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La problematicità della scienza dell’educazione

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 39-64)

Il preliminare concetto esistenziale dell’educazione

2. La problematicità della scienza dell’educazione

Il nostro tentativo introduttivo di circoscrivere il tema della lezione ci ha permesso di giungere ad alcune tesi negative: 1) La pedagogia sistematica non è una scienza dello spirito autonoma; 2) Nonostante la pedagogia sia, incontestabilmente, un sapere – e precisamente un sapere enormemente ricco, vario, saturo di esperienza di vita e rischiarato dalle riflessioni –, essa, tuttavia, non possiede un posto sicuro, riconosciuto e stabile nel complesso di tutte le scienze studiate all’università; l’istitu- zione pedagogica, che corona e conclude il cammino della formazione, è per lo più disinteressata al principale chiarimento della sua propria funzione educativa; e 3) spicca una terribile mancanza di chiarezza in merito alla natura del sapere della scienza dell’educazione, se esso sia assertivo o anche stabilito, descrittivo o anche progettuale.

Sotto questo triplice aspetto ci si mostra per prima la “problematici- tà” della pedagogia, cioè il suo carattere di problema. Cosa deve essere, dunque, la pedagogia se non una autonoma scienza dello spirito? Lo sforzo serio e continuativo del più notevole ricercatore, al fine di con- quistare una fondamentale autoconoscenza della pedagogia e di com- prendere la peculiarità della realtà educativa della vita, ha condotto sem- pre soltanto all’aspetto umanistico. Come già detto, è stata soprattutto l’influenza di Wilhelm Dilthey a indicare qui le strade. La sua filosofia storica della vita è valsa soprattutto all’esplorazione del “mondo stori- co-sociale”, a una fondazione metodologica delle scienze dello spirito

e, ancora di più, a una critica della ragione storica; essa ha determinato lungamente nel nostro secolo la pedagogia dell’Università tedesca, ma anche, oltre a essa, molte tendenze pedagogiche nello spazio scolastico ed extra-scolastico. Nomino soltanto Nohl, Litt, Spranger e Flitner. Per tutti questi studiosi è vitale e manifesta la consapevolezza che la peda- gogia abbia il suo posto appropriato nella storia della cultura e dello spi- rito; che sistemi educativi, modelli e organizzazioni scolastiche scorrano insieme al flusso della storia popolare e dell’umanità; e inoltre che questi ultimi siano proprio una particolare manifestazione della vita storica, ma che tuttavia essi si possano comprendere soltanto a partire dall’o- rizzonte di senso dell’intera epoca. Quel che ha caratterizzato tale pe- dagogia storica della cultura della scuola di Dilthey è un senso spiccato per le forme concrete di vita della realtà pedagogica, una riserva contro ogni costruzione razionale, una registrazione ricettiva e circospetta dei motivi storici della formazione. Qui sarebbe stato sviluppato un fiuto più raffinato per l’atmosfera che circonda la grande immaginazione de- gli uomini, per lo spazio vivente di senso, in cui si muove la volontà di forma educativa, per la forma di nascondimento dell’interesse pedago- gico, per la sua fusione con tendenze religiose, ideologiche, sociali e così via; si rimanda al fatto che, per esempio, «tutto il sistema apologetico ed esegetico dei padri della Chiesa, da Clemente d’Alessandria fino ad Ambrogio di Milano e ad Agostino, nelle sue sezioni di storia della sal- vezza così come in quelle etiche, ascetiche e liturgiche, contiene al con- tempo un ragionamento pedagogico»; e che «nei libri di Agostino De

ordine, De magistro, De doctrina christiana, De catechizandibus rudibus,

nelle regole monastiche di Basilio (nella Chiesa d’Oriente ha conqui- stato un enorme credito), nella regola di Benedetto da Norcia (il fon- damento della vita monastica occidentale)», vi sarebbero espresse sì le «guide ascetiche», ma anche le riflessioni educative «in maniera celata»; oppure, in maniera diversa, anche in un clima spirituale di menestrelli provenzali, nei romanzi cortesi in versi, nella sapienza popolare, nei po- emi didattici, nei trattati filantropici dell’illuminismo e così di seguito1.

Ma tale pedagogia culturale si lascia assegnare il tema dalla storia ed è impegnata per una prossimità storica della vita; essa stessa, per il timore di cadere altrimenti in una vuota speculazione, non si lega in maniera dogmatica ai fenomeni storici che esamina; con maggiore certezza, essa è al di là di tutti i legami, a condizione che, fin da prin- cipio, conosca i suoi oggetti in prospettiva attraverso il cambiamento della storia – quest’ultima costruisce tutti gli oggetti spirituali e poi li distrugge. Ma in virtù di tale condizione di generale storicità di tutte le manifestazioni religiose, ideologiche e anche pedagogiche della vita, tale pedagogia culturale di osservanza diltheiana si distingue dalla vera possibilità di vivere in una determinata comprensione della vita – sia essa cristiana, pagana, illuministica oppure di una maniera compren- siva e partecipata di sé. Gli antichi mondi della storia sono oggetti di riflessione teoretica, non valori obbliganti per colui che li osserva; egli è sempre già al di là, si è liberato da essi in quanto afferma la relatività di tutti i fenomeni storici.

Si solleva la questione se una così ancora intensa presentificazione di antichi mondi della formazione renda accessibile la loro essenza, fin- tanto che l’osservatore è uno “spettatore disinteressato”. Da quel punto di vista la storia è un museo in cui si possono ammirare tutte le forme di vita dismesse – oppure esse si rendono accessibili in un senso più profondo, anzitutto per una umanità che vuole essare protagonista della decisione? Si possono cogliere in figure passate gli ideali, le passioni umanitarie e l’eros pedagogico, qualora non si arda nel fuoco di una fede nella grandezza dell’esserci? “Il simile si conosce con il simile” è una vecchia frase della filosofia antica. La fiamma parla alle fiamme, la cenere incontra solo cenere; nel momento in cui un’umanità, alla fine di un lungo cammino della storia, diviene stanca e senza fede, si perde anche la capacità di comprendere davvero l’epoca più viva, sospinta da impulsi originari, della sua storia. In questo pericolo si trova la pedago- gia culturale: ciò non implica che essa vi cada. Ma in vista di un tale pe- ricolo noi dobbiamo avere ben chiaro che bisogna pensare soprattutto e in maniera fondamentale il rapporto del presente e del passato storico prima che la pedagogia sistematica si faccia passare per una “scienza dello spirito”, e che la si fissi in prevalenza a un “comprendere storico”.

E inoltre bisogna valutare se l’approccio alla cultura umana sia a sufficienza originario, sì da promuovere una comprensione dell’essen- za dell’educazione. La “cultura” è sicuramente un momento distintivo dell’uomo. L’uomo è creatore di cultura: egli giunge a pienezza nella sua vita producendo gli Stati, le chiese, le morali, l’arte, la tecnica etc.; egli non vive nel mero stato di natura come l’animale, bensì si protegge edi- ficando le sue costruzioni di senso, si crea una sfera di vita, un campo di istituzioni e rapporti di diritto; egli costruisce sul regno della natura una nuova dimensione, cioè la cultura umana. L’antropologia conosce numerosi approcci per caratterizzare l’uomo. In un determinato aspet- to, l’uomo è una specie di mammifero – proprio la sua intelligenza lo distingue dagli ominidi – in quanto “homo sapiens”; come “homo faber” egli si connota in opposizione agli animali, a condizione che possa costruire strumenti, modellarli secondo sua intenzione e fabbri- carli; l’uomo possiede la facoltà della techne; egli percorre un cammino dagli inizi primitivi nell’età della pietra, con la scure e la clava, fino alla tecnica moderna. Soltanto l’uomo conosce il “diritto”: egli soltanto, tra tutti gli esseri viventi, ha la proprietà, il matrimonio, conosce la pace e la guerra. E ancora: soltanto l’uomo, tra gli esseri viventi corruttibili, sa della morte. Per il fatto che egli si rapporta alla morte, l’antichissimo desiderio dei cuori più inquieti è stato il sogno di “immortalità” (i saggi e i colti hanno predetto una vita ultraterrena dell’anima). Oppure si dice anche che soltanto l’uomo, tra tutte le cose di questo mondo, non è ciò che egli è “in sé”: egli è ciò che fa da se stesso, mediante la sua libertà, è creatore del suo agire – un paradossale “ens a se”. Altri sottoli- neano che soltanto l’uomo può autenticamente giocare o anche ridere, soltanto lui conosce la vergogna, soltanto lui il lavoro.

Che cos’è l’uomo, che presenta così tanti aspetti? “L’essenza sconosciu- ta”, “l’animale non ancora definito” (come dicono celebri formulazioni)? Quale approccio antropologico ha la precedenza: l’uomo come creatore di cultura, come tecnico, come animale razionale, come libertà, come anima immortale, come “homo ludens”? Quel che rende così complicate queste domande è che qui non si tratta di verità parziali, di prospettive limitate, di cui si può facilmente individuare il limite, e che si completa- no l’un l’altra; quasi ognuno di questi approcci ha piuttosto la tendenza a

farsi passare come l’essenza dell’uomo e a ridurre gli altri a derivate verità del fenomeno. Si pone la questione: c’è una possibilità di esaminare gli approcci totali di tali concezioni antropologiche e di riportarle al loro le- gittimo contenuto? Un tale esame è cosa della filosofia, a condizione che essa sia la radicale autocomprensione umano-finita dell’uomo. L’uomo, nel suo rapporto con l’ambiente, vive nel sapere; nel rapporto al suo pros- simo, vive nella sfera dell’azione morale; nel rapporto con l’oltre-umano e il divino, vive nel desiderio e nella speranza. Kant nella dottrina del metodo della sua Critica della ragion pura dice: «Ogni interesse della mia ragione (sia speculativa, sia pratica) confluisce nelle tre domande seguen- ti: Cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa posso sperare?». Tutte e tre le domande riguardano l’essenza degli uomini, che è stata determinata dalla finitudine del suo potere, dovere e sperare; tutte e tre le domande trovano perciò unità in quest’unica: “cos’è l’uomo?” Si può ben prevedere che a una tale questione non si addica l’indifferenza di un mero conteggio delle definizioni domandate sotto un generale preambolo; non si tratta qui di assumere gli uomini soltanto sotto una qualsiasi specie, bensì di penetrare nell’oscuro domandare della nostra propria esistenza.

Noi siamo, e al contempo non comprendiamo questo peculiare fat- to del nostro essere-qui. Ognuno chiama se stesso e gli altri con dei nomi, ma nessuno sa davvero chi siamo. Di certo, noi ridiamo e pian- giamo, ci vergogniamo e lavoriamo, godiamo della gioia della giornata e tremiamo prima della morte, noi ci sentiamo responsabili nella nostra libertà e speriamo nella “vita eterna”; vi sono tecnici e uomini di cultu- ra, essi sono in maniera storica o animale – ma chi può dire cosa questo abbia a che fare con noi, cosa ci spinga e cosa ci catturi? L’approccio alla creazione culturale umana è quindi completamente spontaneo e sicu- ro della legittima origine? Questa domanda va restituita alla filosofia. I grandi meriti della ricerca pedagogico-culturale non devono essere sminuiti o negati; tuttavia il problema richiede un rinnovato esame, nel quale bisognerebbe individuare la posizione principale della pedagogia sistematica. Nel contesto di un tentativo di determinazione della posi- zione della scienza dell’educazione, deve essere presa in considerazione anche la nostra prima tesi negativa: la pedagogia sistematica non è una scienza dello spirito autonoma.

Con ciò scaturiscono una serie di questioni complesse: anzitutto, come si rapporta il presente storico ai tempi passati? Come si pone ri- spetto alla tradizionalità delle forze pedagogiche esistenti? Come bisogna adeguatamente comprendere la pretesa storica delle potenze educative della vita? Come sarà posta l’educazione propriamente in primo piano e, secondo la sua essenza, nel caso in cui essa entrerà nel merito come un determinato momento di una situazione sociale e storica di vita? Nessuno vorrà negare che a ogni mondo storico appartengano interessi pedagogici e istituzioni, né che, in ogni determinato periodo, i genitori si preoccupino per i loro bambini, lo Stato per i giovani cittadini che crescono, né che le morali pubbliche e anche emerse pubblicamente nella coscienza e le regole di vita determinino la cultura e la formazio- ne spirituale e morale della generazione che sta ri-crescendo. La prassi pedagogica (e, in una certa misura, la teoria pedagogica) appartiene a ogni cultura; ma con ciò non viene però predeterminato il fatto che la domanda e la ricerca sull’essenza dell’educazione si possono porre sol- tanto nel contesto di una scienza dello spirito compresa storicamente.

La nostra seconda tesi negativa non era di certo pensata come una critica dell’ente educativo in cui siamo. Noi abbiamo detto che l’Uni- versità non entra nel merito del suo proprio compito educativo. Cosa significa essere immersi, in quanto docente e studente, nella stessa di- scutibilità delle cose, essere entrambi alla ricerca di un’esperienza con la rinserratezza dell’ente, che soltanto difficilmente si rivela alla compren- sione degli uomini? Cosa significa far esperienza della potenza educa- tiva della verità, e soprattutto del potere di formare gli uomini che vi soggiace e che si offre qui alla comprensione, per così dire, soltanto “in silenzio”? Forse agisce il modello umano che risiede nel valore di una ricerca senza obiettivi o nella sobria chiarezza di un’espressione mate- matica, e così via, ma la sostanza educativa dell’Università non viene essa stessa scientificamente attraversata e portata a espressione. Natural- mente ognuno conosce la riforma dell’Università di von Humboldt e simili cesure nella storia dell’educazione delle scuole di alta formazione. Però in merito a essa si è molto parlato, ma poco pensato: ciò che in quel momento è stato il programma e il lungo tempo di realizzazione, ha ancora valore? Quei pensieri riguardano la realtà dell’attuale Univer-

sità? Questa strana situazione costituisce, per così dire, un esempio che ci riguarda da vicino? Come può una volontà pedagogica dare forma e al contempo come può essa albeggiare in una singolare “dimenticanza di sé”? Come si realizza tale situazione, essendo però essa stessa alienata? Questa non è, naturalmente, una vaga condizione di “ignoranza”, non un semplice fatto psicologico nelle anime degli studenti e dei professori. È invece da accettare il fatto che ci sono persone in un certo qual modo sveglie e critiche che si riuniscono in Università. Anzi, ci si muove qui in un rapporto di individui coscienti con una volontà di formazione ultra-soggettiva – quest’ultima, in quanto tale, è assente.

Anche in questa circostanza urgono numerose questioni. Cosa è l’es- sere generale di una volontà di formazione ultra-soggettiva, che si rea- lizza proprio attraverso gli individui, ma che non è soltanto una strut- tura di relazione di una collaborazione intersoggettiva? Abbiamo una comprensione di tale fenomeno? Disponiamo delle categorie giuste per fissarlo ed esporlo? La scienza che si crea, per esempio, in Università, la forma istituzionale, è una forma dello “spirito oggettivo” (Hegel) op- pure è una comunità di singoli, una spinta di vita sovra-individuale che si serve degli individui? Oppure cos’altro? E ancora: come deve essere pensato il rapporto tra le tendenze educative della vita, che con violen- za elementare affiorano dalla vita umana, e le realtà istituzionali, nelle quali esse si realizzano? Quale ruolo ricopre “l’istituto” organizzato, per esempio di un ordine, di una società cavalleresca, di una corporazione, di una Chiesa, di una organizzazione scolastica? È tutto soltanto del genere dell’espressione esteriore di una interiorità vitale – per così dire, “un male necessario” – al fine di offrire ai pensieri e ai pii sentimenti dell’anima, amichevoli con gli uomini e amanti dei bambini, un tempo e una esistenza nello spazio, in cui ci si scontra duramente con le cose? Il fatto che ogni educazione abbia bisogno di “istituzioni” è, invece, una necessità profonda? Infine: la libera relazione, puramente umana, tra due individui, che rifugge tutte le forme estrinseche, quella in cui uno più anziano si sacrifica come aiuto di vita per gli altri più giova- ni, è la forma “ideale” di compimento dell’eros pedagogico? Una tale ipotesi fa capire al nostro pensiero moderno-individualistico (qualora se ne consideri forse anche il limite) che si dovrebbe educare a una

più grande comunità e a una apertura sociale. Ma che l’educazione si debba idealmente muovere nel campo della libera relazione umana – cioè quella non alienata dalle istituzioni – si dovrebbe essere inclini a concederlo. Lo sostengo sulla base di una incomprensione, tipicamente moderna, dell’essenza dell’istituzione. Forse è ancora da provare se essa sia una espressione del tutto esteriore di una interiore animosità, in un certo senso soltanto la buccia fastidiosa del nucleo veritativo, un mero “involucro”, una concessione all’incompletezza umana, che ha bisogno proprio di un solido strumento di protezione.

Con la terza tesi negativa non ci sarebbe più chiaro né certo il modo in cui bisogna determinare il compito della pedagogia sistematica nei confronti del fenomeno dell’educazione; le domande precedenti do- vrebbero essere fondamentalmente riformulate. Prendiamo le mosse da domande alternative: la scienza dell’educazione si rapporta in maniera constatativa oppure normativa? Essa circoscrive un campo di fatti eti- ci, lo esamina in riferimento alla sua datità, descrive i dati (a cui non aggiunge nulla), proprio come la fissazione di concetti? Oppure spetta anche a lei di creare lo stesso fenomeno educativo? Fornisce soltan- to una coscienza di un mondo etico, che è già lì, oppure anche che è stato lì, una coscienza in un linguaggio concettuale metodologica- mente puro? Oppure è costretta e deve moralmente collaborare alla produzione di idee pedagogiche e di modelli? A queste domande non si può dare facilmente una risposta netta, immediata, con un “sì” o con un “no”; allora qui si tratta di una decisione fondamentale sull’essenza della scienza dell’educazione. Tuttavia noi ci possiamo muovere a ten- toni e in maniera provvisoria nello spazio di problematicità di questo problema. A partire da qui scaturiscono una serie di domande e dubbi che profilano sempre più pensieri su una pedagogia sistematica per noi ancora nebbiosi.

Per il momento prendiamo le mosse dall’ipotesi seguente: riflettere in maniera scientifica sull’educazione potrebbe soltanto significare pe- netrare concettualmente un dato materiale educativo. Tale “materiale”, in questo modo, deve essere innanzitutto “imparato”. Ma come e in quale maniera di procedere noi possiamo assicurarci un materiale rile- vante dal punto di vista pedagogico? Ora, ognuno, a partire dalla sua

propria vita, conosce i processi educativi, gli influssi, le potenze; ognu- no è stato, nel bene e nel male, educato dai suoi genitori, insegnanti, maestri artigiani, da amici, da autorità statali ed ecclesiastiche e così via; ognuno sa, così di sfuggita, che cos’è l’educazione: essa è un fenomeno noto del nostro ambiente quotidiano. Secondo alcuni pensatori, per ognuno dovrebbe però esser facile riassumere cosa, dei fenomeni edu- cativi, sia presente nel suo ambiente di vita: la casa paterna, la scuola nelle sue diverse forme (elementare, media, superiore, Università), il praticantato, la dottrina commerciale, il campo-scuola, la Chiesa e così via; tali caratteristiche non sono però per nulla difficili da trovare. Noi siamo davvero perlopiù in esse, abbiamo completato un percorso edu- cativo o ci troviamo ancora in cammino. Per cui, ciò sarebbe necessario soltanto in merito alle nostre proprie circostanze di vita, fino a quando esse portano un carattere educativo. Un metodo apprezzato nei ma- nuali di scienza dell’educazione è iniziare con uno sguardo alla “realtà pedagogica”, in seguito menzionare la conoscenza che ognuno ha di queste cose; noi siamo già in questa realtà quando vogliamo riflettere su di essa. Ciò è indiscutibilmente vero, ma è una verità lapalissiana. Noi però, dall’interno, non comprendiamo questa realtà che ci circonda; più esattamente: noi la comprendiamo in maniera corretta nel senso cor- rente-quotidiano, ma cadiamo subito in imbarazzo qualora dovessimo dire, in maniera più rigorosa e precisa, in che cosa consiste la realtà del fenomeno educativo. Adesso forse si obietterà che questo, per comin-

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