveva presentarsi estremamente difficile.19

Ciò parrebbe confermato anche da un altro dispositivo che stabilisce che lo stupratore di una donna senza legami ma non più vergine e consen-ziente, non debba essere condannato ad alcuna pena: evidentemente la donna che abbia avuto dei rapporti sessuali al di fuori del talamo perde parte del suo appeal al punto da non doversi più ritenere perseguibile lo «stuprator» qualora agisca col suo consenso.20

Ancor diversa è poi la condizione della serva. Al chiuso delle pareti do-mestiche, infatti, ogni atto sessuale consumato dal padrone di casa nei suoi confronti non è perseguibile a meno che lei non gridi «prius quam eam cognosceret»:21 in questo caso, al di là dello stupro in sé, che poteva anche non venire denunziato dalla vittima per timore di incorrere in qual-che ritorsione, spicca il fatto qual-che un uomo (ma ovviamente non una donna) in casa propria poteva agire in modo pressoché indisturbato; né la norma contempla particolari eccezioni per i maschi sposati: il comportamento ses-suale dell’uomo entro le mura domestiche, dunque, non pare sanzionabile. Abbiamo dunque visto che sovente allo stupro si poteva porre rimedio col matrimonio tra il reo e la vittima, al punto che non si deve escludere

19. Statuti di Belluno, p. 290, iii, 5g. 20. Statuti di Belluno, p. 290, iii, 5h. 21. Statuti di Belluno, p. 292, iii, 5r.

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che talvolta tali atti fossero progettati proprio con quel fine. A simile conclusione, peraltro, si poteva giungere anche per altra via, ad esempio col rapimento. In questo caso, qualora il «raptus» fosse avvenuto «sine cognicione carnali», il reo sarebbe incorso in un’ammenda compresa tra le 50 e le 500 lire, che avrebbe potuto essere trasformata in pena capitale nell’evenienza che la donna fosse condotta fuori distretto: di nuovo, solo il matrimonio avrebbe potuto riscattare la vita del rapitore.22

Resta peraltro da verificare quale fosse la reale consistenza delle pene in casi analoghi, ma purtroppo, per quel che riguarda Belluno non si è conservata documentazione inerente processi legati a queste fattispecie di reati. Tuttavia, se si resta ad esempi di altre città di area veneta, è

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