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Morte e senso della vita

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 87-101)

Il preliminare concetto esistenziale dell’educazione

6. Morte e senso della vita

L’educazione è un’attività dei mortali; l’autoformazione dell’esserci umano è connessa essenzialmente con l’essere consacrato alla morte del nostro genere. Se l’uomo vivesse “senza fine” e “perennemente”, non necessiterebbe di alcuna “composizione”; – fosse “immortale”, fosse più durevole di montagne e mari, la sua vita potrebbe non rappresentar- glisi come “compito”, – non potrebbe progettarsi preliminarmente la totalità della propria vita. Il limite che ci pone la morte per noi è cer- to, è un’intuita finitezza del nostro sempre proprio movimento di vita; la nitidezza del sapere circa la morte permea qualsiasi cosa facciamo. Questo non significa affatto che noi pensiamo ininterrottamente alla morte, che siamo sempre afflitti in uno stato d’animo del “memento mori”. Perlopiù noi allontaniamo il pensiero della morte, ci atteniamo alle sfide del giorno, agli affari della vita attiva, ai nostri lavori e doveri, ai piaceri e alle gioie. Ma non potrebbe propriamente esserci per gli uomini alcun compito giornaliero, alcun lavoro, alcun dovere, alcun piacere senza la morte; dalla finitezza del nostro essere-qui scaturisce ogni profondità, ogni piacere e dolore e ogni intenzione. La morte per

noi è certa, ma al contempo è incerta e nascosta l’ora della sua venuta. Noi viviamo nella sua ombra. La morte appartiene a quell’essenziale che mai comprendiamo pienamente. Essa non è pensabile fino in fondo come l’essere, ma la sua non pensabilità è il terreno del pensiero.

A partire dal riferimento alla morte comprendiamo prima di tutto il tempo come tempo. E dato che noi mortali comprendiamo grazie alla morte il tempo come tempo, il nostro agire ha una struttura “compres- sa”, vale a dire che di volta in volta qualunque cosa facciamo è “nel tem- po”. Noi ci muoviamo inesplicitamente e talvolta anche esplicitamente nell’orizzonte di una “pianificazione di vita”; esistiamo per così dire come un progetto vitale. Ma questo progetto non si perde nel “senza fine” di una incalcolabile durata; in un tempo infinito che dovrebbe affogare ogni volere. Noi vogliamo perché siamo rapportati a un arco di tempo finito. E anche quando nessuno conosce la dimensione del tempo a lui assegnato, così, per così dire dall’interno, ci è ugualmente nota la limitatezza della vita umana. Non perché fino a ora tutti gli altri uomini sono morti, non aspettiamo eccezione alcuna che ci riguardi. La comprensione della nostra propria mortalità non si basa su un ragio- namento induttivo. Non desumiamo dall’esperienza della morte altrui una propria morte futura. Noi viviamo sempre in una comprensione dell’essenziale mortalità dell’esserci umano. Forse per contro si obiet- terà, “la coscienza della morte” sarebbe presente in modo accentuato tuttavia solo negli adulti e nei giovani, ma non ancora nel bambino. Esso vivrebbe beato e dimentico di sé nell’istante, che per lui non ha il carattere del momento fuggevole, ma quello di una pura durata. Si- curamente il bambino non ha una relazione col tempo “esposta” come l’adulto, non viene turbato dalla vista dell’impetuosa corrente del flusso temporale; il tempo è per lui ancora principalmente quello che portano tutte le cose, l’impeto del mondo, e non ancora piuttosto il prendere e il travolgere. E tuttavia non vive come l’animale, che è soltanto logorato dal tempo, non relazionandosi mai al tempo in quanto tempo. La “pura durata”, in cui il bambino vive giocando, non è una possibilità dell’a- nimale, ma è una possibilità tutta umana, e in determinate situazioni accessibile anche all’adulto. Il bambino si confronta in modo diverso con la morte rispetto all’adulto, forse da una base molto più familiare

senza la distanza dello sgomento. Ma la vita infantile contiene in sé la morte, perché è una vita umana, anche quanto un bambino non ha ancora sentito nulla del morire e dei decessi. Il riferirsi alla morte degli uomini adulti è più nitida e più distinta. E anche coloro che uccidono, che causano la morte di altri uomini, che si fanno strumento di morte, sono, malgrado la mostruosità dell’attività, assassina ancora più traspa- renti del bambino aperto alla morte – stando alla connotazione di Rilke del bambino alla fine della quarta Elegia duinese: “gli omicidi sono / facili da capire. Ma questo: la morte, / l’intera morte, ancor prima della vita / contenere così dolcemente e non esser cattivi /è indescrivibile”. La relazione alla morte dell’esserci infantile è un problema complesso ed è anche pedagogicamente di particolare importanza. Poiché nella misura in cui il bambino diventa “più consapevole” riguardo la morte, gli si dischiude anche in modo crescente la sua individualità e con ciò anche un intimo e finito compito per la vita.

La morte è il “confine”, da cui è resa possibile ogni “delimitazione”, ogni prendere forma e costituzione della vita umana. Il nostro esserci si interrompe nella morte, ci spegniamo; ma tale “interruzione” non è in nessun modo solo un evento futuro, che noi timidamente vediamo arrivare di solito alla stregua di una qualunque “ultima ora”. Solita- mente un’ultima ora passa; noi la superiamo. L’ora della morte tuttavia non passa come un altro doloroso avvenimento. È il passaggio del pas- sare. È il nostro essere-nel-tempo stesso che scorre, quello che di solito costituisce la strada nella quale gli eventi e gli avvenimenti scorrono via. Questo tratto rende la morte assolutamente imparagonabile con gli altri eventi; è l’evento, che distrugge la possibilità di ulteriori even- ti. Solitamente ogni evento è un “passaggio”, un avvenimento tra altri avvenimenti prima di lui e dopo di lui. Visto dal mortale la sua morte è la fine del tempo – quindi non come stato finale di un avvenimento. Dove solitamente un processo cessa, ne inizia un altro; dove una melo- dia si interrompe, segue un silenzio. Movimento e quiete, entrambe le possibilità di come l’ente è nel tempo, si susseguono a vicenda o anche si incrociano; ma la successione e la simultaneità di eventi temporali è sempre tenuta unita tramite il corso del tempo. Così si dice, solo “nel” tempo ci sono inizio e fine, cominciamento e interruzione – ma il tem-

po stesso è senza inizio e senza fine, è il presupposto per qualcosa del genere, è la condizione della possibilità per inizio e fine. Per colui che muore, tuttavia, la morte è la fine del tempo stesso, l’ultima ora non è un “passaggio”, perlomeno un passaggio in senso temporale. Il tre- mendo paradosso, che sta nella struttura temporale del mortale, viene nascosto per il fatto che la morte perlopiù non viene compresa come la “mia”, ma come la morte altrui. L’altro muore. Egli cessa di essere ani- mato – ma rimane disteso come una salma, viene sepolto, il suo luogo di sepoltura viene rispettosamente curato da coloro che restano.

Per lo sguardo di coloro che restano la morte è un evento, in seguito al quale il tempo prosegue ancora; è dunque un “passaggio”: il preceden- te essere animato e vivente viene sostituito da una mancanza di anima e vitalità. L’uomo è diventato una salma e un oggetto del culto dei morti. E inoltre spesso non solo i parenti superstiti, ma anche il morente, gui- dato da convinzioni religiose, concepiscono l’ora della morte per così dire come un passaggio in un’altra dimensione d’essere; nella morte, si crede, veniamo spostati dal contesto temporale dell’avvenimento mon- dano in un “aldilà” e lì riceviamo compenso e punizione per la nostra condotta terrena. Invero l’“aldilà “non ha in base alla fede un rapporto continuativo con ciò che è terreno, non è legato con esso per mezzo di tempo e spazio omniabbraccianti; il regno ultraterreno dell’eternità è ritenuto essenzialmente diverso dal luogo del nostro pellegrinaggio ter- reno; non ci sono passaggi intra-spaziali e intra-temporali nell’eterno. Dovunque vogliamo essere sulla terra, “ovunque il cielo è ugualmente distante e luogo di pene eterne” – e il sentiero conduce sempre attraver- so la porta della morte. Ma quand’anche viene annunciata la totale in- comparabilità delle “cose eterne” con le cose terrene spazio-temporali, quando viene detto, che nessun occhio l’ha visto e nessun orecchio ha sentito, quello che Dio riserva a coloro che lo amano, allora deve mera- vigliare che proprio la “vita eterna” inizi dopo la morte e che così questa sembra assumere il carattere di una sopravvivenza. La morte viene così interpretata come “passaggio”, come passaggio dall’esistenza temporale all’esistenza eterna; ma il tempo terreno e l’aldilà sembrano allora in qualche modo essere mediati attraverso l’evento-temporale della “mor- te”. Qui risiedono molte oscure questioni, oscure per la filosofia, che è

armata miseramente solo con il lume del “lumen naturale”, con una fio- ca tremolante fiaccola nella silenziosa notte del mondo. La filosofia non può “spiegare” la morte, come la teologia, che con il richiamo al “lumen supra-naturale” la indica come un passaggio in una nuova dimensione d’essere. La filosofia può solo prestare attenzione al darsi della morte nell’esserci umano, al suo essere permeato dalla morte. L’attenzione alla morte è compresa come un costitutivo dell’esistenza. E questo richiede che la morte debba essere considerata non solo nell’ottica di coloro che restano, cioè come la morte altrui, e non solo in previsione della propria morte, ma come la mortalità dell’uomo. Essere uomo significa essere mortale. Tutto quello che appare tra cielo e terra, tra l’aperta vastità e il sorreggente-chiudente fondamento, è segnato dal tramonto; tutte le cose finite portano addosso lo stigma della caducità, il marchio dell’an- nichilimento; tutto «ciò che nasce merita di perire»6; non solo l’uomo

appassisce come erba davanti alla falce del mietitore, anche l’animale deve chinare il capo; tutto ciò che è nato deve tornare al fondamento che lo ha prodotto. Quello che ha origine in un grembo, finisce nella tomba. Come la stessa dea è colei che porta i fiori, il pascolo verdeg- giante, la gialla onda dei campi estivi e anche la povertà invernale e il campo a maggese della campagna, così il sorgere e il tramonto delle cose finite sono intrecciati l’uno con l’altro; ciò che si erge, è destinato alla caduta – quello che è in forza, appartiene all’inaridirsi; luce e ombra di Persefone sono al di sopra del cambiamento e del corso di tutte le cose finite. Tutto il vivente termina, e anche le grandi cose prive di vita periscono, come monti e fiumi, continenti e mari. Tutto è allo stesso tempo divenire e perire. Anche il più potente non ha la forza di mante- nersi nell’essere contro l’assoluto potere del tempo, che porta e prende, costruisce e distrugge, congiunge e spezza.

Ma, tra ciò che è caduco, c’è solo l’uomo a relazionarsi alla caducità come tale. Egli non solo è trasportato e “logorato” dal flusso del tempo, è aperto per il suo destino, fa esperienza della sua propria evanescenza;

6 J. W. v. Goethe, Faust, prima parte, studio 1, tr. it. di B. Allason, Einaudi, Torino

l’uomo percepisce l’usurante cambiamento, avverte il sibilante vento del- la caducità. Egli sa di sé – secondo le parole di Hölderlin – cadente «da una / all’altra delle ore, ciecamente, / come acqua di scoglio / in scoglio negli anni / giù nell’Ignoto»7. L’uomo è il mortale, perché è dischiuso al

perire, al perire di tutte le cose e di se stesso. La mortalità non la dividia- mo con nessun’altra natura, né con gli altri esseri viventi visibili né con gli dèi invisibili. Solo l’uomo è in grado di morire. Adesso si potrebbe forse obiettare, che anche i miti dei popoli narrano della morte di Osiri- de, della caduta di Urano e di Crono, dello smembrato Dioniso-Zagreo, del crepuscolo degli dèi di Asen, e così via. Ma queste rappresentazioni mitiche della morte degli dèi sono ugualmente difficili da interpretare come la genealogia degli dèi, i matrimoni di uomini e donne divini e le nozze tra i celesti e i figli della terra. Gli dèi sono qui trattati in caratteri umani e allo stesso tempo innalzati oltre la misura umana? Osiride muo- re realmente, termina con la morte la sua unica vita – o la piangente Iside non riottiene lo smembrato Osiride? Il mito non è piuttosto l’allegoria dell’“immortalità”, del ritorno ciclico? Ma quando noi parliamo di Dio e degli dèi, non è pensato il mondo degli dèi delle varie mitologie. Mal- grado non ci interessi qui una demarcazione nei confronti di quella de- terminata tradizione, che comprende l’uomo come un’essenza a metà tra animale e Dio; questa però è la tradizione della metafisica occidentale. Essa pensa Dio come l’ente eterno, immutabile, perfetto. Platone ha at- taccato in una critica appassionata il poeta Omero e la tragedia e con ciò ha “purificato” la rappresentazione mitologica dell’essenza degli dèi. Noi qui non facciamo né teologia e né mitologia; ma acquisiamo uno sguar- do sul concetto “metafisico” di Dio, perché ha contributo alla concezione antropologica e con questa anche al carattere generale del fondamentale fenomeno umano dell’“educazione”. Né il Dio di Platone e di Aristotele né quello dei profeti giudaici e del cristianesimo è “mortale”. Solo l’uo- mo muore. La morte è il “confine”, che, per così dire, rigetta a se stesso esserci dell’uomo essenzialmente senza forma, inquieto e privo di fonda- mento e lo rende un “compito” per se stesso. L’imperfetto e in-compiuto

uomo è costretto, per mezzo della morte, a progettarsi per tutta la sua vita. Il suo darsi una “configurazione”, una “forma”, una “costituzione” è così fondato nella relazione dell’uomo finito con la propria “finitezza”. L’uomo sceglie. Non sceglie però solo questo o quello, ma sceglie lo stile della sua intera vita futura. Sceglie per così dire un modo, come in futuro vuole scegliere e decidere ogni volta di caso in caso. Un atteggiamento di vita, un bios, è sempre un’anticipazione sull’intero avvenire. A chiarifica- zione possiamo rinviare al noto fenomeno della massima della volontà. La massima della volontà è per così dire una volontà fondamentale, la quale non riguarda singoli beni o azioni, ma un perdurante tipo dell’a- gire di volta in volta particolare. Nella massima della volontà si formula l’atteggiamento, in conformità al quale un uomo d’ora in avanti vuole comportarsi nelle sue volizioni future. La vita volitiva umana acquisi- sce con il volere della massima innanzitutto un “carattere”, un’impronta, una costituzione abituale; viene sottratta all’imprevedibile e casuale ar- bitrarietà. Con questo un uomo ottiene anche una affidabilità per i suoi simili; egli ha una linea, perché il suo fare e omettere segue una “regola”. Dove, al contrario, qualcuno si lascia determinare solo da impulsi mo- mentanei e dipende dalla forza dello stimolo di seduzione o di minaccia, non si può fare affidamento su di lui; un tale tipo non ha ancora se “stes- so”, non ha alcuna immagine di se stesso e ancora di più i suoi simili di lui. Solo dove un uomo si rapporta al suo intero avvenire, ottiene nella decisione una determinata individualità. La massima della volontà è l’e- spressione della sua totale anticipazione di vita, un preconcetto, il quale supera a priori tutti i futuri atti di volontà e li sottomette a una volontà fondamentale. La comprensione della vita, in cui si trova l’esserci, sia un singolo o anche un popolo, si è consolidata in espresse e tacite massime di volontà, in leggi scritte e “non scritte” ed è formata come appiglio. Il fatto che ogni educazione tenda a formare e a sviluppare tali massime di volontà e comportamenti etici fondamentali, certamente lo si ammette. Tuttavia per noi non è altrettanto “ovvio”, che l’anticipazione dell’uomo riguardo il suo futuro è condizionata dalla morte. Solo una natura che ha un futuro finito, può costituire se stessa. Se ci fosse un essere vivente di durata infinita, questo non potrebbe arrivare mai a una costituzione, ma non ne avrebbe neppure bisogno.

La mortalità dell’uomo non è la condizione generale solo del rap- porto a sé e della formazione di sé, essa determina – come abbiamo già brevemente accennato – anche la partnership di educatore e allievo. Il mondo sociale dell’uomo non è un campo di dati prestabiliti. Si dà la differenza di anziani e giovani, innanzitutto l’articolazione dell’età sul terreno di una comprensione di vita, che è accordata dalla morte. Ma- schi e femmine generano figli nell’abbraccio d’amore; ma questi non sono un’essenza estranea, individui totalmente estranei – chiamati alla vita da un certo enigmatico processo naturale; ci sono genitori conti- nuamente, in verità non identici ai figli in quanto individui, ma miste- riosamente “identici” come la stessa vita, che continua per un tratto di tempo in altre forme, fino a che anche queste forme scompaiono e per- durano solo nei figli ancora in vita. Gli individui vanno e vengono – ma la tribù, la stirpe, il popolo resta. Questo “restare” è la presenza di un “identico” malgrado le reali differenze dei singoli individui. La corrente continua a scorrere, anche quando le onde scompaiono. Ma il perma- nere di un popolo nel mutamento degli individui e delle generazioni è più che un evento biologico. Anche le specie animali restano e persisto- no nell’accoppiamento e nel perire dei singoli animali. Ma gli animali non si relazionano a una vita sovraindividuale, che li pervade. Perché non conoscono la morte, non conoscono nemmeno l’immortalità ter- rena. Ma gli uomini onorano gli avi, danno sepoltura ai morti e si co- noscono come i “presenti” congiunti con gli “assenti”; il generare “sotto la luce” comprende il suo temporaneo essere-qui come rappresentanza di coloro che dormono nella terra o che sono venuti a mancare o che non sono ancora nati. La tradizione ancestrale e la cura per i venturi determina il costume dei presenti. Un popolo si comporta “eticamen- te”, quando concepisce la sua realizzazione di vita come un’“opera”, che non decide solo riguardo la generazione presente-vivente e il suo carattere di senso, ma mantiene il presente in rapporto all’“immortali- tà”. Di importanza decisiva però è qui la cognizione che l’immortalità terrena non è un “superamento” della morte; essa è condizionata dalla morte. Generalmente la mortalità dell’uomo e l’immortalità terrena di un popolo si relazionano non come “concetti opposti”, non come tesi e antitesi. Esse formano una compagine unitaria, sono la stessa cosa.

«Ci si deve sposare» – si dice nei “Nomoi” di Platone – «nel tempo tra il trentesimo e il trentacinquesimo anno di vita, in considerazione, che il genere umano ha un intimo tratto di immortalità, verso il quale cia- scuno aspira con tutto il cuore […]; dunque, l’umanità è al contempo saldata con il tempo nel complesso, scorrendo via continuamente con il tempo e sempre scorrerà. In questo modo è immortale, perché lascia sempre di nuovo i figli dei figli, con questo rimane la stessa in eterno e attraverso il costante divenire assume la caratteristica dell’immortalità»8.

Il persistere del genere umano è più che un perdurare attraverso il tem- po; anche il genere animale perdura, ma il generare dèi mortali è sal- dato con il tempo nella totalità; vive nella autocomprensione della sua intramontabilità – attraverso la morte degli individui. Il genere umano è in un certo qual modo “eterno” – ma tuttavia non eterno come l’idea platonica o il Dio cristiano. L’idea platonica è “sempre-essente”, aei on, il suo permanere [Immersein] non è un continuo durare, non è sottopo- sto al tempo; ogni cosa sospinta nel tempo “diviene”, non ha mai il suo intero essere “riunito”, è presente in determinati momenti, in altri “non più” e in altri “non ancora”; ciò che è sottomesso al tempo è “disperso” nel tempo. L’ontologia platonica insiste sulla differenza fondamentale del permanente e di ciò che diviene.

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 87-101)