Marco Pozza
Il 15 maggio del 1198 il pontefice Innocenzo iii, sollecitato dalla ba-dessa di San Lorenzo di Venezia, affidò al vescovo di Ceneda il compito di risolvere la vertenza in atto fra quell’istituto religioso e gli abitanti della contrada di San Severo della città lagunare, concedendogli l’au-torizzazione a procedere contro questi ultimi, ricorrendo anche a mi-sure estreme nel caso in cui essi non avessero desistito dal molestare ulteriormente il monastero. Motivo del contendere era la locale chiesa parrocchiale, con le sue relative prerogative, che il papa attestava dipen-dente da San Lorenzo da oltre quarant’anni.1 La questione in realtà non era del tutto nuova, in quanto che essa aveva avuto un precedente per il quale era dovuto intervenire, a quanto pare senza successo, Urbano iii nel 1186,2 anche se, molto probabilmente, risaliva a un’epoca ancor più remota, almeno da quando San Severo, nel corso dell’xi secolo, si era trasformata da semplice cappella in sede di pieve,3 forse in seguito al restauro o ricostruzione dell’edificio, evento che, secondo una notizia peraltro non accertabile, sarebbe avvenuto attorno al 1053.4
Questa fase della disputa si era aperta all’inizio del 1198, allorché, nel mese di febbraio, Andrea Eliodoro, prete di San Severo, attivo fin dall’i-nizio degli anni Ottanta come notaio al servizio del monastero,5 aveva di-chiarato di essere stato incaricato da oltre quattordici anni da Tenda Albizo, badessa di San Lorenzo, di svolgere gli uffici divini sia nella chiesa di San
1. San Lorenzo, a cura di F. Gaeta, Venezia, Il Comitato Editore, 1959, n. 47. 2. San Lorenzo, n. 24.
3. San Severo è attestata per la prima volta con sicurezza sede di pieve da un documento dell’anno 1100, cfr. per questo San Lorenzo, p. xvi.
4. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, iii, Venezia, D. Fracasso, 1795, pp. 20-21.
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Severo, in una proprietà della quale egli risiedeva, che in quella dell’isti-tuto monastico,6 mentre, contemporaneamente, il suo collega Prosdocimo, indicato anch’egli come prete di entrambe le chiese, era utilizzato dalla badessa soprattutto per il disbrigo degli affari temporali delle monache.7
Tale situazione non risultava però gradita ai residenti della parrocchia, i quali, a difendere i loro interessi dopo l’intervento pontificio, nominarono a rappresentarli Giacomo Viaro, diacono e canonico di San Marco, mentre il monastero si affidò al magister Federico per tutelare i propri diritti.8
Il vescovo cenedese Matteo si mise sollecitamente all’opera, ingiun-gendo per tre volte la comparizione in giudizio agli esponenti più in vista della parrocchia, i quali tuttavia non si presentarono, venendo di conseguenza scomunicati,9 mentre la causa continuò con l’incarico af-fidato dal presule al proprio notaio di fiducia Schinella di raccogliere le testimonianze, la documentazione e tutti gli altri elementi utili di prova prodotti dai procuratori delle parti interessate,10 decidendo, nel contem-po, di convocare i loro rappresentanti a Portobuffolè, nel territorio di Treviso, il primo sabato dopo la festa di san Michele, per la pronuncia della sentenza.11 Quest’ultima, emanata il 3 ottobre di quello stesso anno, fu apertamente favorevole al monastero, al quale il prelato riconobbe i pieni diritti su San Severo e la facoltà di elezione e destituzione del clero di quella chiesa, senza alcuna possibilità di interferenze esterne.12
La vicenda non si era tuttavia conclusa in questo modo, in quanto che, su richiesta dei parrocchiani di San Severo, accanto a quella del vescovo di Ceneda, si era svolta in contemporanea un’azione parallela condotta dal suo collega Marco Nicola, titolare della diocesi di Castello, al cui in-terno si trovavano gli istituti religiosi coinvolti, e di Benedetto, primicerio di San Marco, ai quali, il 28 settembre del 1198, il già ricordato Federico, agente questa volta in rappresentanza di prete Prosdocimo, chiese, senza successo, una sospensione di venti giorni della causa, nonché di poter avere copia delle lettere papali che conferivano l’incarico al vescovo castellano, che gli furono esibite, e di prendere visione della procura rilasciata il 9 settembre dai parrocchiani a Giacomo Viaro, cosa che
in-6. San Lorenzo, n. 43. 7. San Lorenzo, nn. 33, 35-36, 39, 40-41, 43-46, 55-59, 61. 8. San Lorenzo, n. 49. 9. San Lorenzo, n. 48. 10. San Lorenzo, n. 49. 11. San Lorenzo, n. 50. 12. San Lorenzo, n. 53.
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vece non gli fu concessa.13 Il 13 dicembre, il vescovo di Castello, assieme al futuro doge Pietro Ziani, allora conte dell’isola di Arbe, e a Ruggero Permarino, designati arbitri dalle parti, pronunciò una sentenza di com-promesso, che fu solo parzialmente favorevole al monastero, poiché essa stabiliva che la chiesa di San Severo continuasse sì ad appartenere a San Lorenzo «sicut episcopus Ursus bone memorie ordinavit», ma pre-vedeva che l’eletto non fosse scelto dalla badessa bensì dai parrocchiani e solo in un secondo momento approvato dalla stessa, la quale avrebbe inoltre dovuto nominare come proprio procuratore un appartenente alla parrocchia, che avrebbe operato sia per la chiesa che per il monastero.14
La vertenza ebbe fine, almeno momentaneamente, con una bolla di Innocenzo iii del 14 luglio del 1199 che approvava quanto deciso dal vescovo cenedese, mentre non faceva invece alcun riferimento a ciò che era stato stabilito da quello veneziano.15 Nel settembre di quello stesso anno, il già citato prete Andrea Eliodoro riconobbe ancora una volta di essere stato investito delle chiese di San Severo e San Lorenzo dalla badessa Tenda Albizo,16 segno che, almeno in questo momento, la questione poteva dirsi apparentemente risolta.
Tralasciando le successive fasi della contesa che una quindicina d’an-ni più tardi oppose nuovamente il monastero e i parrocchiad’an-ni di San Severo, protraendosi poi ancora per lungo tempo,17 ciò che sorprende di quanto accaduto nel 1198-1199, analizzando la documentazione su-perstite, è il contemporaneo interessamento di due vescovi che con-dussero un’inchiesta sulla vicenda, indipendentemente l’uno dall’altro, emettendo ciascuno una sentenza con conclusioni assai diverse sui punti fondamentali in discussione, in quanto una risultava completamente a favore del monastero, l’altra invece, pur riconoscendo in linea di prin-cipio l’appartenenza di San Severo a San Lorenzo, accoglieva di fatto le istanze dei parrocchiani, dando loro ragione.
Mentre, tuttavia, dalla documentazione pontificia, appare irreprensibi-le e pienamente riconosciuta l’attività svolta dal vescovo cenedese, molti dubbi emergono invece se e su quanto fosse stata autorizzata quella del
13. San Lorenzo, n. 51. 14. San Lorenzo, n. 54. 15. San Lorenzo, n. 62. 16. San Lorenzo, n. 67.
17. Per le fasi successive, vedi San Lorenzo, pp. xiii-xvii. Per i secoli xii-xiii il conflitto è stato recentemente analizzato da S. Carraro, Società e religione nella Venezia medievale.
Il monastero di San Lorenzo di Castello, Tesi magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia,
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suo collega castellano, a cominciare dall’assenza di atti che ne affidassero l’indagine da parte della curia romana. Gli stessi dubbi, a quanto sembra, erano venuti al procuratore del monastero, il quale aveva chiesto per que-sto motivo di poter vedere copia delle lettere papali inviate a Marco Nico-la. La sua richiesta era stata esaudita, ma di tutti questi documenti non è rimasta più alcuna traccia,18 così come la Santa Sede dimostra d’ignorare del tutto le conclusioni alle quali era pervenuto il presule di Castello.
Fra le scritture esibite in quella circostanza da parte del magister Fe-derico, come risulta dalla sentenza del titolare della diocesi castellana, vi era invece un documento di particolare interesse, rappresentato dal testamento del vescovo di Olivolo, Orso, risalente al febbraio dell’853, considerato l’atto istitutivo del monastero di San Lorenzo.19 Con esso infatti, il presule – ricordato un secolo e mezzo più tardi dal cronista Giovanni diacono, secondo il quale avrebbe retto la diocesi per trenta-due anni20 – donò alla sorella Romana la chiesa di San Lorenzo, che era appartenuta a suo padre e da questi era passata a lui, come il vescovo ricordò esplicitamente, al fine di costruirvi accanto un monastero, stabi-lendo inoltre che la basilica di San Severo «coniuncta permaneat semper cum ecclesia Beatii Laurentii ut nulla separacio exinde fiat».
Quest’ultima clausola fu alla base della controversia scoppiata fra le monache e i parrocchiani di San Severo. In effetti, la lettera di Innocenzo iii del maggio 1198 ricordava come la chiesa fosse appartenuta al mona-stero per oltre quarant’anni, secondo quanto riferitogli dalla badessa,21
mentre nella sentenza del vescovo di Ceneda dell’ottobre di quell’anno si precisò come il procuratore del monastero avesse dimostrato in maniera adeguata, in base a prove testimoniali rilasciate «per ydoneos testes», che San Severo era detenuta da San Lorenzo «per l annos et plus» e che gli ecclesiastici che vi officiavano erano nominati ed eventualmente destituiti per volontà delle stesse badesse.22
Nella successiva sentenza compromissoria emessa dal vescovo di Ca-stello, questi però sottolineava che la chiesa di San Severo era
dipenden-18. San Lorenzo, p. 144, n. lxiii, giustifica la lettera, non conservatasi e forse mai pervenuta, di Innocenzo iii al vescovo di Castello come «un errore della curia romana» che avrebbe incaricato per sbaglio il presule di occuparsi della questione.
19. San Lorenzo, n. 1.
20. Iohannes Diaconus, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, i, a cura di G. Monticolo, Roma, Fozzani e C. Tipografi del Senato, 1890, pp. 115-116.
21. San Lorenzo, n. 47. 22. San Lorenzo, n. 53.
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te dal monastero di San Lorenzo come ordinato dal vescovo Orso.23 Fu quindi allora che il testamento venne presentato dal procuratore delle monache come prova della legittimità delle loro pretese sulla chiesa. Ma i diritti del monastero erano poi così tanto legittimamente costituiti?
Già nel 1940 Roberto Cessi avanzava sospetti sulla genuinità del do-cumento, facendo notare come la sottoscrizione del patriarca Elia fra i testimoni dell’atto fosse stata «certamente interpolata da maldestro contaminatore»,24 mentre Franco Gaeta nel 1959 ipotizzava che pure il passo relativo a San Severo potesse essere un’interpolazione in quanto «sembra un po’ troppo calcar la mano su questo argomento».25 Più re-centemente, Silvia Carraro ha ripreso il tema, ribadendo i dubbi prece-denti e facendo rilevare in particolare un’incongruenza nell’intitolatura del doge Pietro, sospettando pure per essa un’aggiunta posteriore.26 In realtà però i punti controversi appaiono a ben guardare più numerosi rispetto a quanto non si creda.
Innanzitutto, il documento non è pervenuto nell’originale redatto da Costantino diacono e scriba, ma se ne conoscono vari testimoni, due soli dei quali degni di nota: una copia semplice,27 di mano non veneziana ma probabilmente educata nell’area padovana, che deriva da una preceden-te copia aupreceden-tentica non datata di Domenico diacono e notaio, attribuita al x secolo dal Gloria, dal Lazzarini e dal Cessi28 e ancora al x – prima metà dell’xi dal Gaeta,29 e un’altra copia semplice,30 redatta verosimilmente in occasione di una nuova fase della contesa riesplosa nel 1214, derivante dalla prima, con qualche variante lessicale ma le stesse lacune e perdite di scrittura per strappi presenti nell’antigrafo, fatto che esclude una sua
23. San Lorenzo, n. 54.
24. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di R. Cessi, i, Padova, Gregoriana Editrice, 1942, n. 60.
25. San Lorenzo, n. 1.
26. Carraro, Società e religione, pp. 49-54; poi ripreso in S. Carraro, Tra sacro e quotidiano.
Il monachesimo femminile nella laguna di Venezia in epoca medievale (secoli ix-xiv), Tesi di
Dottorato, Università degli Studi di Milano, rel. E.E. Occhipinti, aa. 2011-2012, pp. 7-10. 27. Padova, Archivio di Stato (=aspd), Demanio, b. 58, fasc. b, n. 28; cfr. la riproduzione in appendice eseguita dalla Sezione di Fotoriproduzione di aspd su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, aspd, n. 02/2013 del 25/01/2013, prot. n. 0302 Cl. 28.13.07/1.2. 28. Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, a cura di A. Gloria, Venezia, R. Deputazione veneta di storia patria, 1877, n. 11; V. Lazzarini, I titoli dei dogi di
Venezia, «Nuovo Archivio Veneto», n.s., v, 1903, p. 275; Documenti, i, n. 60.
29. San Lorenzo, n. 1.
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discendenza diversa. I rimanenti testimoni, traditi tutti in copia semplice parziale dei secoli xiv-xvi, rinviano invece ai due più antichi.31
Un primo elemento che induce a dubitare della completa genuinità del testamento di Orso è la doppia invocazione che compare dapprima con l’espressione «In nomine domini Dei eterni» come nel privilegio dei dogi Agnello e Giustiniano Particiaco per il monastero di San Servolo del-l’819,32 poi con «In nomine domini Dei et salvatoris nostri Iesu Christi» come nel testamento dello stesso Giustiniano dell’82933 e nella maggior parte dei documenti cancellereschi e notarili veneziani posteriori.34 Al-trettanti sospetti, se non di più, suscita la duplicazione della datazione, che si presenta dapprima con l’era cristiana e poi con quella imperiale. L’indicazione, con calcolo corretto, dell’era di Cristo espressa secondo il computo pisano (o volgare) dell’incarnazione appare eccessivamente precoce. Tranne per due casi isolati del primo decennio del x secolo, essa si affermò infatti nel Ducato solamente a partire dall’ultimo ventennio di quello stesso secolo, per poi venir meno con l’adozione da parte di tutti i notai lagunari dello stile veneto nel 1037-1038. La cronologia del sovrano bizantino Michele iii si presenta invece in eccesso di una unità, errore che non appare tuttavia di particolare rilevanza, considerando le frequenti incertezze palesate dagli scrittori veneziani nell’utilizzo dell’era imperiale.35 Ritengo pertanto che sia la prima invocazione che la datazione con l’era cristiana che immediatamente la segue non fossero presenti nel testo genuino, ma l’inserimento si debba all’ignoto scrittore della copia più antica a noi pervenuta, considerando come a Padova e nel suo territorio l’utilizzo dell’era cristiana, pur con qualche raro esempio anteriore, fosse diventato abituale con l’ascesa al trono di Enrico iv, alla metà degli anni Cinquanta dell’xi secolo, epoca alla quale, a mio avviso, risalirebbe questa copia.36
31. Per i restanti testimoni, cfr. San Lorenzo, n. 1.
32. Santi Ilario e Benedetto e San Gregorio, a cura di L. Lanfranchi, Venezia, Il Comitato Editore, 1965, n. 1.
33. Santi Ilario e Benedetto, n. 2. Per la corretta datazione, vedi M. Pozza, Gli usi
cronologici nei più antichi documenti veneziani (secoli ix-xi), in D. Puncuh (a cura di), Studi in memoria di Giorgio Costamagna, ii, Genova, Società ligure di storia patria, 2003, pp. 803-804.
34. Cfr. da ultimo M. Pozza, Scrittura, diplomatica, notariato a Venezia, in J.-M. Martin et al. (a cura di), L’Héritage byzantin en Italie (viiie-xiie siècle), i, La fabrique documentaire,
Roma, École française de Rome, 2011, p. 157.
35. Per quest’ordine di problemi, vedi Pozza, Gli usi cronologici, pp. 801-848.
36. Cfr. V. Lazzarini, Del principio dell’anno nei documenti padovani, «Bollettino del Museo civico di Padova», 3, 1900, pp. 15-16, sulla scorta del Codice diplomatico padovano, nn. 161 (1052 aprile 21), 175 (1058 giugno 3), 177 (1058 settembre 2), 178 (1059 aprile 3).
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Per quanto riguarda il contenuto del testamento, il vescovo Orso di-spose dapprima delle sue proprietà private, trasmessegli per via eredi-taria, che destinò per intero alla sorella: la chiesa di San Lorenzo e i beni mobili e immobili donati per dotare il nuovo monastero, poi si occupò delle risorse di cui poteva disporre in qualità di vescovo: le donazioni a favore di poveri, carcerati, sacerdoti e al restauro di chiese e mona-steri, secondo una ripartizione aderente alla tradizione tardo antica,37
nonché alla chiesa cattedrale di San Pietro e al monastero di San Ilario. Tra queste ultime disposizioni compariva anche la chiesa di San Severo, legata dal testatore a San Lorenzo. Ma poiché, come egli stesso ammet-te, l’edificio religioso era appartenuto al padre e ora rientrava fra le sue proprietà personali, la collocazione in questa parte del documento risulta fuori posto e conforta l’ipotesi che si tratti anche in questo caso di un’interpolazione, allo scopo di fornire alle monache la legittimazione dei loro diritti sulla chiesa, contro le pretese dei parrocchiani.
Il formulario del testo presenta notevoli somiglianze con le estreme volontà espresse dal doge Giustiniano Particiaco dell’829, sottoscritte dallo stesso Orso. Il fatto non stupisce, poiché i testamenti veneziani mantennero per lunghi secoli invariate le loro formule.38 L’invocazione e la datazione seguono gli stessi modelli, l’arenga con le motivazioni ideali del fatto documentato e la corroborazione con l’ordine impartito dal testatore al notaio di procedere alla redazione del documento sono altresì del tutto identiche. La sanzione nel testamento di Orso è di na-tura solamente spirituale, è invece assente in quello di Giustiniano, che però è pervenuto solo in copie tarde e incomplete. Comune è inoltre il ricorso ad arcaismi, quali la locuzione «uncias principales», come pure presentano caratteristiche simili le qualifiche dei testimoni, appartenen-ti in maggioranza al ceto tribunizio, sia nel testamento di Giusappartenen-tiniano che in quello di Orso, con uso frequente della preposizione greca cata premessa ai loro cognomi.
Là dove si segnalano più evidenti differenze è nella parte finale dei due documenti. Giustiniano sottoscrisse di suo pugno il proprio testamento, assieme al fratello Giovanni che poi gli successe nella carica ducale, al vescovo Orso, a quattro tribuni e a un presbiter che fungevano da testi, ri-spettando pienamente in tal modo le norme giustinianee che prevedevano sette testimoni per i testamenti. Orso invece non provvide a sottoscrivere
37. D. Rando, Una chiesa di frontiera. Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli
vi-xii, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 44, 58, 224.
38. Per l’analisi diplomatistica dei testamenti veneziani, vedi A. Bonnini, Per «divinam
inspirationem»: uomini e testamenti nella Venezia dei secoli ix-xii, «Studi Veneziani», n.s.,
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le sue ultime volontà, ma la sottoscrizione dell’autore non era indispensa-bile per conferire valore giuridico all’atto. Compaiono invece come testi il doge Pietro, il figlio di lui Giovanni, un patriarca a cui è attribuito il nome di Elia, il presbiter nonché archidiaconus Vitaliano, cinque tribuni e un personaggio senza particolari qualifiche, per un totale di dieci persone, che però si riducono a otto: il doge, il figlio, i tribuni e il teste non quali-ficato, nella notitia testium, presente pure nel testamento di Giustiniano.
Tre di queste sottoscrizioni si presentano problematiche. Per prima quella del doge Pietro Tradonico (836-864), che agisce «cum consensu populi Venecie», qualificato come «imperialis cosolis (da emendare in consolis)», corrispondente al titolo aulico bizantino di ipatus. Ma, fra l’840 e l’841, Pietro era stato insignito del titolo onorifico di spatarius, che conservava ancora nell’856.39 Come giustificare l’errore? Pare dif-ficile pensare che nel frattempo il doge fosse diventato anche ipatus, preferendo utilizzare questo secondo titolo, meno importante rispetto a quello di spatarius.40 Credo invece che si possa supporre con maggior probabilità l’errore dello scrittore del testo genuino, il diacono e scriba Costantino, considerato come nel testo da lui redatto la sottoscrizione del doge, introdotta dal signum manus, non fosse autografa, tranne il
signum crucis, almeno a giudicare dalle espressioni adoperate e dal
ricorso al verbo alla terza persona, ma di mano dello stesso redattore, che, a quanto pare, conosceva il titolo più antico, ricoperto per oltre un secolo dai predecessori del Tradonico, fra i quali anche Giustiniano, ma ignorava quello più recente assunto dal doge in carica.
Non desta invece sospetti la seconda sottoscrizione: Giovanni, figlio del doge e da questi designato a succedergli, che però morì prima del padre. Evidente aggiunta è invece il nome del patriarca che segue, senza indicazione di titolo, e la formula che utilizza. Al tempo della redazione del testamento, il titolare della carica era Vittore, come provato da un atto pontificio dell’anno precedente,41 il quale, secondo la testimonianza di Giovanni diacono, era ancora in vita al momento della scomparsa di Orso.42 Il solo patriarca gradense di nome Elia conosciuto visse nel vi secolo, comparendo negli atti della sinodo provinciale tenutasi a Grado
39. Lazzarini, I titoli dei dogi, pp. 274-276.
40. G. Ravegnani, Insegne del potere e titoli ducali, in L. Cracco Ruggini et al. (a cura di),
Storia di Venezia, i, Origini-Età ducale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992,
pp. 843-844.
41. Documenti, n. 59.
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