• Non ci sono risultati.

Le cose finite e l’omnitudo realitatis

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 149-162)

La questione della natura dell’ideale

11. Le cose finite e l’omnitudo realitatis

Nel corso della meditazione sulla formazione dell’ideale dell’esser- ci umano abbiamo richiamato alla memoria a grandi linee la dottrina dell’“ideale trascendentale” di Kant. Il riferimento a Kant non è un fregio di erudizione, nemmeno una conferma autorevole di una qual- che tesi, ma la rievocazione di un problema radicale. L’“ideale” come fattore etico è costituito in fondo nella connessione tra “essere” e “essere buono”, tra “ens” e “bonum”. Poiché entrambi questi trascendentali formano l’orizzonte dell’interpretazione del pensiero, questa è una con- notazione “filosofico-trascendentale” dell’ideale. Questo appare innan- zitutto come un “ampliamento” del concetto di ideale – a tutte le cose oltre la sfera morale. Come le gesta umane e le omissioni sono deter- minate in senso etico dall’ideale, così tutte le cose sono determinate in senso ontologico da una corrispondenza all’ideale; come quello muove

la condotta della libertà razionale, così questo muove le aspirazioni in ogni ente. Ma l’intima connessione tra ideale trascendentale e morale non è esaurita con una mera analogia di tipo formale. È importante anzi comprendere, come le stelle guida dell’azione umana siano ancorate all’“universitas”.

L’“ideale trascendentale” è, come abbiamo visto, l’“omnitudo reali- tatis”. Questo “tutto della realtà” non è mai dato, non è mai e in nessun luogo un “un oggetto di esperienza possibile”, non può giungere a un mostrarsi intuitivo-sensibile. Nonostante non lo incontreremo in nes- suna esperienza, è però un pensiero necessario, che la ragione umana

deve pensare, – che non può congedare, che la abita e imprescindibil-

mente la intona e la determina. È un pensiero a priori, ma non come i concetti puri dell’intelletto, le categorie, riferite in modo costitutivo all’esperienza. Il pensiero dell’omnitudo realitatis non è una condizione a priori dell’oggetto dell’esperienza stessa e non può nemmeno ottenere “realtà obiettiva” in nessun oggetto. E ciononostante dobbiamo pensare tutti gli oggetti in quanto posti in una relazione con l’ideale trascenden- tale. Che tipo di relazione è questa? Essa si lascia concepire alla guida dei rapporti conosciuti – o è una relazione unica nel suo genere? Kant distingue in primo luogo le relazioni della cosa o dell’oggetto con se stesso e altri oggetti, dunque circa la relazione della sostanza che sta alla base con i suoi attributi, la causalità e l’influenza reciproca tra gli ogget- ti, – in seguito la relazione degli oggetti dell’esperienza con la mai data, ma aperta totalità della serie dei fenomeni. Indicativamente, quando noi comprendiamo una successione temporale di fenomeni attraverso la categoria della causalità come una connessione regolata, allora noi comprendiamo non solo, che qui e ora sono connessi causalmente due fenomeni; noi concepiamo la loro connessione come un anello presente di una catena causale, che torna indietro, – dall’effetto alla causa e da questa causa a una causa precedente ecc.; ma quanto lontano va indie- tro questa catena? La ragione umana non può fermarsi all’indetermina- to e all’eccetera; essa è costretta a “presupporre” a priori la “totalità” di questa catena di fenomeni legata causalmente; questo accade, secondo Kant, nelle idee cosmologiche della ragion pura. Ma con questo pre- supposto la ragione umana è coinvolta in strane contraddizioni e diven-

ta succube dell’“apparenza trascendentale”. Quando il pensiero tenta di pensare fino in fondo i pensieri a priori dell’universo mondano dei feno-

meni, allora incappa nelle antinomie cosmologiche e quindi nel vicolo

cieco di una dialettica estraniante. Inoltre la relazione di un fenomeno dato con una totalità mai data della serie di fenomeni è problematica. Nell’“ideale trascendentale” la stessa “relazione” è ancora più problema- tica. Il rimando delle cose all’omnitudo realitatis non è evidente come il rimando di uno o più anelli di una catena causale all’“intera” catena. Kant opera con il concetto di “determinazione completa”; la cosa è de- terminata completamente come cosa; pensiamo l’essere di una cosa così che essa sia determinata in se stessa. Questa non è una banale ovvietà? Certo, ma appunto qui c’è il campo delle domande filosofiche decisive. Poiché la determinatezza di una cosa finita è una limitazione rispetto alla totalità di tutti i possibili predicati delle cose. L’apparente positività della “determinatezza” è – vista più a fondo – una negazione, cioè un dividere limitante nei confronti della “totalità”. Ogni cosa, determinata in un modo e in un altro, non è più tutto, – ha fatto ingresso nella sua finitezza, “negando” in un certo qual modo l’omnitudo realitatis, – e però, inteso come ciò che è emerso e separato da lei, aspira a ritornarvi. Tutte le cose finite sono, in quanto “determinate”, coniate dallo stampo dell’individuazione, sono esposte all’individualizzazione. Come molte- plici “singoli” sono non solo insieme, riunite in una presenza comune, esse sono anche permeate da un’aspirazione al tutto, verso cui manten- gono la loro finita determinatezza. La “relazione” delle cose determinate con l’insieme di tutti i possibili predicati delle cose è il singolare rappor- to di tensione dell’ente individualizzato con la totalità precedente ogni individuazione.

Il concetto speculativo di Kant della “omnitudo realitatis” è di- ventato nella filosofia post-kantiana dell’Idealismo tedesco il concetto portante fondamentale, cioè l’insieme di tutte le realtà-operanti, in cui “essenza” e “fenomeno” si compenetrano; l’omnitudo realitatis è detta lì “assoluto” ed è considerata l’insieme d’essere, da cui le cose finite emer- gono nel loro corruttibile sussistere e nel quale abbandonano di nuovo la loro sussistenza. Nell’Idealismo tedesco, allora, il problema dell’indi- viduazione rappresenta una “crux” cattiva – e così alla fine Hegel, per

poter comprendere concettualmente l’essenza negativa di ogni deter- minatezza finita, deve collegare il niente a una “potenza del negativo”, di casa nell’essere e in esso dimorante. In Kant l’ideale trascendentale a rigor di termini non è una cosa, ossia nessuna cosa finita, è il concetto di una totalità, che non può mai essere dato come un effettivo oggetto d’esperienza, è un’idea, un’idea necessaria della ragione umana. E que- sta idea è un ideale. È l’idea di un avvolgente intero, che come tale è “in concreto” e “in individuo”.

Questo modo di esprimersi di Kant è insidioso e ambiguo, – ma non si tratta tuttavia di una disattenzione della sua terminologia. Essa, al contrario, è qui di una precisione particolare. Qui si tratta di una abissale ambiguità del problema stesso. E si tratta di una vecchia ambi- guità, – tanto quanto è vecchia la filosofia occidentale. «L’uno, il solo saggio, non vuole e pur vuole esser chiamato col nome di Zeus»24, si

dice nel frammento 32 di Eraclito. La realtà originaria respinge da sé il nome “dio” e tuttavia lo reclama di nuovo.

L’Uno-originario non è una cosa, non è un ente e tuttavia viene presentato ancora come “l’ente sommo”. Il tutto, il pan, è rappresentato dal dio, dal theos. Ma queste sono solo più o meno grossolane conces- sioni del pensiero puro al rappresentare abituale, – la filosofia utilizza il linguaggio della religione popolare, per prestare ai suoi concetti fonda- mentali una lucentezza sublime? Non sarebbe di particolare importan- za se qui si fosse trattato intenzionalmente di una metafora raffinata, di una consapevole similitudine linguistica; i membri accennerebbero l’un l’altro un sorrisetto di intesa. Ma l’ambiguità rappresenta qui una questione ineliminabile, un problema insuperabile. Perché lo stesso in- sieme di ogni ente deve essere nominato nuovamente come un “ente” – perché il mondo deve essere pensato come una compagine ordinata, riferita a un ente sommo? Perciò in che cosa consiste, allora, il fonda- mento della necessità di prendere l’“essere” come una cosa? Quando è già inappropriato e “idolatrico”, realizzare un’“immagine intagliata”

24 Eraclito, Raccolta dei frammenti e traduzione italiana, a cura di R. Walzer, G.C. Sansoni, Firenze 1939, p. 73.

di Dio per adorarla, così in modo diverso è forse fuorviante pensare l’omnitudo realitatis nell’immagine di Dio. La storia della filosofia oc- cidentale si muove fin dal suo inizio in tale ambiguità. E questa non è rimossa quando si dice anziché theos neutralmente theion, anziché Dio “il” divino, l’“assoluto” e così di seguito.

Che cosa significano, allora, adesso i termini kantiani “in concreto” e “in individuo”, se devono dischiudere l’insieme di tutti i possibili pre- dicati delle cose? Innanzitutto concrete e individuali sono le cose sensi- bili, questo tavolo, questa sedia, questa casa. Ma concreto e individuale è, come dice Kant, anche l’ideale del saggio stoico, esso è una cosa di pensiero determinata completamente e unica. Questo ideale, in quanto tale, non ha luogo, come magari i tavoli sensibili; è però uno e concreto, ma non nello spazio e nel tempo, bensì nel regno del pensiero. L’“ideale trascendentale” deve essere evidentemente “concreto” e “individuale” in un senso completamente diverso. Possiamo dire: in quanto totalità di tutta la realtà, in quanto insieme di tutto il reale, come l’intera riserva, da cui le cose prendono la loro materia per la loro determinazione25,

l’“omnitudo realitatis” non può essere così concreta e individuale come le cose finite. Il mondo abbraccia come spazio-tempo le singole cose in- dividualizzate in maniera intratemporale e intraspaziale; la singola cosa è sempre una; ciascuna è unica in mezzo a una molteplicità. Il mondo, però, non è uno accanto o in mezzo a molti altri “mondi”, è “singolo” per principio. E non è concreto come una cosa; questo significa di volta in volta un concrescere di molte singole cose, una fusione di diversi predicati. Ma nella concrezione della cosa determinata rispettivamente in un modo o in un altro si trova l’esclusione di molte qualità opposte. La “totalità di tutti i predicati” non può dunque essere concreta come una cosa, perché non esclude mai niente da sé. Nonostante il loro stare in sé, le cose cosiddette a sé stanti sono mantenute nell’interezza mon- dana. L’interezza mondana stessa, fuori dalla quale più niente è e niente può più essere, deve evidentemente essere completamente diversa, pos- sedere un’“autosussistenza” qualitativamente diversa, – per la quale noi

non abbiamo pronto, per ora, alcun nome e alcun concetto adeguato. Quando Kant, allora, dice che l’ideale trascendentale è il concetto ra- zionale di una “totalità”, pensata “in concreto” e “in individuo”, allora queste determinazioni devono essere trasformate in senso decisivo. Il

pericolo di concepire la “totalità” sempre a partire dal modello della cosa

intramondana, sia essa anche di sommo rango, e così di “reificarla”, co- stituisce secondo Kant proprio il rischio della ragione umana in questo campo. La critica di Kant a tutta la “teologia speculativa”, che “reifi- ca”, quindi “ipostatizza” e infine “personifica” in modo inammissibile e ingiustificato l’“omnitudo realitatis”, è, però, nella precisione del suo attacco, in un certo qual modo ancora determinata da ciò contro cui essa combatte. Poichè quando Kant polemicamente espone che l’idea dell’insieme di tutta la realtà, idea che la ragione deve pensare necessa- riamente, e però per questo nessun “ens realissimum” sarebbe esistente e mai conoscibile nella realtà, allora egli ha implicitamente ammesso la “cosa” come misura dell’essere reale. Dato che per Kant la totalità non è una cosa, per questo essa non è mai “effettiva”, essa resta un concetto di ragione, del quale non possiamo mai sapere, se a esso corrisponda un essere effettivo. Abbiamo quindi in Kant il paradosso, che sarebbe presupposto un originario insieme di tutto l’essere, per la comprensio- ne della realtà effettiva delle singole cose ammesse necessariamente in modo razionale – ma, perché evidentemente questo non può mai essere come le cose finite esistenti, Kant nega a questo insieme l’essere in senso di “realtà effettiva” (l’“existentia”). Il concetto kantiano di “omnitudo realitatis” è caratterizzato negativamente in due sensi: 1. la totalità non è Dio; 2. la totalità non è una totalità “esistente”, quantomeno non riconoscibile dalla ragion pura come esistente. – Ma è una domanda aperta, se siano da mantenere entrambe le negazioni. Potrebbe essere che dipenda dalla risolutezza e dalla nitidezza della prima negazione, se il mondo ci si manifesti come l’effettivo e unico spazio-tempo dell’es- sere. – Per Kant la totalità dell’insieme è un ideale della ragion pura, e quindi questa “totalità” resta solo nel regno del pensiero, e in secon- do luogo le cose finite stanno in relazione alla totalità come la copia all’archetipo. Ma non è un ideale, esso è l’ideale per eccellenza. «Ma esso è anche l’unico ideale vero e proprio, di cui la ragione umana sia

capace, poiché solo in quest’unico caso è conosciuto un concetto in sé universale di una cosa, completamente determinato mediante se stesso e come la rappresentazione di un individuo»26. Questo in verità è una

frase sconvolgente di Kant di una portata difficilmente tralasciabile. Noi prendiamo però gli ideali piuttosto naturalmente al plurale, par- liamo di una molteplicità di ideali nei popoli e nelle epoche. L’ “ideale trascendentale” in senso kantiano non conosce nessun plurale e nessun singolare; non è uno accanto a molti altri e non è nemmeno l’“unico” nell’esclusione rispetto a ipotetici altri. È la dimensione originaria di tutti gli svariati ideali.

Dalla “relazione” dell’uomo con l’“omnitudo realitatis” scaturiscono storicamente le immagini guida di tutti i cammini umani, dei cammini dei popoli e dei sentieri dei singoli. In realtà tutte le cose finite aspirano al “bonum”; tutte sono in un certo qual modo, per quanto appunto de- terminate, determinate contro la totalità, ne sono fuoriuscite nel giorno delle differenze ed entrate nel campo dell’individuazione; tutte sono rinchiuse nel contorno dei loro confini e al tempo stesso anche con- giunte l’una con l’altra con linee che le separano, sono disperse nello spazio e anche riunite di nuovo dalla dispersione; tutte sono spinte nel flusso del tempo, vengono e vanno, compaiono e scompaiono. Ma di tutte le cose finite solo l’uomo si relaziona espressamente e consapevol- mente al tratto, che trascina qualsiasi ens al bonum; non solo è “indivi- dualizzato”, egli sa della sua “esposizione” e intuisce il fondo originario, e la nostalgia umana vibra nella vastità dell’universo, per ottenere dalla sua distanza ogni vicinanza. “Zarathustra” di Nietzsche pronuncia così in “Il canto sì e amen” questo “sentimento del mondo” come stato d’a- nimo fondamentale dell’esistenza umana: «Se io sono amico del mare e di tutto quanto è di specie marina, e soprattutto amico, quando mi oppone la sua collera: Se in me è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: Se mai gridai giubilante: “la costa scomparve, – ecco anche la mia ultima catena è caduta – il senza-fine mugghia intorno a me,

laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo…”– Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?»27.

Naturalmente si è soliti trovare espressa, in tali dionisiache gaie pa- role, solo l’esaltazione di un poeta-pensatore, un sentimento non vin- colante e fumoso. Ma chi ha orecchie per ascoltare, può percepire un minimo la musica dei cieli ed esperire la patria essenziale dell’uomo nel- lo sconfinato “che riluce in lontananza”. In fondo Nietzsche non dice niente di diverso rispetto a Kant. L’ideale trascendentale è il mondo. Ma poiché per Kant non è alcun “ente”, soprattutto non è l’“ente som- mo”, si ha l’impressione che con questo dissolva l’“omnitudo realitatis” in un mero concetto di ragione. La ragione umana non può abbando- nare questo concetto, non può buttarlo via, ma non può nemmeno rap- presentarselo nel contesto di un’esperienza possibile per così dire in un “oggetto”. Questo concetto di ragione, dunque, resta, sebbene debba essere pensato necessariamente per noi sempre vuoto. Perlomeno, dice Kant, per la pura ragione teoretica. Una conoscenza teoretico-specula- tiva di che cosa sia l’“omnitudo realitatis”, è impossibile per gli uomi- ni. Kant opera qui con una contrapposizione tradizionale tra ragione teoretica e pratica. Per questo il “sublime” per lui può ammettere una doppia forma: una in quanto “sublime” estraneo, l’estensiva assenza di confini del mondo, in cui l’uomo si trova annichilito, e l’altra con il sublime della “legge morale”, a cui l’uomo appartiene come una natura che agisce liberamente e si determina razionalmente. Ma la questione, in sé molto complessa, di un’accurata interpretazione di Kant sareb- be allora, se Kant non afferri la sublimità estensiva in maniera troppo ristretta, perché guidato da determinate rappresentazioni dell’astrono- mia “scientifica”. Non è stabilito assolutamente, che lo spazio-tempo del mondo debba essere prodotto “rappresentativamente” attraverso un continuo ampliamento delle zone all’interno del mondo, in cui il sentimento iniziale del sublime presto scompare nella noia di una ripe- tizione uniforme. Non perché la nostra aula è un piccolo spazio in un

grande edificio, questo ha una piccola superficie nella città e questa a sua volta è una piccola parte della regione, che è un minuscolo pezzo dell’Europa, della superficie terrestre, del sistema solare, del sistema del- la via Lattea e così via, pertanto lo stato d’animo del timore non assale il nostro animo al cospetto del cielo stellato, ma perché noi ci relazionia- mo preventivamente a quello “sconfinato”, che è confinante, che con- cede e temporalizza le cose, annette ogni luogo e periodo temporale, dà spazio e concede tempo a tutto l’ente. L’“omnitudo realitatis” è il mondo

che dispone e non una somma, un ammasso o un sistema di coordina-

te. La deviazione critica-distruttiva di Kant nella polemica contro una teologia razionale, che tenta di pensare il disporre creatore del mondo nell’immagine di un creatore personale, ha in lui soppresso per così dire la domanda riguardo la totalità come l’origine di tutte le singole cose individuali. Per Kant è importante che la ragione umana non può “co- noscere” l’omnitudo realitatis. Nella prospettiva speculativa essa è allora

solo un’idea, solo un ideale, che abita nella nostra ragione, senza che noi

possiamo conoscere in se stessa ciò che di volta in essa viene pensato. Ma nel significato pratico l’ideale trascendentale diviene adesso, secon- do Kant, determinante e direttivo per l’eticità umana.

Come bisogna pensarlo?

Quello che Kant nella prospettiva teoretica aveva dichiarato inco- noscibile, diventa adesso da lui “richiesto” come una condizione affin- ché l’uomo nella sua esistenza possa in un certo qual modo unificare moralità e felicità. Ciò necessita di un chiarimento. L’errore della teo- logia speculativa era certo, come abbiamo già convenuto, questo: essa ha impostato la totalità della realtà come una natura effettiva, come l’essenza originaria “Dio”, e ha affermato dogmaticamente l’“immor- talità” dell’anima.

Però, secondo Kant, e secondo la tradizione metafisica che lo con- diziona, Dio, libertà, e immortalità sono i grandi oggetti dell’interesse umano. Ogni interpretazione della nostra vita ruota attorno a essi. Noi non esperiamo mai la libertà né “oggettivamente”, né come una com- ponente della sfera dei fenomeni, ma ne siamo immediatamente certi nella situazione pratica, che pretende da noi decisioni, e precisamente decisioni morali; nel riconoscimento della legge morale sono presente a

me stesso come una natura che si determina liberamente e secondo ra- gione. Che ne è però di Dio e dell’immortalità dell’anima? Questi, dice Kant, non sono conoscibili in modo teorico-speculativo; ma “sfide”, connesse strettamente con la libertà e l’eticità. L’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio sono “postulati della ragione pura pratica”. Infatti l’uomo deve agire moralmente unicamente per rispetto della legge mo- rale, ossia come natura di ragione si determina liberamente così, che la sua libertà può esistere insieme alla libertà dei co-uomini. Kant chiama questo “dovere” l’“imperativo categorico”. Per quanto siamo nature ra- zionali libere, siamo sollecitati da lui: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, insieme, come principio di una

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 149-162)