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Un frammento inedito della tradizione italiana dello pseudo-aristotelico Secretum secretorum

Nel documento Historiae scritti per gherardo ortalli (pagine 165-173)

Ornella Pittarello

Il frammento che segue fa parte del codice cartaceo miscellaneo del xiv-xv secolo oggi conservato presso la Biblioteca Civica «Angelo Mai» di Bergamo con segnatura ma 334 (già Sigma vii 29).1 Più precisamente esso si estende da c. 12v a c. 11r, in quanto queste carte vennero cucite invertite rispetto a tutte le altre che costituiscono il codice. Per quanto riguarda il contenuto si tratta di un testimone parziale della cosiddetta tradizione in volgare italiano2 dello pseudo-aristotelico Secretum

se-cretorum, un testo dal titolo suggestivo e quasi favoloso che divenne

popolarissimo in tutto il Medioevo e oltre.3 La sua grande fortuna infatti si protrasse dal x al xvii secolo e la sua diffusione coprì vasti territori: Eu-ropa occidentale, compresa la Scandinavia, Nord Africa e Medio Oriente, dove gli studiosi presumono sia stato scritto.4

1. Il manoscritto è stato inventariato e sommariamente descritto in P.O. Kristeller,

Iter Italicum: a finding list of uncatalogued or incompletely catalogued manuscripts of the Renaissance in Italian and other libraries, vol. 5 [2], Accedunt alia itinera, 3. and Italy, 3. Sweden to Jugoslavia, utopia, supplement to Italy (a-f): index and addenda, compiled

by J. Wardman and her assistants in collaboration with the author, London-Leiden, The Warburg Institute, E.J. Brill, 1990. Notizie si trovano inoltre in J. Agrimi, Tecnica e scienza

nella cultura medievale. Inventario dei manoscritti relativi alla scienza e alla tecnica medievali. Biblioteche di Lombardia, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 13-15 e in W. Van

Egmond, Practical mathematics in the Italian Renaissance, Firenze, Giunti Barbera, 1980, pp. 47-51.

2. Per quanto riguarda lo studio della tradizione italiana del Secretum secretorum si rinvia a I. Zamuner, La tradizione romanza del Secretum secretorum pseudo aristotelico, «Studi Medievali», xlvi, 1, 2005, pp. 31-116, in part. si rimanda alle pp. 92-116 in cui l’autrice

presenta lo stato attuale delle ricerche e l’elenco dei manoscritti che portano il testo pseudo-aristotelico (intero o parziale) in volgare italiano, all’interno del quale però non viene citato il codice ma 334 di Bergamo.

3. C.B. Schmitt, W.F. Ryan, Introduction to Pseudo-Aristotle, The Secret of Secrets

sources and influences, London, The Warburg Institute, University of London, 1982, pp. 1-2.

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L’opera poggia sulla struttura dell’epistola: Aristotele, l’anziano mae-stro fiaccato nel corpo ma non nell’intelletto, invia all’antico discepolo ormai diventato re, Alessandro Magno, i suoi consigli per essere un buon monarca, per cui il testo rientra perfettamente nel canone medievale dello Speculum principis. Intorno a questa cornice strutturale portante, nel tempo vennero ad agglomerarsi altri argomenti secondari, quali informazioni astrologiche, accorgimenti pratici di medicina e igiene, nozioni di fisiognomica, alchimia e magia, facendo del Secretum

secreto-rum una sorta di Summa enciclopedica. L’indiscusso credito del presunto

autore, unito alla varietà dei contenuti, ne decretarono la grande fortuna e la diffusione in diverse lingue, tra cui il volgare italiano.

In volgare italiano, con spiccate caratteristiche di venezianità,5 fu scritto a tutta pagina in inchiostro bruno scuro e con una scrittura mer-cantesca non sempre chiara, appunto il frammento che qui si trascrive. Gli argomenti che vi si trovano esposti, pur nella sua brevità di testimone parziale, si ascrivono nettamente a quella parte del Secretum

secreto-rum spettante al genere, lo si è accennato più sopra, dello Speculum principis. Aristotele infatti qui inizia a dare i suoi chastigamenti ad

Ales-sandro Magno, «açò che ‘l podese chonquystar, regnar, accresier per via de descriçion e de cognosança»,6 come pomposamente declama il breve cappello introduttivo al testo.

La trascrizione del frammento è stata effettuata rispettando con ri-gore la lezione tradita dal codice ma 334, intervenendo soltanto per rendere più facilmente usufruibile il testo. Passando ai dettagli degli interventi più significativi, si avverte che a) l’uso della punteggiatura, delle maiuscole e delle minuscole segue le regole moderne; b) il passag-gio da una carta alla seguente è stato segnalato con una doppia barra ||

5. Segni evidenti della venezianità linguistica del frammento sono il dittongamento di e ed o aperte in sillaba aperta (es. avien/muodo); la caduta di e dopo l, n, r (es. qual/vien/star); la caduta di o dopo n, r (es. algun/quelor); lo scempiamento di l e s (es. chavalo/posesion); la variazione delle occlusive sorde intervocaliche (es. podese/perigolo); l’esito affricato per c davanti a vocale palatale (es. inçegno) e sibilante quando precede un’altra vocale (es. radise); la conservazione dei nessi consonante + l (es. plan); v- anziché gu- (es. vixa); la suffissazione avverbiale -mentre (es. molementre); morfemi verbali in -ando (es. abiando); la 3a persona plurale uguale alla 3a singolare (es. mostra); -s della seconda persona singolare (es. poras); l’aferesi dell’articolo determinativo. Per individuare le caratteristiche della venezianità linguistica del testo sono stati utilizzati A. Stussi, Introduzione, in Testi veneziani

del Duecento e del Trecento, a cura di A. Stussi, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, pp. ix-lxxxiii;

G. Belloni, M. Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma, Jouvence, 1987; F. Semi, Il dialetto

veneto dall’viii al xx secolo. Cento testi storici, Padova, Liviana, 1988; M. Cortellazzo, Venezia, il Levante e il mare, Ospedaletto, Pacini, 1989; G. Folena, Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990.

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e distinguendo il recto e il verso; c) sono state sciolte le abbreviazioni secondo l’usus scribendi; d) con l’apostrofo è stata indicata la caduta di una vocale o di un’intera sillaba; e) si è trascritto à per ha e ò per ho per distinguerle dalle concorrenti o e a preposizioni semplici; f) tra parentesi angolari ‹ › si trovano le pochissime integrazioni al testo; g) con tre cro-cette all’interno di parentesi quadre [+++] sono state segnalate le parti illeggibili; h) dei rarissimi interventi sul testo o particolarità riscontrate nel medesimo si è dato conto in nota.

La discussione critica del frammento del Secretum secretorum invece esula dalla competenza specifica di chi trascrive. La si affida pertanto ad altri i quali, ben più competenti e forse agevolati da questa trascri-zione, potranno riuscire a collocarlo nell’ambito della vasta e intricata tradizione italiana del testo pseudo-aristotelico.

|12v| Questo siè primo libro lo qual fe’ Aristotele al re Alesandro, re de Maçedonia, in lo tenpo della soa çoventude.

Aristotele plen de siençia ed eçellente in dotrina e ordenado in chos-tumança al re Alesandro, el qual era stado soto so’ amaestramenta al tenpo de la soa infançia, dredo la morte del re Felipo el fo soçedu a lu lo regname de Mançedonia, scrise in questo ordene e forma el so animo de tali chastigamenti, açò che ‘l podese chonquystar, regnar, accresier per via de descriçion e de cognosança.

Nobel creatura, ho Alesandro re, homo che voia mantegnir chorona e reçer l’altra çente non de’ atendere a li viciy de la ‘fantia, avegna che ‘l sia su grande çoventù là oe l’aliçandreça del chorpo destrençe la volontà, se la sovra abonda granmentre, enbriga lo seno. Adoncha, se tu è ço-vençelo a raxion de età, abi animo de madureça entro li toi adovramenty, ché ‘l seno e la provexion no abitosa è gran chaxion de mantegnir po-sança, francheça de chuor e guarnixion de arme e mente ben desponuda mantien signoria e sè queste chose, per l’un tenpo e per l’oltro de paxie e de guera, molto besognevole al prençipo che longamentre vol regnar. Adoncha, aby entro lo to animo quela vertù che sape la forteça, va’ di çente ben guarnida d’arme toa persona ben achonça a vertù, adoncha te força de produr e meter te in adovramento le toa bona disposiçion e, açò che tu posi far quelo che io te digo, avre le oregle a quelo che io te meto e intro la mente toa reçevy li mie’ amaistramenty. Se tu credera’ a mi, ho re sovran, tu avera’ a toa choversaçion e a toa desmestegeça le nobele persone provade in bontà e in discreçion, ché sença dubio la nobelitade se desdegna de far vilanie e soçure e si à vergogna a partirse da la raxion e da le chose raxionivele, hover chonvegnivele. E sepi che

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le chadena de grando amor è de gran segureça chonseiar, produr et honorar queli la chu’ chonversaçion te fa mostrar aver.

No reçever a toa chonvirsaçion, né a li toy chonsey le malvaxie perso-ne e inique e li omeni de do lengue, cho li so’ adovramenty no può star su alguna dritura. E non asaltar quely li qualy mostra de star abaso, che se eli vien sovra posança tropo è dura la soa signoria ch’eli fa sì chomo el flume che vien da la montagna, che s’apela thorente, el qual mostra de star piçolo, mo’ recevi de le aque de le pluove che engrosa e anplasi chomo ruina porta el so furor maior, mentre ch’al flume ch’è grande e perpetual. Chosì fa li servy da può ch’eli aquista richeça e siè vegnudy su alteça d’onor che contra so segnor se lieva e argoia sé chontra lu e sè crudel più cha l’aspedo venenoso, lo qual se sera e stropa le oregle a li preganty e ‘n tal guisa fa lo servo.

Avegna ch’io te abia dito che tu non debi alçar quele persone le qual mostra de star base e non voio che ‘l to intendimento in questa chosa sia sì çeneral per lo qual debi trapasar le fin chonvenivo‹l›a e non entendi che ‘l sia persona basa, homo discreto e onesto e abondevele in via de chostumy bony e dreti e lial, ché se tal persone apar a ti chon segureça puo’ lor promuover e onorar ché la bontà de l’anemo mantignerà lor su dritura, quanvis Dio, che eli non sta de grande luogo, né de çienerarçion. Che se tu vuoy che te diga el vero, la pechunia non dà bon chostume, nè inferma l’anemo a le chose honeste, ançi è provada chosa che le ‘nviçia lo anemo e choronpe la bona mente e siè meraveiosa chosa entro le al-tre meraveie che de lahonde et seno e chortexia doveria cresier e de lo’ abonda superbia e mateça.

L’omo, che à richeça de seno e de bontade e abonda in bony chostumy e non à richeça d’aver, mo’ è guarny entro lo so anemo de le vertù à teso-ro plu preçioso ch’à l’oteso-ro, né ch’à lo arçento, né ch’à altra pechunia, né posesion, chè chon lo seno e chon le vertù el po redimer li viçiy e li eror de la soa patria, laonde |12r| el po dar alturio e chonseio besognevele e solamentre per la dovrança del seno, la qual chosa no poria far molte richeçe d’aver e senbla la vertù no se de’ querir da la parte de fuora, ché quelu che abonda dentro de bon voler e de bon entendemento da là de fuora non à besogna de alguna chosa che vera xia. Nobeletà solamente è quela che vien da la bontà del chuor che adorna lo anemo de bona chostumança.

Amor, desiderança de iustisia e de raxion e inspiraxionb divina e se su questa sedia sedrà el iusto prinçipo claramente va nettamente dal so reçimento non porà eser arbasado che l’è dov’è la raxion e sì chomo la dreta è su eternal stabelita, in tal guixa la iustixia fondada intro lo chuor del re a lu dà perpetual forteça. Adoncha ama la raxion che, se tu chonservy ela, ela chonserverà ti e toa grandeça.

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E se quistion serà movesta danançi da la toa arbitraxion de la toa signoria, abi in la mente dreta la stadiera del çudixio, sì che açeçion de persona non inclina la stabelità de la toa mente nè algun amor fuora de raxion te porta in priexio, te choronpa né te posa muover chose donade che intro li çudisiy en gran renprension reçever dono. E se tu vuol che te ‘l diga, ben te ‘l dirò per ché intro li çudisiy è gran renprension e quelu che dona muove da malvisità d’anemo e per li doni à spetança de stra-volçer la dritura e in tal visa dar è chosa de grande inçegno, ma non da loldar e al postu to vituperio e a ty in la chu’ man depender l’asaminar e delfenir che ‘l don açiega l’omo e fa la mente tenebrosa e plena de schureça et invola el dreto voler da via de veritade.

O nobel creatura, ho re Alesandro, guarda che le grande çoie e la desiderança de moltiplichar richeçe no alaça la toa bontade, chè tal disideriy vien da la radise de l’avariçia, la qual è fondamento de tute le iniquitade né plu crudel mal in tera che lao’ ela signoriça tuti li viçiy e inprisona la vertude.

O avariçia, detestabele inimiga de Dio, chomo tu sai mal tornar indrie-do da puo’ che tu è intrada in algun luogo, ché plu liçiermentre se traçe loco dentro lo marmoro cha l’avariçia dentro da lo chuor de lo avaro. Per-çiò, re Alesandro, vardate da questa levra che fa l’omo eser desamado e metelo in desprexio de tuta zente, né çò è meraveia che inpiamente la revolçe lo anemo da la equità e lu trabucha intro lo profondo de le felonie. Se tu vuoy vegnir su grando honor e in bona fama de la çente, la qual siè granda segureça del principado, e su questo proponimento tu vuoi mantegnir lo to voler e la posesion de la toa alteça, tochara’ adovrar, çoè a dover permagnir achonçà lo animo to ad eser a la deversità de la mostra de le persone, çoè de la natura de le persone, çoè che tu si’ umele amigo a li amigevoly, miserichordioso a li suieti, forte a ly forti, duro a li superbi e plan a la çente chomuna, in questo ordene e muodo.

Quando la persona de bona fama, homo plan e umele chaçe in algun eror de sà veçudo e no à iniquitade pensada, ma per algun falo sovra vegnù per bonità, inclina lo animo to a perdonar. Perdona a li omeni, per-dona a li suçiety, li quali retorna e suçiase a la toa signoria; quando tu si’ pregà de chosa chonvegnivele asir liçiermente, holdi l’altru’ priegi e si’ amigevolo a le domandaxion, le quale honestamente fiaty diti e sapi che le plasevole resposte de li re molto destrençe ad amor li sudity. Quando tu truovy persona superba e regoiosa chontra la iustixia toa, ama la po-sança toa chontra lu e mostra la forteça toa e la vertù de la toa grandeça, segondo che besogna chontra la qualità del to revelo. Promuovi la toa |11v| zente he ordena l’oste chontra de lu e a li suo’ dany tu reporta, nè de’ meter fin al chomençamento de fin a tanto che ‘l serà hoptenudo l’argoio e la superbia del to inimigo, el qual era movesto chontra a soa

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gran cholpa, choreçando a l’altru’ torto e non çamai al to, chè la iustixia è schu’ e forteça del re. Quando tu vai chontra lo to inemigo, avegna che ‘l sia noc de grando afar, no ge ‘ndar sença gran chonpagnia de çente, a çò che la toa posança non para vana, ch’a molte persone è torna’ a dano a meter lo so inemigo per niente e l’altru’ afar tegnir in despriexio spese fiade avien che la guerad a fin per bataia e in la bataia à mestier la pro-deça d’arme e sono in lo adovramento che la desordena: da moltitudene viaçò ruina. Honde se chontra lo enemigo tu vignera’ a la bataia, avegna che la toa età brieva non te faça ben eser chonvegnivele a conbater, fa’ che tu si’ ben arma’ e intro la bataia mostra senpre la toa faça aliegra, chè l’alegreça che tu mostrera’ darà sperança a la toa zente de vituoria. E no star muto nì taçito quando chonbate la toa çente, mo’ ad alta voxie chonforta, manaça, priega e chastiga la toa zente e chon li toy parlary fa’ lor eser choraçiosi e sapi che molto zuova in le bataiye quando lo re chonbatando chonforta la soa zente.

No è algun de çente plena de tanta prodeça, né de tanto valor che a l’intrar de la bataia a la fiada no se temorischa, se da l’una parte e da l’altra sé engualeça d’arme, e çò è la chaxion che ‘l chonbater prosume e à sperança, ma no çerteça. E la discriçion rechore al chuor, esamina lo perigolo de quelo che può inchontrar e de çò si’ la mente temorosa et in l’ora vaçila lo chuor e trema ne le chonpagnie e su gran fermeça e in quela fiada è gran dubio lo chonbater, chè ‘l chonbater requiere bal-dimento e sperança bona. E per çiò, innançi che la bataia s’aprosima, o re Alesandro, chon alegreça parla entro la toa ziente e dali ad intender la iniquitade e ‘l torto de li to’ inemixi e lì biasema le soe hovre e dali ad intender che tu non à dubio algun de vençer e mostrar chomo tu chonba-ti per la iuschonba-tixia e che Dio e la raxion sé dal to lady e lolda la prodeça e la segureça de la toa zente. E arechorda le grande vituorie ch’eli à ‘budo chon ti insenbre et prometi a lor le grande çoie e le guarnixion de li nemixi et in tute vise chonforta e dali alegreça chè, da che tu averay tolto via lo temor chon lo to parlar e avera’ chonfortado li suo’ chuory, valor averà dado baldeça in l’ora chomença’ la bataia, chè quando l’omo è fato animoso e lo chuor li è abraxia’ no teme fero, no teme morte, né s’arechorda d’algun perigolo.

Siando al chanpo li to’ inemixi, se eli se revolçe in fuga e chomença a retornar inver le soe albergarie o in altra parte schanpando, schivando la bataia, tu chon la toa çente sera, in nordene inchalça e inprendi lor e fa’ che tu si’ inlora lo premier de la toa çente, çoè davanti a tuti chaçando li to’ inemixi.

E se la toa zente per alguna chaxion abandonando el chanpo se rechu-lase in fuga per tema de l’inemixi, digo a ti che tu debi esere lo deretan apo’ de li toy, inbrigando e oponando ti a li to’ inemisi, quanto tu puo’,

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che eli no prema la çente toa, che quando eli vedera’ star ti a la soa de-fension el desonor de la viltà li chorerà al chuor e avera’ vergonça. E tu inlora, abiando recholta la toa çente, guarda, esamina chonpagnie de’ chavaliery sia da la parte innimiga e quanto pruovalo e chomo guarny e inpara se le altra çente da la parte de li inemixi che non se mostra al chanpo e dà a chognoser chon que’ talento e chon qual baldeça ely se argumenta al chonbater, né no te die’ smarir de moltetudene de çente, se tu vedrai lor star molementre e chon vista de temor, ma inlora chon tut‹e›e le toe vertude, chon tute le forçe de ti e de tute le toe çente e chon vigoreça de chuor alarga li freny a li chonbatimenti. Qua si mostra la toa força, la prodeça de ti e di to’; qui no sé tema ch’a lor ni fa diç[+++]f |11r| no plage né altra chosa, ma fortemente inchontra lor spada per me spada, elmo per me elmo, schudo chontra schudo, chavalo chontra chavalo, e lo seno e lo seno, e lo adovramento domarg chon tanto baldimento parà in ti e in la toa çente, ch’apena tu si’ chontento aver reçevudo trionfo de i to’ nemixi in questa fiada da puo’ che tu avera’ fato la schonfita de li to’ inemixi pugna d’aver le çitade in toa balia sença demorança, ché entro lo monimento de la vituoria toa li anemi de li to’ inemixi è perdudy e sé sença valor e sença chonseio. Ma la demorança tropo tosto li darave vertude, per çiò non de’ eser alguna induxia da ch’è fata toah schonfita de andar a la çitade. E se de plan eli te la vol dar, tuola in ti; e se eli non te la dà, inchontenente aduovra le toe vertù in averla, ché porte, mure e fose no è forteça lao’ trema lo chuor ed è perdu’ lo vigor e la baldeça, chè la paura li fa vegnir in desperança in la qual no è alguna defension.

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