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Il mito di Venezia nella Legenda Aurea di Nicolò Manerbi Carlo Campana

Nel documento Historiae scritti per gherardo ortalli (pagine 101-117)

Il benedettino camaldolese di San Mattia di Murano Nicolò Manerbi1

fece uscire a Venezia dalle presse di Nicola Jenson, quasi certamente nel 1475, il primo volgarizzamento italiano delle Legendae sanctorum,2

composte nella seconda metà del tredicesimo secolo dal domenicano Jacopo da Varazze.

La traduzione incontrò largo favore e ottenne una dozzina di edizioni entro la fine dello stesso secolo, quasi a riecheggiare, fatte le dovute pro-porzioni, la fortuna della raccolta originale, notoriamente uno degli scritti più letti, esemplati e imitati di quel periodo e dell’intero mondo cristiano.3

Opera di carattere eminentemente pedagogico e ricca di elementi capaci di offrire spunti di riflessione ed educazione sia riguardo alla vita spirituale che all’esistenza materiale dei lettori individuali come delle comunità di fedeli, le Legendae sanctorum furono oggetto in molte loro parti, nel corso del tempo, di un notevole quanto inevitabile accumulo di modifiche, aggiunte, interpolazioni,4 finalizzate soprattutto a rendere

1. Varie sono, nel corso dei secoli, le scritture del nome: Manerbi, Malermi, Manermi, limitandosi all’ambito italiano; si preferisce qui adottare la dizione Manerbi, che si riscontra su tutte le edizioni più antiche della versione in oggetto. Per notizie sulla vita e le opere si può vedere, con la relativa bibliografia, E. Barbieri, Malerbi (Malermi, Manermi) Nicolò, in

Dizionario biografico degli italiani, lxviii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2007,

pp. 149-151.

2. L’opera, nelle diverse edizioni manoscritte e a stampa fino ai nostri giorni, è nota oltre che con questo titolo e con il più avanti menzionato Legenda aurea anche come: Historia

longobardica o lombardica, Speculum sanctorum, Vitae sanctorum, Flores sanctorum.

3. Notizie e riferimenti bibliografici si possono trovare in V. Marucci, Manoscritti e

stampe antiche della Legenda aurea di Jacopo da Varagine volgarizzata, «Filologia e

critica», v, 1, 1980, pp. 30-50 e in C. Campana, La tradizione veneziana della «Translatio

sancti Nicolai» nel primo volgarizzamento italiano a stampa della «Legenda aurea» di Jacopo da Varazze, «Miscellanea Marciana», vii-ix, 1992-1994, pp. 103-122.

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più familiari e vicini agli uditori personaggi, argomenti e tematiche, a ricordare eventi storici significativi, a giustificare prerogative e valori sia del vivere sociale sia di principi e stati sovrani.

Sicuramente emblematico in questo senso è il lavoro operato sul testo delle Legendae dal Manerbi, che inserisce in un buon numero di narra-zioni particolari e racconti, più o meno veritieri e attendibili, riguardanti Venezia, il culto di alcuni santi in città, la funzione di esso, la vera o presunta presenza di reliquie e la conseguente preminenza, non sempre soltanto di fede, dovuta alla protezione accordata dai santi stessi. Così capita, come per Nicolò di Myra, per Niceta, per Lucia, per Nicola da Tolentino, oltre che ovviamente per Marco e addirittura Lorenzo Giusti-niani, primo patriarca di Venezia, morto nel 1456.

Verso la fine del volume, tra la vita di san Giobbe e quella di san Liberale, ci si imbatte nella figura di un altro santo che in origine non è presente nell’opera di Jacopo da Varazze; un santo che inoltre non sembra avere rapporto alcuno con Venezia, i suoi eroi, le sue conquiste, le vicende storiche che avevano visto protagonista la Serenissima nelle epoche precedenti: Ubaldo Baldassini, vescovo di Gubbio nel secolo xii.5

Nato in questa città, presumibilmente tra il 1084 e il 1085, da una nobile famiglia di origine tedesca, Ubaldo rimane presto orfano e viene affidato a uno zio, suo omonimo, che ne cura l’educazione intellettuale e religiosa. Iniziati gli studi presso la collegiata di San Secondo, passa quindi sotto la guida dei canonici della cattedrale di San Mariano, sempre in Gubbio, ma la corruzione morale di questo ambiente lo spinge a tornare a San Secondo. Dopo un breve periodo di formazione a Fano il giovane rientra nella sua città, divenendo collaboratore del santo monaco Giovanni da Lodi, il quale sarà vescovo di Gubbio per un solo anno prima della morte avve-nuta nel 1105.6 Giovanni lo manda a San Mariano a combattere con

suc-di Einsiedeln, redatto nel 1288 vivente Jacopo, riporti circa 185 capitoli, mentre in esuc-dizioni della fine del xv secolo se ne riscontrano fino a oltre 440; sull’argomento R. van Lennep, La tradition

manuscrite et les impressions incunables et postincunables du texte et des adaptations de la «Légende dorée» de Jacques de Voragine, «Le livre et l’estampe», xxxviii, 1992, n. 137,

pp. 7-74. Sull’interpolazione nei testi agiografici utili le poche parole e i riferimenti in B. De Gaiffier, Recueil d’hagiographie, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1977, pp. 151-152.

5. Filippo Maria Certani, Idea del ben vivere, Attioni più considerabili del padre

s. Ubaldo can. regol. lat. e vescovo di Gubbio, Milano, nella Stamperia archiepiscopale,

1666; Teobaldo, Leggenda del Beato Ubaldo vescovo di Gubbio, Gubbio, dalla Tipografia vescovile, 1860; F. Dolbeau, La vita di sant’Ubaldo, vescovo di Gubbio, attribuita a Giordano

di Città di Castello, Perugia, s.e., 1977; S. Brufani, E. Menestò (a cura di), Nel segno del santo protettore: Ubaldo vescovo, taumaturgo, santo, Atti del convegno (Gubbio, 15-19

dicembre 1986), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1992.

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cesso il disordine e a ristabilire la disciplina grazie, secondo la tradizione, alla sua mitezza, alla capacità di persuasione, alla forza dell’esempio. Soltanto nel 1114 Ubaldo viene ordinato sacerdote e poi riconfermato priore; dopo un grave incendio che colpisce la città è tentato di rifugiar-si nell’eremitaggio, ma rientra e rifugiar-si adopera per la ricostruzione della cattedrale e dell’ospedale.

Nel 1126, alla morte del vescovo locale, i cittadini di Perugia procla-mano Ubaldo successore, ma egli fugge e, recatosi a Roma, ottiene la dispensa dall’incarico da papa Onorio ii. Nel 1129, tuttavia, lo stesso pontefice gli impone la nomina a vescovo di Gubbio. Il periodo del mini-stero è caratterizzato da una parte dall’assenza di pompe e nepotismi, dall’altra dal costante impegno per la pacificazione e l’ordine tra le famiglie nobili della città e all’interno del clero, in situazioni nel corso delle quali il prelato è soggetto a pesanti torti e a gravi minacce e offese concrete, persino fisiche. A tutto oppone il proprio coraggio e la propria pacata abnegazione, anche a rischio della vita, tenendo sempre come fine gli interessi e la sicurezza dei concittadini: come quando, nel 1154, si adopera durante l’assedio portato da undici città umbre rivali o l’anno dopo, incontrando Federico Barbarossa che ha appena messo a ferro e fuoco Spoleto e convincendolo a risparmiare Gubbio.7

Ammalatosi di un morbo repellente, muore il 16 maggio 1160. Da subito venerato come santo, gli vengono attribuiti numerosi miracoli; è canonizzato nel 1192 da Celestino iii e proclamato patrono di Gubbio. Il suo corpo, considerato incorrotto, è esposto al culto dei fedeli in un’urna nella basilica a lui intitolata sul monte Ingino,8 mentre parte di un suo dito, giunta in maniera leggendaria fin dal 1161, si ritiene tradizional-mente essere conservata nel duomo di Thann, in Alsazia, centro sorto proprio attorno a una cappella costruita per custodire la reliquia e che lo onora con il nome di Thiebaut, Teobaldo.9

Nella sua città è ricordato e festeggiato ogni anno con diverse cele-brazioni e con la popolare, famosa «corsa dei ceri».

Legittimo a questo punto chiedersi per quale motivo Manerbi

introdu-anonimo del monistero di Santa Croce dell’Avellana, tratta ora per la prima volta da un antichissimo codice, Jesi, nella Stamperia di Gaetano Caprari, 1748.

7. Al sovrano, che concesse a Gubbio importanti privilegi, fu indirizzata e dedicata la biografia di Ubaldo scritta pochi anni dopo la morte da Teobaldo, suo successore (vedi

supra, nota 5).

8. «Intra Tupino e l’acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d’alto monte pende» (Dante Alighieri, Paradiso, xi, 43-45).

9. Una ricognizione, effettuata nel 1975, avrebbe verificato sia l’inalterata conservazione delle spoglie sia la mancanza, dal mignolo della mano destra, di un lembo di tessuto.

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ca nel testo delle Legendae sanctorum la storia di Ubaldo vescovo, che come si è detto non appare avere con Venezia alcuna relazione diretta.

Unica eccezione la presenza, nel sestiere di San Polo, di una chiesa eretta intorno al secolo xi, su iniziativa delle famiglie patrizie Giusto e Tron, in onore di sant’Agata vergine e martire.10 Distrutta dal gravissi-mo incendio che sconvolse l’abitato nell’anno 1105, fu riedificata e in seguito ampliata ottenendo di custodire, a quanto riportano le cronache, un braccio della santa titolare giunto grazie al sacco di Costantinopoli del 1203-1204. Con il tempo si diffuse il culto di sant’Ubaldo e la chiesa cominciò a essere chiamata con il nome dei due santi; infine sopravvis-sero soltanto il ricordo del vescovo eugubino, san Boldo per i Veneziani, e la conseguente intitolazione a lui. In rovina nel xviii secolo, l’edificio fu riedificato su disegno, con buona probabilità, di Giorgio Massari,11

per venire demolito verso il 1830 dopo la definitiva chiusura del 1808; rimase solamente un cospicuo moncone del campanile, in seguito e a tutt’oggi inglobato in abitazioni, oltre al persistere del toponimo per il campo e il ponte adiacenti.

La lettura del racconto volgarizzato e manipolato dal Manerbi, tut-tavia, consente di svelarne le intenzioni: l’episodio della trattativa di Ubaldo con l’imperatore Federico, descritto in un breve paragrafo, è pretesto per l’inserimento di una lunga digressione sulla cosiddetta

Pace di Venezia, che diviene di fatto l’argomento principale dell’intera

narrazione.

È questo uno dei momenti fondamentali per la storia della città lagu-nare, soprattutto perché nel corso dei secoli verrà considerato e rappre-sentato in maniera tale da contribuire alla costituzione di quello che gli storici posteriori chiameranno il mito di Venezia.

Essa, come altre volte nel corso della propria storia, non aveva tenuto un atteggiamento del tutto coerente nell’ambito della Lega costituita fin dal 1167, con il concorso di numerose città della pianura padana, al fine di contrastare il tentativo di Federico i di Hohenstaufen di restaurare l’influenza imperiale sull’Italia settentrionale. Anzi, la Repubblica si era comportata di fatto in maniera del tutto autonoma, giungendo perfino

10. Notizie in Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam

primum editis illustratae ac in decades distributae. Decas secunda, Venezia, Giovanni

Battista Pasquali, 1749, pp. 384-387; Flaminio Corner, Notizie storiche delle chiese e

monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane, e torcellane, Padova, nella

Stamperia del Seminario appresso Giovanni Manfrè, 1758, pp. 348-349 e in G. Tassini,

Curiosità veneziane, Venezia, Filippi, 1970, pp. 83, 726.

11. G.A. Moschini, Itinéraire de la ville de Venise et des îles circonvoisines, Venezia, dalla Tipografia di Alvisopoli, 1819, p. 287.

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a inviare nel 1173 una consistente flotta ad assediare la rivale Ancona, alleata dei Bizantini, in appoggio al cancelliere imperiale Cristiano di Magonza.

Il Barbarossa scese in Italia per la quinta volta nel 1174 e, dopo alterne vicende, il suo esercito subì il 29 maggio 1176, a Legnano, una micidiale sconfitta ad opera delle truppe della Lega Lombarda, tanto che lo stesso Federico i si convinse della necessità di aprire una trattativa di pace con il pontefice, capo spirituale e politico dei Comuni ribelli; nell’autunno dello stesso anno, ad Anagni, messi imperiali incontrarono i delegati papali e vennero individuate alcune città, tra le quali Venezia, come possibile luogo d’incontro per siglare la pace con il coinvolgimento della Lega e del Regno di Sicilia.

Compiuta questa mossa diplomatica inattesa, che deluse non poco le aspettative delle città ribelli, Alessandro iii si imbarcò a Vieste il 9 marzo 1177 diretto a Venezia per poi raggiungere Bologna, scelta in un primo tempo come sede dei negoziati.

Testimone più attendibile della vicende che seguirono, anche se si-curamente di parte, è ritenuto il Chronicon, o Annales, di Romualdo ii Guarna, arcivescovo di Salerno,12 protagonista in prima persona in qua-lità di legato di Guglielmo ii il Buono re di Sicilia e inoltre compagno di viaggio del pontefice.

Le vicende sono ben note: vale riassumerle negli episodi e nei signi-ficati più rilevanti.13

Il 23 marzo il papa approdò a San Nicolò del Lido, dove passò la notte nel monastero; qui, il giorno dopo, fu ossequiato dal doge Sebastiano Ziani14 e dai patriarchi di Venezia e Aquileia e quindi accompagnato, con grande concorso di navi e di popolo, alla chiesa di San Marco, dove pre-dicò alla popolazione e la benedisse; raggiunse quindi il palatium patriar-cale per esservi ospitato, e il 25 marzo tornò nella cappella dogale per la celebrazione della messa. Le cronache narrano che qualche giorno dopo, alla quarta domenica di Quaresima, il pontefice donò al doge una rosa d’oro secondo una tradizione in uso nei confronti del prefetto di Roma.

12. Romoaldi ii archiepiscopi salernitani Annales, a cura di W. Arndt, in Monumenta

Germaniae Historica. Scriptores, xix, Hannover, Hahn, 1866, pp. 387-461, in part. pp.

443-458; Chronicon Romualdi ii, Archiepiscopi Salernitani, in Rerum Italicarum Scriptores, vii, Milano, Typographia Societatis Palatinæ, 1725, p. 1, col. 244, in part. coll. 217-240.

13. Gli avvenimenti sono ben descritti e valutati in G. Ravegnani, Tra i due imperi.

L’affermazione politica nel xii secolo, in G. Cracco, G. Ortalli (a cura di), Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, ii, L’età del Comune, Roma, Istituto della

Enciclopedia Italiana, 1995, pp. 33-79, in part. pp. 44-65. 14. Doge di Venezia, 1172-12 aprile 1178 (abdicazione).

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Fin da subito legati imperiali, inviati dal Barbarossa che si trovava a Cesena e temeva l’ostilità dei Bolognesi, chiesero di mutare la sede del convegno e tenerlo a Pavia oppure a Ravenna o proprio a Venezia. Il papa temporeggiò, si incontrò il giorno 11 aprile con i rappresentanti della Lega a Ferrara e qui, nei giorni successivi, si riunirono le delega-zioni papale, imperiale, dei Comuni e del re di Sicilia che scelsero infine Venezia per ospitare l’adunanza: forse, almeno in parte, proprio a causa della sua collocazione di schieramento non ben definita.

Chieste e ottenute dai Veneziani precise garanzie di sicurezza, Ales-sandro iii rientrò in Laguna il 10 maggio, raggiungendo ancora una volta la residenza del patriarca a San Silvestro. Da qui cercò di organizzare le trattative, proponendo un difficile accordo tra Lega e imperatore, che nel frattempo si era portato a Pomposa e quindi a Chioggia. La fazione popolare veneziana cercò a questo punto di forzare la situazione: rap-presentanti si recarono da Federico per convincerlo a entrare in città e dal papa per autorizzare l’ingresso. Spaventati, i delegati lombardi fuggirono, quelli del re di Sicilia offrirono ad Alessandro le loro navi per lasciare la città e minacciarono i Veneziani di ritorsioni.

La fermezza e la capacità di mediazione del papa da una parte, la realistica valutazione dei rischi di una nuova situazione di belligeranza certamente presente al Barbarossa dall’altra risolsero la situazione: il 22 luglio, richiamati i rappresentanti lombardi, fu firmato dai delegati delle parti un accordo che prevedeva il riconoscimento di Alessandro iii come vero pontefice, la revoca della scomunica per l’imperatore, la conces-sione di un’abbazia all’antipapa Callisto iii, l’allontanamento dei vescovi scismatici in Italia e la convocazione di un futuro concilio ecumenico.

Domenica 24 luglio venne suggellata la riconciliazione canonica: Fe-derico, dopo aver rinunciato all’obbedienza all’antipapa, fu accompa-gnato dal doge in corteo di barche da San Nicolò del Lido a San Marco, dove nell’atrio della chiesa lo attendeva Alessandro in trono attorniato dal clero. Il Barbarossa si prostrò a baciare i piedi del papa, che lo ri-alzò, gli diede il bacio della pace e lo benedisse. Poi tutti intonarono il

Te Deum.

L’imperatore si ritirò quindi in Palazzo Ducale, chiedendo e ottenen-do che il papa officiasse nuovamente in San Marco il giorno ottenen-dopo. E in questa occasione, con atteggiamento umile, accompagnò in chiesa il pontefice, gli baciò nuovamente i piedi e con un gesto di sottomissione feudale, al termine della cerimonia, volle condurre le briglie del cavallo del papa, che tuttavia lo dispensò.

Nelle settimane seguenti ebbero luogo incontri e adempimenti forma-li; il 16 agosto i Siciliani partirono dalla città, lo stesso fecero il Barba-rossa il 18 settembre e il papa il 16 ottobre.

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Venezia ottenne dall’incontro indubbi benefici politici ed economici, oltre naturalmente al prestigio derivante dall’aver ospitato un evento di tale portata: il papa concesse indulgenze, inaugurò chiese, patrocinò monasteri e risolse la controversia tra i patriarchi di Grado e Aquileia; Federico, da parte sua, rinnovò e ampliò privilegi, patti ed esenzioni accordati alla Repubblica e ai suoi mercanti.

In seguito, almeno a partire dal secolo xiv, fiorì e si consolidò a Venezia una lettura delle vicende del 1177 che alterò quanto descritto dal raccon-to di Romualdo con una messe di particolari e situazioni leggendarie di indubbia valenza strumentale. Tale esegesi pervase la storiografia, l’arte, la prassi politica e istituzionale, creando della Dominante un’immagine di preminenza e di potenza, una prerogativa di fede perfetta e di esclu-siva predilezione celeste e pontificia nei suoi confronti.

Così, il papa sarebbe giunto a Venezia, «terra francha»,15 di nascosto, fingendosi pellegrino, continuando a fuggire le minacce imperiali; avreb-be passato la prima notte sotto un portico a Sant’Aponal, vicino a Rialto, o forse alla porta della chiesa di San Salvador, per poi ottenere asilo per alcuni mesi, accolto come lavapiatti o secondo altre testimonianze come cappellano, presso il convento della Carità.

Riconosciuto per caso, accolto, onorato e preso sotto la protezione dal doge Ziani, assistito assiduamente durante tutto il periodo del con-fronto con l’imperatore, avrebbe concesso in momenti diversi alla città, in segno di gratitudine, i cosiddetti trionfi, formali riconoscimenti di autonomia e prestigio e insieme simboli di potere da far valere in modo particolare nei confronti dei competitori esterni: il cero bianco, segno di onore e dell’amore del papa, da portare in processione; il sigillo di piom-bo sui documenti, a certificare la sovranità politica della Repubblica;

15. Da qui tutte le citazioni sono trascritte dal ms. It. vii, 2612 (=12733), sec. xv, della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, che riporta con diverse varianti e cospicue omissioni di parti di testo una delle numerose versioni volgari (la stessa Biblioteca Nazionale Marciana ne conserva latine e volgarizzate, una compilata da Fortunato Olmo che data la stesura originale al 1317) della Historia de discordia et persecutione quam habuit

Ecclesia cum Imperatore Federico Barbarossa tempore Alexandri tercii summi pontificis et demum de pace facta Veneciis et habita inter eos di Bonincontro de’ Bovi (notaio della

cancelleria ducale, fl. 1313-1346). In fine, alle cc. 9r-12r, il manoscritto marciano riporta una succinta storia del regno di Alessandro iii e delle sue dispute con Federico i e l’antipapa, fino alla morte nell’anno 1182 (sic) e alla successione di Lucio iii al soglio pontificio. Un volgarizzamento del racconto di Bonincontro si trova anche trascritto nel primo dei Libri

pactorum, conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia (=asve), ai ff. 127-131. In Marin

Sanudo, Le vite dei dogi, i, a cura di G. Monticolo, Città di Castello, S. Lapi, 1900-1911, pp. 370-417 (Rerum Italicarum Scriptores, xxii, p. iv, i), sono pubblicate la versione latina, quella dei Pacta e quella presente nel manoscritto 1497 della Biblioteca del Museo Correr (vedi infra nota 24). Il testo del Correr era già stato edito in D. Urbani de Gheltof, Leggenda

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l’ombrello regale, a significare la parità del doge con papa e imperatore; gli otto – secondo alcune fonti nove – vessilli trionfali e le sei trombe d’argento, ulteriori cifre di onore e di solenne dignità.16

E altri due trionfi, forse i più significativi e spendibili all’esterno, si-curamente i più problematici e discussi: una spada e un anello d’oro.

Secondo le cronache veneziane il doge, di propria iniziativa e con il consenso di Alessandro iii che proprio in questa occasione concesse la bolla plumbea, aveva inviato un’ambasceria al Barbarossa, «lo qual era in Puia», desiderando promuovere la pace tra i due contendenti. Per tutta risposta Federico intimò «che misser lo doxe e el comun de Venexia devesse far prender messer lo papa e meterlo en grossi ferri et tegnirlo

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