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Fare e omettere

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 125-137)

La questione della natura dell’ideale

9. Fare e omettere

L’“educazione” è un fenomeno specificatamente umano, perché noi rappresentiamo tra tutte gli esseri della natura creatrice la sua figura incompiuta, non come gli esseri viventi che procedono sulla via che lei indica; noi siamo il frammento tra le cose, il pezzo compromesso, a cui però la natura ha lasciato in dote un soffio della sua forza creatrice. E questa forza creatrice si esplica non solo nel fatto che l’uomo, come “homo faber”, realizza cose artificiali, trasforma una materia natura- le, squadra sassi e li compone in una casa, forgia il metallo nell’aratro e nella spada; la forza creatrice dell’uomo frammentato si ripercuote originariamente sulla autofigurazione della sua propria vita, nella mo- dellatura e formazione di uno stile di vita. L’esserci dell’uomo non è un semplice vivere-lì come la crescita silenziosa delle piante o l’istinto mosso dell’animale – esso è sempre un fare e omettere, determinato, guidato e diretto da “motivazioni”. Il nostro fare e omettere accade in vista di uno scopo, e in realtà di uno scopo da noi più o meno ricono- sciuto. Si dice in certe occasioni anche del comportamento animale, che esso sia “funzionale allo scopo”, per esempio il modo, in cui le api nella loro tessitura esagonale ottengono il migliore utilizzo dello spazio o come determinati insetti tagliano le foglie in una curva così ottimale, che possono essere arrotolate senza perdite di superficie, tuttavia per noi il calcolo di questa curva rappresenta un problema alquanto difficile dal punto di vista matematico. Ma in senso obiettivo gli animali che si comportano in modo “funzionale allo scopo” non agiscono “soggettiva- mente” secondo scopi. Essi non sono aperti a sé nel loro comportamen- to obiettivo-razionale. L’uomo, al contrario, vive in modo che in ogni fare e omettere è diretto a un fine, e con questo si propone qualcosa; egli anticipa sempre nel futuro, vive al presente guardando avanti e in- dietro, comprende il suo fare momentaneo a partire dall’orizzonte della sua storia di vita e della sua progettazione del futuro. Non c’è bisogno che questo abbia sempre il carattere di una esplicita presentificazione, come nei momenti della meditazione; ma anche grazie all’esecuzione ingenua della vita vibra sempre una comprensione, a cui l’agente si riferisce nel suo agire. Nell’uomo fare e omettere sono sempre tenuti

insieme; ogni agire è già una decisione e, in quanto tale, una scelta dal molteplice possibile. Facendo una, tralascio l’altra. L’omettere non sta passivamente vicino al fare, ma ogni azione umana è, in quanto decisio- ne positiva per ciò che è stato prescelto, allo stesso tempo una decisione negativa verso le altre possibilità. In ogni fare è presente un omettere e in ogni omettere un fare. Il fatto è sempre al contempo un non-fatto. L’esecuzione della vita dell’uomo passa come libertà sempre attraverso lo spazio di gioco del possibile e ottiene determinatezza nella decisione. Un’altra espressione per questo è: la realtà dell’uomo non è un semplice esistere o un semplice processo biologico, ma è sempre “realizzazione”. Il famoso asino di Buridano non morirà di fame tra due mucchi di fieno equidistanti e della stessa grandezza, li divorerà entrambi pian piano. Ma si danno circostanze della libertà umana, in cui motivazioni e contromotivazioni esercitano una forza così contraria, da non giun- gere ad alcuna decisione, da frantumare una vita. Perlopiù, però, fatti e omissioni si associano in un’unità significativa; sono motivate; e la motivazione originaria di ogni motivazione è la felicità. Ciò che noi sempre facciamo e omettiamo lo facciamo e lo omettiamo sempre in vista della felicità.

L’eudaimonia governa il nostro cammino di vita. Se, come abbiamo detto, il fare umano ha una doppia forma, in quanto praxis e poiesis, vale a dire come puro compimento, che è il telos per se stessa, e come fabbricazione, che mira a un prodotto separabile, deve allora essere con- siderato che entrambe le forme accadono in vista della beatitudine. Ci relazioniamo alla beatitudine, vi aspiriamo; questo “desiderium” regola il nostro intero esserci e costituisce la sua “tormentata fortuna”. Quan- do un mito riporta, che un’intesa originaria di tutti gli uomini in un linguaggio comune sarebbe andata in pezzi nella torre di Babele, questo risulterebbe in modo particolare rispetto all’intesa originaria di tutti gli uomini riguardo la felicità; una tremenda confusione e frastagliatura ha investito gli animi: tutti aspirano alla stessa cosa, ma ciascuno la intende in modo diverso e contrario; le umanità non parlano più la stessa lingua in considerazione di ciò che per loro è il sommo. La con- fusione linguistica non è mai maggiore dell’interpretazione della felici- tà. Un’interpretazione relativa dell’eudaimonia la definiamo un ideale.

Esso forma la linea di condotta del nostro intero comportamento, è il canone della nostra esistenza pratica. E questo non solo come il potere che indica la via per un individuo, ma per un popolo, per un’umanità, che ha un comune “mondo” etico. Qui si racchiude il fatto che questo ideale, suddiviso in una molteplicità di aspetti, rappresenta per così dire un ideale fondamentale, con molte distinzioni immanenti: l’aspetto del “medesimo” ideale è diverso per coloro che dominano e coloro che sono dominati, per i guerrieri e i sacerdoti, per i giovani e per gli anziani, per gli uomini e le donne e così via. Il Medioevo con la sua compatta interpretazione di vita offre un esempio imponente, di come un ideale fondamentale si possa suddividere svariatamente come linea di condot- ta per una concordante molteplicità di livelli, fasce d’età, addirittura così che in questo essa può essere scossa da forti tensioni di tipo politico e spirituale, senza perdere la sua potenza assoggettante e disponente. Lì dove una umanità si è sottomessa, acquiescente alla forza direttiva di un ideale, l’“educazione” non è un problema di particolare asprezza. In re- altà ogni epoca è totalmente impegnata nel portare l’esuberanza di vita della gioventù sul binario giusto, salvaguardare e curare il suo ardore: in tutte le epoche i vecchi si lamentano ogni volta riguardo la degenerazio- ne dei “giovani d’oggi”. L’“esperienza di vita” è una faccenda spiacevole. Quando ne abbiamo bisogno nel modo più pressante, non l’abbiamo ancora – e quando nel migliore dei casi l’otteniamo con il farsi bianche delle nostre teste, allora non ne abbiamo più bisogno in maniera così urgente. Da questa sproporzione scaturisce la commovente premura degli anziani, di aiutare il ragazzo con il loro consiglio, e scaturisce anche la sordità giovanile verso “i buoni insegnamenti”. In un certo senso ogni educazione assomiglia all’attività delle Danaidi. Non sono esperienze “trasferibili”; ogni generazione e ogni singolo uomo deve fare le proprie esperienze, deve andare incontro nel suo modo destinale al mistero della vita. Ma la non-trasferibilità delle esperienze di vita non vanifica totalmente lo sforzo educativo, come pensano miopi sbef- feggiatori. La non-trasferibilità delle rispettive esperienze di vita fonda innanzitutto proprio lo spazio del dialogo educativo, che avviene come consiglio e ammonimento, lode e rimprovero, direttiva e suggerimento. Solo quando l’educatore accorda già fin da principio all’allievo il diritto

di una propria visione di vita, può consigliarlo nel modo giusto. Egli preclude però a se stesso l’accesso all’orecchio e al cuore dell’allievo, quando vuole imporgli la propria ottica, quando vuole plasmarlo come fa lo scultore con il blocco di pietra. L’incomprensione generaziona- le appartiene da sempre all’attività dell’educazione; lo aveva già visto Platone, quando nella sua opera tarda, i “Nomoi”, progetta la legisla- tura di una città in modo che l’intera popolazione deve rimanere nella disciplina di una impronta educativa continua: e quindi la gioventù giocando, cantando e danzando nel “coro delle Muse”, quelli che sono nella pienezza della vita nel coro di Apollo e gli anziani nel coro del dio del vino Dioniso. Egli tiene il vino lontano dalla gioventù, perché non può essere annaffiato il fuoco con il fuoco, coloro che sono nell’acme possono goderne raramente, ma agli anziani è permesso, e non solo per temperare la tristezza della vecchiaia, ma per lasciare affluire in loro an- cora qualcosa dell’ardore giovanile, affinché possano comprendere più facilmente i giovani nella loro dionisiaca impetuosità e, comprenden- doli, possano consigliarli.

Ma anche se l’educazione viene appesantita sempre dal contrasto generazionale e attraverso la incomunicabilità delle “esperienze di vita”, tuttavia essa non è mai così problematica all’interno di un “mondo” etico che ci circonda, come lì dove sono diventati problematici gli stessi ideali fondamentali. L’educazione, in quanto attuale presentificazione del costume, è allora messa in ombra dalla problematicità del costume stesso; essa non può influire con una intatta ingenuità sul terreno di un’interpretazione dominante dell’umano fine ultimo e della felicità, sulla scorta di un ideale sicuro; essa stessa deve porre domande riguardo il suo diritto, dubitarne e cercare di fondarlo. Questa è, a mio parere, la situazione della pedagogia odierna – in un’epoca di “immagini del mondo” in lotta, la dissoluzione e la mescolanza di culture chiuse, in una epoca “alessandrina” – senza un Alessandro. Che cos’è un ideale? Questa questione non è un problema solo della filosofia teoretica, che non riguarderebbe la pedagogia. Oggi non si può dire che la nostra umanità sia attraversata da ideali vincolanti, essa ne è dipendente solo per guidare, disporre, diffondere in conformità a un ideale il proces- so formativo umano. Ogni preoccupazione educativa è oggi insidiata

dall’incertezza e dall’indecisione, non sappiamo più per quale scopo dobbiamo educare, quale modello di uomo sia per noi vincolante ed esemplare. Naturalmente ci sono gruppi militanti a sufficienza, che sorvolano su questa “insicurezza”, sostituendo il sapere mancante con una “risolutezza” – e hanno disposto in base a questa pseudo-sicurezza ricette educative fisse e pronte, non solo per sé, ma anche per gli altri.

Nella nostra prima indicazione di “ideale” abbiamo caratterizzato come un’interpretazione della felicità umana avvolge un’intera umanità, un popolo, una cultura. Per quanto ogni agire e fabbricare, ogni pra-

xis e poiesis, avvengano in vista dell’eudaimonia, l’esecuzione di una vita

umana sta nella motivazione della felicità interpretata in un modo o in un altro. Ma cosa significa allora questo? Gli ideali sono interpretazioni umane – e niente di più? Sono letture del fine più alto, verso il quale aspiriamo nel fondo più intimo del nostro cuore – letture, che noi ci realizziamo, che sono prodotti umani? Sicuramente gli ideali sono nel

loro effetto su di noi, nella loro efficacia trainante sempre anche interpre-

tazioni umane; ma realizzano questo carattere? Si esauriscono nell’essere significazioni di vita umane, in un certo senso misteriose e per noi non riferite in modo comprensibile alla felicità stessa? È giusta l’opinione secondo cui la vera e autentica felicità deve darsi certamente in sé, ma gli uomini non possono stabilire con sicurezza, che cosa sia? Essi la in- terpretano ora così, ora diversamente; con le loro letture brancolano sempre nel buio. Solo Dio sa, che cos’è che giovi realmente all’uomo, in cosa trovi l’ultimo appagamento; all’uomo è impedita una base solida; barcolla da un’interpretazione insicura a un’altra altrettanto insicura – e non arriva mai a una certezza assoluta, a meno che non ascolti nella “ri- velazione” la voce annunciata di Dio stesso. Ma questa voce di Dio non risuona dall’etere, percepibile a tutti; essa è ristretta alle Sacre Scritture, che i sacerdoti custodiscono e spiegano. E si dice, essa parla all’intimo dell’uomo, come “coscienza”; ma anche qui permangono dubbi e scru- poli. Se ciascun uomo ha l’immediatezza divina come “homo religio- sus”, i fanatici e i seguaci di una setta non si sono appellati alla “voce interna”? Il “mysterium tremendum” dell’incontro diretto con Dio ri- mane al di fuori dalle possibilità quotidiane e normali della nostra vita, o il rapporto con Dio resta come una chiacchierata con il vicino? Queste

sono domande retoriche, a cui noi qui non vogliamo né possiamo dare una risposta. Ma dobbiamo illustrare il problema: gli ideali sono solo in- terpretazioni dubbiose e incerte della felicità umana, o hanno un modo d’essere che supera l’essere dell’uomo? Gli ideali non sono nient’altro che immanenti potenze vitali, che imperando pervadono la nostra vita – oppure sono potenze di senso, che irrompono nell’esserci dell’uomo?

Il riferimento dell’uomo all’ideale è un problema complesso, im- penetrabile – e questo non solo poiché viviamo in un permanente “in vista di”, ma anche come questione, di che cosa sia allora l’ideale in se stesso. Che l’ideale regoli il compiersi della nostra vita e che lo muova in maniera prescrittiva, è innegabile; ma non è affatto stabilito se sorga in questa funzione normativa e se si esaurisca in essa. Noi nel corso della nostra vita ci dirigiamo verso un ideale, come verso una stella. Come quando nei tempi antichi i navigatori si orientavano secondo le costel- lazioni del firmamento, non si avvicinavano mai a esse. Gli astri erano in grado di guidare, perché erano irraggiungibili. L’ideale sta a “mo’ di guida” nella vita umana, persino nella sua realizzazione più dimessa e misera, in quanto tutto ciò che facciamo e omettiamo, accade in un tal- volta oscurato, ma non smarrito nesso motivazionale con l’ideale; ma al tempo stesso esso mantiene la sua distanza. Di che tipo è questa strana reciprocità al contempo di vicinanza e distanza? La citazione con cui Nietzsche chiude l’ultima ora di lezione non era intesa in modo deco- rativo. La connotazione dell’ideale come una “costellazione” non è una metafora retorica, che potrebbe essere sostituita altrettanto bene con una qualunque altra espressione. L’ideale, inteso come potenza di senso che risplende nella vita umana e con ciò ci innalza, sta in riferimento a quell’inattingibile distanza e ampiezza, che dona ogni prossimità e ogni “qui” – che dà spazio a tutto l’ente e permette il tempo.

L’uomo, come abbiamo già detto ripetutamente, non è “disposto” semplicemente nello spazio come di solito lo sono le altre cose finite, non è sottoposto al tempo come loro, egli si relaziona alla smisurata-im- mensità di uno spazio-tempo. Esiste come cittadino del mondo. Magari solo un essere vivente aperto al mondo può essere propriamente “eti- co”, guidato ed essere normativamente determinato nel suo modo di vita da un ideale. Posto che questo sia giusto, così sarebbe presumibile

che nell’idealità degli ideali si possa seguire una traccia per una corri- spondenza cosmica dell’esserci umano. «Due cose colmano l’animo di ammirazione e riverenza sempre nuova e crescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me»5 afferma Kant nel capitolo conclusivo della

sua “Critica della ragion pratica”; cielo stellato e legge morale sono in quanto sublimità collocate l’una accanto all’altra, anzi addirittura l’una contro l’altra; e tuttavia la contrastante combinazione non è un’idea ar- bitraria. L’apertura per l’ampiezza-mondo dello spazio e del tempo, che l’uomo pensante non condivide con nessun animale, è connessa con la capacità etica. Ma Kant interpreta questa connessione nella prospettiva della metafisica tradizionale e nei suoi contrasti tra animale e spirituale nell’uomo, tra esteriorità e interiorità, tra fenomeno ed essenza; il subli- me diventa qualcosa di doppio e qualitativamente differente. Egli porta avanti quella posizione con un pathos crescente per lui raro: «Entrambi non posso cercarli e meramente congetturarli come se fossero avvolti dalle tenebre oppure come se oltrepassassero il mio orizzonte: li vedo davanti a me, e li congiungo immediatamente con la consapevolezza della mia esistenza. Il primo inizia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, e amplia la connessione, in cui io mi trovo, con mondi su mondi e sistemi di sistemi, incommensurabilmente, per giunta nei tempi illimitati dei loro movimenti periodici, delle loro origini e della loro durata. La seconda inizia dal mio Sé invisibile, dalla mia perso- nalità, e mi (rap)presenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può avvertire, e con il quale (come peraltro insieme con tutti quei mondi visibili, con tale tramite) io (ri)conosco di essere congiunto in una maniera non solo accidentale (come nel primo caso), bensì universale e necessaria. Il primo spettacolo, di una quantità innu- merevole di mondi, annulla, per così dire, l’importanza di me in quanto

creatura animale che deve restituire la materia di cui si originò al pianeta

(un mero punto nell’universo), dopo essere stata provvista di forza vitale

5 I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. A. M. Marietti, BUR, Milano 1992,

per breve tempo (non si sa come). Invece la seconda veduta eleva infini- tamente il valore di me quale intelligenza in virtù della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità e persino dall’intero mondo sensibile»6. La relazione dell’uomo con l’infi-

nitezza spazio-temporale esterna è interpretata come “ciò che schiaccia” al cospetto dell’immensità, in cui affoga ogni misura del pensiero, noi veniamo schiacciati secondo l’opinione di Kant dalla “sovrapotenza” e trafitti dal sentimento della nostra nullità; per contro per quanto ci co- nosciamo come liberi, come appartenenti a un intellegibile regno spiri- tuale di essenze razionali, ci sentiamo noi stessi “innalzati” a un sommo rango. Nell’esteriorità l’uomo scompare quasi nel nulla, egli sta di fronte a un sublime estraneo, al cospetto della cui grandezza egli non prende parte. Al contrario nell’interiorità come la dimensione della libertà e della moralità è egli stesso incluso nel sublime e ne prende parte. Kant assegna così piccolezza e grandezza dell’uomo agli incommensurabili emisferi del mondo “sensibile” e “intellegibile”. E tuttavia esplicita, a mio avviso perlomeno, la combinazione del “cielo stellato” e della “legge morale” più di come magari fa la “metafisica” tradizionale con la già ricordata differenza tra regno della natura e regno della libertà.

L’ideale sta in un rapporto recondito con l’ampiezza dell’universo. Questo si mostra in una provocante problematicità proprio lì, dove Kant pone in maniera più fondamentale la questione del mondo, ossia nella “Critica della ragion pura”. La ragione è il percepire l’ente nel suo essere; la ragione è “pura” quando è depurata da tutti gli elementi che hanno origine innanzitutto dall’incontro esperienziale dell’uomo con le cose, quando essa è assunta come insieme di quel comprendere, in cui noi, prima di ogni esperienza, già disponiamo di visioni nella costituzione d’essere delle cose e per mezzo di cui apriamo lo spazio di gioco per l’esperire, per l’empiria. Non impariamo a esperire l’estensione o le re- lazioni temporali di contemporaneità e successione solamente a partire dall’esperienza; non potremmo mai fare propriamente esperienze sen- za una precedente comprensione di simultaneità e successione. Che si

diano tali preconoscenze “a priori”, la filosofia lo sa dall’antichità. Kant dice, allora, che la precedente filosofia non sa come siano “possibili” pro- priamente preconoscenze a priori; essa è dogmatica, perché afferma tali cose, senza chiarire la loro possibilità. L’impresa di una fondazione cri- tica della filosofia deve esplicitamente rispondere alla questione di come siano possibili pre-visioni nella costituzione dell’essere dell’ente, e preci- samente prima di ogni esperienza. L’opinione di Kant è che l’antichità abbia risposto a questo problema, per così dire, in modo “ingenuo”; af- fermando che l’ente in se stesso sarebbe razionale. Se fosse “razionale” in se stesso, allora la ragione umana potrebbe stabilire con un mero rimu- ginare e speculare, come l’ente sia ordinato in base a strutture universali. La moderna metafisica prekantiana certamente ha cercato “spiegazioni” per l’enigma dell’apriori. Leibniz ha cercato un riparo nella dottrina di

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