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La distinzione kantiana tra “moralità” e “felicità”

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 137-149)

La questione della natura dell’ideale

10. La distinzione kantiana tra “moralità” e “felicità”

Poiché ogni educazione si compie non solo nell’ambito del costu- me, ma come un determinato ricordo e presentificazione del mondo etico di un popolo, la questione dell’ideale, in quanto fine normativo dell’educazione, è un momento di tutta la riflessione pedagogica; que- sta questione, abbiamo detto, deve acuirsi in un’epoca in cui si dissol- vono umanità chiuse, le culture si fondono e si livellano e cercano di integrare l’intero globo in un’avvolgente cultura comune dell’umanità. A ogni modo, oggi non si può più ignorare la questione se una tale inte- grazione avverrà o se solo il crollo dei limitati sistemi morali dei popoli sarà globale e solo la sdivinizzazione assumerà una misura umana. Per il momento è la scienza moderna, di matrice tecnica, che avvolge l’intero pianeta, e la fede nell’efficacia dell’isotopo dell’uranio che unisce tutte le razze. La domanda sulla natura dell’ideale è, però, una domanda fon- damentale, che la meditazione pensante deve porre per comprendere il fenomeno educativo, – essa è motivata in modo più evidente nella nostra epoca agitata che in quei tempi tranquilli, in cui l’orientamento morale della vita umana appare assicurato. Ma anche nelle rovine dei sistemi morali crollati l’uomo si progetta sempre in base alla felicità, – tutto il suo fare e omettere avviene in vista dell’eudaimonia.

Kant distingue nettamente tra “felicità” e “moralità”. La distinzione kantiana non funziona allo stesso modo con la distinzione da noi im- piegata tra la felicità in quanto ultimo e più alto “in vista di” dell’aspi- razione umana e un’“interpretazione” relativa dell’eudaimonia, appunto nell’ideale. E questo perché Kant, con il termine “felicità”, indica lo stato d’inclinazione appagata, la fortuna dell’uomo come una natura

sensibile, mentre la moralità per lui significa una prova di sé dell’uomo come libera natura razionale. «La felicità è l’appagamento di tutte le no- stre tendenze (tanto extensive, nella molteplicità loro, quanto intensive, rispetto al grado, e anche protensive, rispetto alla durata). Io dico legge prammatica (regola di prudenza) la legge pratica derivante dal motivo della felicità; morale (legge dei costumi) quella invece, in quanto ce n’è una, che non ha altro motivo che il merito di essere felice. […] La prima si fonda sui principi empirici; perché io altrimenti che per esperienza non posso né sapere quali tendenze ci sono, che vogliono essere soddisfatte, né quali sono le cause naturali che possono produrre la loro soddisfazione. La seconda astrae da tendenze e mezzi naturali di soddisfarle, e considera soltanto la libertà di un essere ragionevole in generale e le condizioni necessarie, nelle quali soltanto ella si accorda secondo principi con la distribuzione della felicità, e può quindi perlo- meno poggiare su semplici idee della ragion pura ed esser conosciuta a priori»10. Kant coglie quindi la differenza tra eudaimonia e moralità in

considerazione della doppia natura dell’uomo, compresa tradizional- mente come “sensibilità” e “spirito”, “cosa naturale” e “libertà”, come membro del mundus sensibilis e membro del mundus intellegibilis. Per comprendere in modo corretto l’uso linguistico kantiano, dobbiamo quindi tenere a mente che per lui l’ideale non significa un’interpreta- zione della felicità. L’ideale è un concetto puro della ragione, invece la felicità (in quanto inclinazione appagata) un concetto empirico. Nell’u- so linguistico di Aristotele poi, a cui ci siamo riallacciati, l’eudaimonia è il fine ultimo e sommo, al quale tutti gli uomini aspirano, ma nella cui interpretazione non sono concordi. Esso è ciò che è più certo e allo stesso tempo più incerto.

Gli ideali sono “interpretazioni”, sono letture incerte e problema- tiche della felicità – se li concepiamo come potenze di senso operanti nella vita umana. Ma la questione, con cui abbiamo esposto il proble- ma dell’ideale, era: gli ideali sorgono per essere tendenze di vita umane? O sono lontani come gruppi di stelle, anche quando la loro luce ri-

splende nella nostra vita, quando ci hanno attraversato, quando la loro luce lontana infiamma le anime nobili? Essi sono prossimi e allo stesso tempo lontani; l’arcata compresa tra prossimità e distanza degli ideali è uno spazio di senso della vita? O l’esserci umano è determinato da un rapportarsi alla distanza, che non sta in lui, in cui è “posto”? Se gli ide- ali stanno al di sopra delle nostre vite come le costellazioni, allora sono “presenti” in noi con la loro luce e sono tuttavia anche “separati” da noi; essi non sorgono in questa presenza, in questa parousia, ma non ci si sono nemmeno sottratti dalla loro separazione, il loro chorismos. Già in Platone parousia e chorismos, nella loro contraddittorietà dialettica, caratterizzano la relazione dell’idea con le cose sensibili. La problema- ticità filosofica dell’ideale è mantenuta nella storia sempre in fermento dalla contrapposizione tra “prossimità” e “distanza”; l’ideale ora è so- spinto nell’assolutamente oltreumano, ora condotto giù nell’umano; gli uni accentuano la sua trascendenza, gli altri in risposta polemica la sua immanenza vitale; ma per entrambe le parti la “crux” resta come dover spiegare il tratto contrario fenomenico, come afferrare concet- tualmente il fatto che un ideale trascendente possa essere vincolante, o come possa attraversare l’anima umana come un tratto trainante – o viceversa, che un immanente impeto di vita possa presentarsi come una richiesta sovrumana.

Dov’è il luogo essenziale dell’ideale, e qual è la sua natura? Forse

per caratterizzare la relazione serrata tra esistenza umana e ideale, non basta nemmeno la comune contrapposizione tra soggetto e oggetto, tra immanenza e trascendenza. Gli ideali non sono né immanenti come le “esperienze vissute” e né trascendenti come le cose estranee che ci cir- condano, che noi esperiamo, alle quali possiamo avvicinarci. Il singolo e anche ogni gruppo ha un campo circostante, un ambito di un’espe- rienza reale e possibile. Qui egli si differenzia dalle cose estranee; può ampliare, allargare il campo delle cose; il genere umano ha conquistato la totalità della superficie del pianeta come suo campo d’esperienza – e inoltre si è spinto nello spazio interplanetario, magari per poggiare i piedi un giorno su un’altra sfera celeste. Il campo di esperienza terre- stre è allora una gigantesca zona ampliata. Ma anche questa più grande sfera d’esperienza resta sempre circondata da orizzonti aperti, smisurati

e forse inconcepibili. Se in un linguaggio allegorico parliamo dell’i- deale come di una “costellazione”, allora non intendiamo con questo una “lontananza raggiungibile”, un intervallo di spazio, che un giorno diverrà percorribile grazie a un frenetico progresso tecnico di mezzi di trasporto di recente invenzione; ma intendiamo una lontananza essen- zialmente irraggiungibile, “stelle” che per così dire non sono oggetti possibili di un approccio esperienziale – che non possono mai essere raggiunte da nessun impeto e nessun avvicinamento. Queste costella- zioni, irraggiungibilmente lontane, in un certo qual modo non sono più “cose”, non hanno nemmeno più il senso di una possibile vicinanza per un immediato essere lì presente, non sono comprese come oggetti di una possibile esperienza; esse sono al di sopra di tutto lo spazio d’a- zione dell’esperienza, segnano come un punto luminoso l’insondabile profondità dell’universo, sono segni dello spazio-mondo. Naturalmen- te si può sempre dire, ostinatamente, che anche le lontane nebulose di Andromeda sono “fisicamente” sistemi gravitazionali di energie di masse e radiazione; ma con questo non si giunge certo alla differenza principale tra le cose intraspaziali e l’avvolgente spazio-mondo; si ha per così dire solo la zona interna enormemente ampliata. Tuttavia tutti gli ampliamenti della zona interna non si avvicinano mai allo spazio-mon- do; questo non è riempibile per principio dalla dilatazione degli inter- valli e delle distanze intraspaziali. Il discorso sulla “costellazione” non indica nessuna cosa, nessun oggetto d’esperienza, piuttosto un’imma- gine guida, che sta oltre ogni esperienza e ogni esperibilità – e sotto la cui luce si compiono le azioni terrestri dell’uomo. In riferimento alla costellazione dell’ideale l’uomo si innalza al “sublime” – è sfiorato dalla sublimità dell’universo. Il “cielo stellato sopra di me” e la “legge morale in me” forse non sono due diverse dimensioni del sublime, come Kant stabilisce in un primo momento, ma “symbola” in questa dualità, metà spezzate di un originario riferimento al mondo dell’esserci.

Abbiamo iniziato con il caratterizzare nei tratti fondamentali la de- terminazione razionale kantiana dell’ideale. Di più grande portata e si- gnificato è tuttavia il contesto in cui Kant pone la questione sull’essenza dell’ideale. Questo contesto si determina come il problema del mon- do, ossia come la questione centrale dell’intera “dialettica della ragion

pura”. L’ideale è un concetto a priori; non ha la sua origine nell’espe- rienza, nell’empiria. È un concetto che la pura ragione finita dell’uomo ha già da sempre, di cui è dotata per natura e appunto non è dedotto solo dopo dall’esperienza. La luce dell’ideale risplende in noi, prima di impegnarci con gli oggetti dell’esperienza e anche prima che ci lasciamo determinare dalla loro fascinazione.

Detto tra parentesi: l’anteriorità dell’apriori non può essere frain- tesa in un senso temporale e di “psicologia dello sviluppo”; dunque il bambino piccolo non ha già disponibili gli elementi a priori della ra- gione, piuttosto si tratta di fare conoscenza dell’ambiente esterno. È al contrario già una maturità dello sviluppo di vita, una capacità razionale formata e attivata, un presupposto per poter innalzare a un pensiero critico-filosofico gli elementi empirici e a priori della nostra compren- sione dell’essere.

L’ideale è un concetto a priori. Kant dà, come abbiamo già visto, uno sguardo d’insieme sui concetti a priori. I concetti puri dell’intelletto, le categorie, sono riferiti all’esperienza in quanto la rendono possibile, for- mano la compagine strutturale dell’oggettualità, essi sono – come dice Kant – di “uso costitutivo” per l’esperienza. Al di là di ogni esperienza si trovano le “idee”; esse sono concetti necessari della ragione umana, in cui questa cerca di pensare l’interezza mai data ma dischiusa, per così dire la totalità della serie di fenomeni, – si impegola in irrisolte contrad- dizioni ed è ingannata da un’inevitabile “apparenza trascendentale”. Le idee della ragion pura non sono di “uso costitutivo”, ma solo di “uso re- golativo”. Questo significa: esse regolano l’avanzamento dell’esperienza, che progredisce in modo da pensare il tutto, il quale non può mai essere un “oggetto” dell’esperienza, ma invece un insieme che collega tutti gli oggetti. E, in seguito, dal concetto razionale di idea Kant distingue ulteriormente il concetto razionale di ideale. L’ideale è un’idea “in con- creto” e “in individuo”, apparentemente una contraddizione in sé, ma risolta per il fatto, che concretizzazione e individualizzazione non han- no luogo sul terreno che noi abitualmente riteniamo la dimensione del concreto-individuale, ossia la spazio-temporalità. L’ideale è una cosa del pensiero, “concretamente” e “individualmente” nel regno del pensiero della prassi. Kant esemplifica quello che intende con ciò nell’ideale del

“sapiente”. Ci sono molti uomini saggi, fulgidi esempi di umanità più alta; di uno persino l’oracolo di Apollo diceva che nessuno fosse più sapiente. Ma nemmeno Socrate è un ideale – in senso kantiano; egli è un uomo, giunto più vicino all’ideale rispetto ad altri e rimasto deter- minato tuttavia da un’infinita distanza. L’ideale del sapiente, secondo Kant, corrisponde pienamente all’idea di sapienza11, è, per così dire, la

personificazione della sapienza stessa. Ma è importante inoltre, non che questo ideale del sapiente sia una personificazione arbitraria di un’a- strazione, anzi che noi stessi siamo intimamente determinati, attirati e guidati in quanto ragione vivente, da questo ideale della ragione vivente compiuta; questo ideale abita la nostra anima, la attraversa e la sollecita ad aspirare al perfezionamento. Kant intende questo con “l’uomo di- vino in noi”. «Questi ideali, sebbene non si possa attribuire loro realtà oggettiva (esistenza), non sono perciò da considerare per chimere, anzi offrono un criterio alla ragione, che ha bisogno del concetto di quel che nel suo genere è perfetto, per apprezzare alla sua stregua e misurare il grado e il difetto dell’imperfetto»12. Gli ideali dunque sono criteri, di

cui la ragione finita-incompleta dell’uomo stranamente dispone a priori e in base ai quali è in grado di misurare la sua fragile caducità e allo stesso tempo il suo “compito”. E dove l’autoconoscenza della ragione umana accade come un filosofare, è implicitamente guidata da un “ide- ale” del filosofo, in quanto “legislatore” della ragione. Poiché la filosofia è determinata da questo ideale in maniera esplicita, Kant chiama questo il concetto-cosmologico della filosofia. L’idealità dell’ideale del filosofo, è connessa in un modo peculiare con la mondanità del pensiero umano. Ciò diventa più evidente se noi ora portiamo a compimento la radica- lizzazione che Kant attribuisce al concetto razionale dell’ideale.

L’“ideale in generale” veniva esplicato innanzitutto nell’“uomo di- vino in noi”, in un pensiero puro “concretizzato” e “individualizzato” solo nell’intellegibile. Il problema ottiene una nuova e decisiva profon- dità come questione dell’”ideale trascendentale”. Così la formulazione

11 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. pp. 452-53 (B 597, A 569). 12 Ibi, tr. it. p. 453 (B 597, 598 / A 569, 570).

della domanda è sottratta all’ambito filosofico morale e formulata più in generale “in maniera ontologica”. Fin dall’antichità la spiegazione fi- losofica dell’ente si articola in aspetti fondamentali: l’ente, l’on, è inter- rogato e determinato in quanto essente contro il niente, in quanto uno e persistente rispetto alla varietà del divenire come l’essenziale contro l’apparenza, e come ciò che si mostra contro il velamento e il nascon- dimento. Il problema si articola come la questione sull’ente, sull’uno, sul buono e sul vero, detto grecamente on – hen – agathon – alethes, oppure più tardi in latino: ens – unum – bonum – verum. Questi con- cetti si chiamano “trascendentali”, perché non hanno la stessa “univer- salità” categoriale come il concetto di ente e perché essi, come quello, trascendono tutti i generi. La “filosofia trascendentale” è un pensiero che rinvia a questioni riguardati il nesso labirinticamente tortuoso dei trascendentali. Kant nega, in verità, con un’annotazione nella “Critica della ragion pura” il suo legame con la “filosofia trascendentale degli antichi”. Ma di fatto questa permane.

Che cosa significa per Kant il termine “trascendentale”? Non è così semplice dirlo in breve. Io parto dalla differenza kantiana tra un’espo- sizione “metafisica” e un’esposizione “trascendentale”. Compito di una esposizione metafisica è di mostrare la sussistenza e la presenza di co- noscenze a priori, dunque di fornire la dimostrazione, che determinate conoscenze sono “pure”, ossia non discendono dall’empiria. «L’esposi- zione, poi, è metafisica, se contiene quello che rappresenta il concet- to come dato a priori»13. Compito di un’esposizione trascendentale, al

contrario, è di chiarire propriamente come siano possibili le conoscen- ze a priori. «Per esposizione trascendentale intendo l’esposizione di un concetto, come principio dal quale si possa scorgere la possibilità di al- tre conoscenze sintetiche a priori»14. Questo cosa vuol dire? Io rimando

a quanto già detto. Se le cose fossero “cose in sé”, ossia, se il conoscere e l’ente fossero assolutamente divisi, allora non potrebbe darsi alcuna

pre-visione nella costituzione dell’essenza della cosa prima dell’incontro

13 Ibi, tr. it. p. 68 (B 38). 14 Ibi, tr. it. p. 70 (B 40).

esperienziale, formulato diversamente: se “ens” e “verum” fossero asso- luti e immediati, non ci sarebbe nessun apriori. Che cos’altro significa allora l’apriori, se non che l’ens è già un verum prima di ogni esperienza? Ma questo – secondo Kant – è possibile, pertanto, solo perché l’ente è sottoposto come oggetto di esperienza possibile già preventivamen- te alle condizioni della facoltà conoscitiva, alle condizioni a priori di spazio e tempo come forme pure dell’intuizione, e alle forme del pen- siero delle categorie. Kant pensa così la connessione tra ens e verum in modo diverso rispetto alla metafisica precritica da lui nominata come dogmatica. L’intera “Critica della ragion pura” può essere considerata come una nuova figura della determinazione metafisica dell’ente, gui- data principalmente dalla questione del riferimento dei trascendentali ens e verum. Ma questo non esclude, ma appunto implica, che allo stesso tempo anche gli altri trascendentali rimangano determinati pro- blematicamente. Non è affatto difficile da vedere, come la “dialettica della ragion pura”, in quanto critica della dottrina dell’anima razionale si muova intorno al “verum” (in senso stretto) – come dottrina delle an- tinomie cosmologiche riguardo all’“unum” e come critica della teologia razionale intorno al “bonum”. E qui – nel “bonum” – c’è allora il posto per la radicale determinazione ontologica dell’ideale.

Kant inizia l’esposizione di ciò che egli intende con “ideale trascen- dentale”, con un contrasto. Un “concetto” è determinabile, di due predi- cati contrapposti contraddittori gli se ne può attribuire di volta in volta soltanto uno. Una “cosa”, al contrario, non è meramente determinabile, è “determinata completamente”. Di tutti i possibili predicati delle cose, «in quanto essi sono paragonati con i loro opposti»15, deve competer-

gliene uno. La determinatezza di una cosa si caratterizza in genere dalla relazione di una cosa finitamente-limitata all’insieme di tutti i predicati delle cose. La determinatezza della cosa è di conseguenza non solo una relazione alla cosa, indicativamente la relazione tra sostanza e accidenti, ma in maniera più originaria una relazione della cosa alla totalità. La cosa come un insieme finito di predicati si determina quindi da un rife-

rimento proprio all’insieme assoluto di tutti i predicati. E in quanto una cosa finita, ossia in quanto “determinata” e “isolata”, essa si pone in un certo qual modo in un confronto escludente con l’intero avvolgente, che comprende propriamente tutti i predicati. Ciò che “ha” nei predica- ti, è solo una minuscola parte di tutti i predicati; il suo avere è ancor più avere-difetti. Tutte le cose finite difettano, in confronto con l’insieme concettuale di tutti i predicati. E finché difettano, esse stesse non sono “buone”, non sono il “bonum”, ma determinate attraverso il confronto col “bonum”. «Per conoscere una cosa completamente» – dice Kant – «si deve conoscere tutto il possibile, e per mezzo di questo, determinarla positivamente o negativamente. La determinazione completa è conse- guentemente un concetto, che noi non possiamo rappresentare mai in

concreto nella sua totalità, e si fonda perciò sopra un’idea, che ha la sua

sede unicamente nella ragione, la quale prescrive all’intelletto la regola del suo uso completo»16. Il bonum in questa impostazione kantiana si

avvicina all’aspetto della “totalità” [Allheit] che Kant chiama espressa- mente “universitas” e separa dall’“universalitas”, dall’universalità logica. Qui si trova un suggerimento. L’insieme di tutti i predicati possibili è per Kant l’universum, sebbene egli prudentemente non lo formuli così expressis verbis. L’argomentazione kantiana ha qui una drammaticità nascosta. Egli sta per afferrare l’universo come l’assolutamente divino, e tuttavia ancora una volta fa marcia indietro, per valutare l’insieme con- cettuale di tutti i predicati possibili, per così dire in analogia con una

cosa – come l’unica cosa, che è tutto e non ottiene la sua determinatezza

nella limitazione rispetto al tutto. Tuttavia Kant usa questa analogia perché si tratta qui di una critica della teologia speculativa a partire da una presunta ragione pura. L’insieme totale di tutti i predicati non è dunque, né somma, né quantità; questa idea può essere “depurata”, può essere purificata da predicati dedotti; il pensiero può tentare di conce- pire quello che allora può significare “totalità di tutti i predicati possi- bili”– e arriva così alla fine “a un concetto determinato completamente a priori”, il concetto è di un “singolo oggetto”, ma un oggetto che è

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 137-149)