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La pretesa a priori della ragione

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 162-173)

La questione della natura dell’ideale

12. La pretesa a priori della ragione

La possibilità di una guida morale della vita umana, e quindi con- giunta alla speranza di un accordo finale di moralità e felicità, si basa secondo Kant sulle “pretese”, sui postulati della ragion pratica. E infatti queste non sono pretese che noi immaginiamo, desideri del cuore, che ci sospingono – nel corso della nostra vita. Certamente i desideri, che tendono a una “continuità”, sorgono in tutti gli uomini nel corso del compimento della loro esistenza, in una maniera così tanto più forte, quanto più essi diventano consapevoli della loro scomparsa. Tutti gli uomini vorrebbero “sopravvivere” alla morte e tutti vorrebbero dopo questo “imperfetto” mondo terrestre, pervaso di ingiustizia, discordia e miseria giungere in un più puro, migliore e giusto “mondo di felicità ultraterrena”, nel quale è appagata l’inquietudine nostalgica, è elimina- to il travaglio interiore, sanata ogni ferita e in cui viene ricompensato il merito. Su ciò resta un consensus omnium. La sociologia della religione segnala questo fatto della vita umana, per rivendicarlo come un’espres- sione di una caratteristica essenziale della nostra esistenza. Ma il pen- siero di Kant dei postulati pratici non è inteso in questo modo. Poiché queste sono pretese a priori. Non si tratta allora del fatto che la nostra ragione è attraversata “effettivamente” da desideri e aneliti. In quan-

to ragione, che “praticamente” è nell’autonoma autolegislazione della

libertà, essa dispone preventivamente dei concetti di ragione “Dio” e “immortalità” già prima di ogni azione della libertà. Essa non necessita di questo “a priori” per l’agire razionale, perché accade unicamente a partire dal rispetto della legge morale, – ma perché è inoltre una pre- tesa della ragione, che l’azione etica non sia “vana” e senza qualsivoglia connessione con l’aspirazione alla felicità dell’uomo, la ragione pratica deve pretendere che Dio sia e che l’anima umana sia immortale. Il senso di questa posizione kantiana non è affatto semplice da comprendere. Poiché si argomenterà per prima cosa sempre in modo ingenuo: un’im- mortalità “pretesa” e un Dio “preteso” significano poco, quando restano mere pretese, se non diveniamo certi che ciò che è preteso ci sia o no. Non sono mere pretese proprio i meri “sogni”, i prodotti della pazzia, le fantasmagorie? Quando qualcuno possiede una pretesa di denaro,

un credito nei confronti di un altro, ha nelle mani una cambiale, così che questa ha tanto valore solo nella misura in cui è “riscattabile”. La pretesa come tale non origina ancora l’esistenza di ciò che è preteso, il pretendere non può produrre ciò che è preteso. Non si trova forse la ragione umana nelle sue pretese a priori nella miserevole situazione di avere in mano la cambiale di una banca, che non c’è mai, da nessuna parte e in nessun luogo? Il consueto significato di pretesa afferma un diritto su qualcosa che è, magari una cosa o una prestazione, che forse adesso non è ancora, ma “sarà” in futuro. Per quanto il richiedere è diretto anche all’“ente”, all’esistente, esso è impotente nei confronti di ciò che è preteso; ciò che è preteso deve “essere”, essere-reale, esistere, adesso o in seguito, per poter essere reclamato. Nella pretesa si costi- tuiscono forse i “rapporti di diritto”, ma non le cose, alle quali essi si riferiscono. Nell’ambito dell’esistente il pretendere non produce ciò che è preteso. Per noi uomini l’ambito dell’esistente è generalmente il campo dell’esperienza possibile. Solo in questo campo si dà – secondo Kant – sapere. Naturalmente il sapere non è uguale all’esperienza; l’em- piria è resa possibile attraverso le forme pure a priori dell’intuizione e i concetti dell’intelletto. Ma solo nella misura in cui gli elementi a priori della conoscenza sono riferiti alle sensazioni sensibili, essi esercitano la loro funzione “costitutiva”; presi solo per se stessi sono “vuoti” e non generano alcun sapere. Kant ha criticato distruttivamente il tentativo della teologia speculativa, di dichiarare Dio e immortalità oggetti co-

noscibili. La conoscibilità è limitata alla sfera dell’esperienza possibile.

Sapere è comunemente un rapporto dell’uomo con ciò che esiste, con quello che è semplicemente presente. All’interno del rapporto co- noscitivo ci sono diversi fenomeni, che rappresentano “gli stadi inizia- li”, cioè l’intendere, il supporre, l’aspettarsi, e così via; quello che è solo inteso, supposto, non è ancora “saputo”; parecchie cose sono fuori dal campo del conoscibile. Noi stiamo nella speranza, nell’evento che non c’è ancora stato, ma è da noi desiderato e atteso. Il contadino spera nelle piogge previste dal servizio meteorologico. Tale sperare può essere con- cretizzato oppure disatteso. L’evento, riguardo il tempo di domani, oggi ancora supposto, domani sarà conosciuto. Lo sperare si estende allora su qualcosa di cui manca certo in un primo momento il sapere, ma che

è conoscibile per principio. Il nostro corso di vita è sempre pervaso da sogni, accompagnato da speranze. Nella misura in cui questo sperare si estende all’avvenire ancora in sospeso, ciò che è sperato permane nel campo dello scibile, resta nel connesso campo di tempo e spazio.

Ma uno sperare completamente diverso è adesso quello che va oltre la morte e si spinge oltre il campo dei fenomeni: lo sperare nell’immor- talità e nel Dio orientato secondo giustizia. Lo sperare qui non è uno stadio iniziale del “sapere”, ha completamente un’altra natura. Questa è un grande visione di Kant. Volgarmente, tuttavia, si prende la spe- ranza per una “vita ulteriore” così da estenderla a un tempo “dopo” la morte e a uno spazio “da qualche altra parte” rispetto alla terra. Con ciò la morte è ridotta a un “evento”, che interrompe la connessione degli eventi precedenti, ma comincia una nuova catena di eventi di tipo ultraterreno. La dottrina di Kant dei postulati della ragion pura non è comprensibile fin quando la comprensione della morte rimarrà così “primitiva”. La morte è il confine estremo per un simile sperare, rivolto al conoscibile. Al di là di essa non c’è più tempo né spazio. E certamente l’uomo mortale si rapporta, poiché sa della morte, sempre a quell’inquietante vuoto, in cui non solo non ci sono cose sensibili, ma nemmeno luoghi spaziali e cicli temporali. Kant chiama “speranza” (nel senso più stretto della parola) il rapporto con questo vuoto senza spazio e senza tempo, che non è campo di esperienza possibile. Dio e immor- talità sono speranze, non sono dèi conoscibili. Sono ottativi a priori della ragione umana. Dio e immortalità non sono dei possibili oggetti del conoscere, che sono provvisoriamente solo supposti ma in seguito saranno “dati”. La speranza non si rapporta a loro – come solitamente una speranza abituale si rapporta a cose ancora in sospeso. Il carattere di pretesa di queste speranze pure della nostra ragione deve essere com- preso a partire dall’orizzonte della possibilità della libertà; esso è essen- zialmente pratico. Tale sperare non è un mero “attendersi” e non è solo una posizione provvisoria rispetto a una cosa o un evento; la speranza è anzi l’unico modo in cui l’uomo è capace di porsi nei confronti di Dio e immortalità. Qui la “pretesa” non è impotente e non è condizionata dall’“esistenza” di ciò che è preteso; nella pretesa della ragion pura, in quanto tale, si realizza il riferimento genuino dell’uomo a ciò che egli

essenzialmente non può conoscere, ma certo in modo necessariamente razionale “può sperare”. La legge morale attraverso il sentimento del rispetto ci fa capire quello che dobbiamo fare. Ma la domanda “che cosa dobbiamo fare?” è intimamente congiunta con la domanda “che cosa possiamo sperare?” e certamente sulla base delle necessità della ragio- ne pratica, perché la felicità, nonostante non sia essa stessa il movente dell’azione morale, certo rappresenta un diritto dell’uomo morale. Noi dobbiamo agire moralmente, – anche quando non siamo ricompensati nella vita terrena, anche se i delinquenti restano impuniti, anche se il vizio trionfa. Noi dobbiamo adempiere il dovere anche contro l’inclina- zione. Ma il rigore etico kantiano non va certo così lontano da dividere, in modo fondamentale, l’uno dall’altra dovere e inclinazione e affer- mare la loro assoluta separazione. Al contrario, è una pretesa a priori della ragione che la moralità sia per principio congiunta con la felicità. Questo legame di entrambe, nel campo del conoscibile, non è mai dato nella nostra vita terrena o solo di rado, ma deve essere “sperato”, se gli scopi finali della ragione umana non sono una vuota illusione. Si frain- tende Kant in modo grossolano, se lo si accusa, come spesso accade, di aver convertito “Dio” e “immortalità” a meri desideri e mere “assunzio- ni”, che dovrebbero garantire la non-inutilità dell’agire morale. Poiché Dio e immortalità non sono con ciò “soggettivati” in modo erroneo, quando sono compresi concettualmente come postulati della ragione pratica. Dipende solo dall’afferrare adeguatamente l’ambito a cui si ri- ferisce lo sperare. E questo ambito non è una zona all’interno della connessione dei fenomeni, non è affatto una sezione nel campo del co- noscibile; è l’ambito “oltre la morte”. Già il termine “oltre” è frainten- dibile, fin quando in esso risuonano rappresentazioni spazio-temporali. Ma non ci possiamo esprimere diversamente, se non con le immagini, che attingiamo dal mondo terreno. Quando, nell’uso delle metafore terrene, allo stesso tempo viene inteso in una qualche maniera il loro non dire, si restringe il pericolo di un “dogmatismo” acritico. Chi va sulla barca di Caronte sullo Stige, non giunge da una sponda a un’al- tra, non scende dallo splendore dei campi estivi in uno sbiadito prato di asfodeli nell’ombra dell’Ade. E anche se nessun vivente conosce la terra della morte, così certo noi sappiamo nel nostro non-sapere; perce-

piamo il grande vuoto sconosciuto e senza nome, la zona dell’assenza, che circonda misteriosamente ogni presenza. E ci rapportiamo a questa assenza, come a una enigmatica dimensione del mondo, “sperando” – a questa assenza si rapporta anche la ragione umana nei suoi postulati pratici. Mi sembra che sia di essenziale importanza interpretare il re- gno della morte proprio come la terra della speranza, per comprendere perché in Kant i postulati della ragione pratica portino con sé un ca- rattere-“come-se” e con questo, tuttavia, non siano delle mere ipotesi o persino finzioni. Dio non è esistente in quanto essenza originaria, in quanto ideale trascendentale dell’omnitudo realitatis “personifica- to”, “conoscibile” e “scibile”, come sono conoscibili e scibili gli oggetti dell’esperienza. Ma Dio come la “volontà moralmente più perfetta” e come sorgente “di ogni felicità umana”, come giudice, che ricompensa e punisce, e altresì anima indistruttibile, che non trova nel “aldiquà” la concordanza di moralità e felicità, ma se li aspetta nell’“aldilà”: queste sono le due essenziali speranze dell’uomo. Ma entrambe, legate l’una all’altra, si riferiscono alla morte – come a una porta; “pretendono” Dio come giudice dei morti e l’immortalità dell’uomo mortale.

Sullo sfondo della dottrina kantiana dei postulati della ragione pra- tica è sottintesa una metafisica della morte. In ciò noi vediamo il suo nucleo perenne, che filosoficamente rimane un’“intuizione” di sommo rango, anche quando le rappresentazioni teologico morali di provenien- za cristiana vengono sostituite da questo. Abbiamo già espresso il dub- bio se la formulazione di Kant delle pretese a priori della ragione prati- ca, nell’uso linguistico teologico-cristiano a partire dalla cosa stessa, sia necessaria e forzata. È stato detto più volte di Kant, che avrebbe spinto fuori dalla porta principale ciò che avrebbe di nuovo lasciato entrare dalla porta sul retro; che avrebbe scacciato le convinzioni di fede del cristianesimo fuori dal campo della critica della ragione teoretica, ma riportate in auge nella sua filosofia pratica della libertà – e ci si appella inoltre a un detto kantiano, che occorrerebbe limitare il sapere, per far posto alla fede. Non prendiamo qui in considerazione l’intensa relazione personale di Kant con ogni religione positiva. Dunque non ci interessa adesso, se e in quale misura Kant è partecipe del grande processo stori- co di secolarizzazione delle motivazioni cristiane del pensiero. Il nostro

dubbio scettico orbita attorno all’interpretazione di Kant del “Sommo Bene”, quindi di un concetto puramente filosofico. Noi domandiamo: una vita etica va pensata solo sotto entrambe le condizioni o presupposti compatibili con la felicità, che una “persona” onnipotente, onnisciente, infinitamente buona, eterna che governa il mondo è “auspicata” come il giusto giudice dopo la morte – per una persona umana “che soprav- vive” alla morte? Quella dimensione del mondo del regno dei morti deve necessariamente essere “occupata” da persone divine e umane? Fino a che punto la categoria della personalità ha il rivendicato “sommo rango”? Perché l’“omnitudo realitatis”, l’insieme di tutto l’essere, deve addensarsi in una figura personale, se nella visione morale deve essere possibile non solo l’adempimento del dovere, ma anche la conciliazione con l’inclinazione? Tra l’uomo che spera nell’aldiquà, che spera in una salvezza nascosta nella morte, e appunto questa “salvezza” deve esistere una corrispondenza, una “analogia entis” tale che essi come persone si somiglino – per mezzo della distanza tra divino e umano? Si relaziona l’uomo a Dio come il figlio al padre, come la copia all’archetipo? Queste sono certamente rappresentazioni antichissime e “profondamente signi- ficative” la cui sapienza non è scaturita nelle teste dei singoli, ma giunge da esperienze originarie del genere umano. Gli uomini pensano gli dèi come “uomini” supremi; la supremazia può essere spinta così lontano, che Dio come “totalmente altro” e totalmente inafferrabile, come “deus absconditus”, si libera completamente da costituzioni antropomorfe nell’ineffabile. E tuttavia ci si attiene perlopiù ancora al concetto di per- sona. Ma il nostro scetticismo è appunto questo, se sia una necessità della ragione umana, pensare il “Sommo Bene” in modo analogo a una persona umana. Può darsi l’associazione di moralità ed eudaimonia solo se la “salvezza” viene rappresentata come personificata in un “salvatore”? Posto il caso, che in senso ontologico generalmente una “persona” sia una cosa che si riferisce a-se-stessa, una sostanza riflessa-in-sé, allora per principio possono darsi persone solo nell’ambito dell’individuazione. La morte però cancella la natura singola. Da dove si acquisisce il diritto di popolare con individui – con persone umane e divine, la silenziosa terra “aldilà dell’Acheronte”? Questa dimensione del mondo dell’assenza ci è “più comprensibile”, se noi per essa adoperiamo immagini fuori dalla

sfera in cui le cose, gli esseri viventi e le persone singole e differenziate vengono alla luce? Il vecchio Senofane dice: «I mortali immaginano che gli dèi siano nati e che abbiano abito, voce e figura come loro» (Fr. 14). «Ma se i buoi e i cavalli e anche i leoni avessero mani, e con le loro mani potessero dipingere e compiere le opere come gli uomini, i cavalli dipin- gerebbero immagini di dèi simili a cavalli, e i buoi simili a buoi, e pla- smerebbero tali corpi come quelli che hanno ciascuno di loro» (Fr.15). «Gli Etiopi affermano che i loro dèi sono neri e camusi, i Traci al contra- rio che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi» (Fr. 16). Possiamo – sulla scia di Senofane – porre la questione così: gli esseri viventi personali, come gli uomini, devono pensare il necessario concetto a priori della ragione del “Sommo Bene” nell’immagine di una persona? Poiché Kant per l’“ideale trascendentale”, per l’“omnitudo realitatis” rifiuta espressa- mente la categoria della personalità, ma per il concetto di ragione prati- ca del “Sommo Bene” rivendica il carattere di persona e quindi in modo duplice: per il giudice dei morti e per gli uomini morti sottomessi al tribunale, per questo motivo Kant nel suo pensiero radicale non ha ri- solto l’ipseità dell’ideale trascendentale e del Sommo Bene. La salvezza, che come associazione di moralità e felicità è inoltre una pretesa neces- saria della ragione pratica, una pura speranza oltre la morte, deve essere rappresentata nell’immagine delle relazioni a partire dal regno dell’in- dividuazione, delle differenze, della lacerazione. Ci ricordiamo, certo, come Kant avesse caratterizzato l’“omnitudo realitatis”: nel rigetto della cosa singola determinata. La sua “costante determinazione” è una mar-

ginalizzazione rispetto all’insieme dell’essere. La cosa finita si mantiene

nel rigetto della totalità nella sua separazione; l’uomo personale è un esasperato isolamento; dunque egli non solo è un individuo, si rapporta alla sua singolarità. Ci sono nella storia della religione e della filosofia tentativi a sufficienza, per spiegare proprio l’esistenza individuale sepa- rata dalla causa prima, come l’autentica non-salvezza, come la adikia, come l’infelicità della divisione, come la caduta da un uno originario, e ci sono sufficienti dottrine di redenzione, che pongono la “vera felicità” nell’abbandono dell’esistenza personale, nell’immersione nel mare della vita. Non deve essere messa in concorrenza la sapienza terrena o il culto di Demetra dei Misteri Eleusini con le immagini cristiane. Noi ponia-

mo in questione solo un problema filosofico. Questo è per noi il luogo originario dell’ideale. Che cosa sono propriamente gli ideali? Dov’è la loro dimensione nativa? Sono “progetti” umani? Sicuramente gli ideali significano sempre determinate interpretazioni della felicità, interpre- tazioni del Sommo Bene. Ma sorgono per essere letture di senso del genere umano? L’uomo è il “luogo” degli ideali – o il luogo dell’uomo è determinato dalla distanza dall’ideale, quella strana “distanza”, che allo stesso tempo rappresenta vicinanza e lontananza?

Abbiamo tentato di riflettere sull’esposizione di Kant della que- stione riguardante l’ideale. Riflettere non è solo ripetere. Quello che ci sconcertava ed era una pietra dello scandalo è il modo in cui possiamo intendere il suo uso “acritico” della categoria della personalità nella dot- trina dei postulati. Quando qui non siamo in grado di seguirlo, non dev’essere per presuntuosa “saccenza”; noi sappiamo solo “di meno”. Noi popoliamo la dimensione della “pura speranza” razionalmente ne- cessaria, il regno dei morti, non con “figurazioni”, non con figure per- sonali di rango divino e umano. Prendiamo la morte così, come essa ci si testimonia, noi stiamo ancora di qua davanti a essa: come il limite estremo dell’esserci individuale, come il “margine” della vita, dietro al quale si dischiude il grande, silente vuoto, la misteriosa zona dell’assen- za, come l’“altro mondo” che non esiste in nessun luogo e in nessun tempo. Ma questo “assente altro mondo” non è un assoluto niente, un nihil negativum, che non ci riguarda affatto. Al contrario, ci riguarda sempre, stiamo nel vortice di quel vuoto, nell’appello del suo silenzio. Gli andiamo incontro in tutto ciò che facciamo. Noi uomini siamo i mortali. Tutte le nostre gioie, piaceri e godimenti stanno all’ombra della morte; nelle nostre gioie più profonde freme l’angoscia della caducità. L’intera vita umana è permeata dalla morte – come il pane dal lievito madre. Per quanto noi siamo sempre a conoscenza della morte, anche quando resta per noi incomprensibile e impenetrabile, comprendiamo il niente in una nitidezza inquietante: non solo come un’attenuazio- ne, un congedo, una carenza, una privazione ecc.; noi comprendiamo il niente come la scomparsa totale, come l’annichilimento. E poiché comprendiamo il niente, comprendiamo con ciò anche l’ente in quanto ente. La possibilità della comprensione dell’essere è in stretta relazione

con la mortalità dell’uomo. E in quanto noi, intonati dalla morte, men- tre ancora ci-siamo, ci rapportiamo già al nostro “trapasso”, ci è aperto il tempo stesso nel suo aspetto profondamente ambiguo; esso è per noi non solo il grande flusso, che porta, dispone e consuma tutte le cose, ha per noi quella inconcepibile “unicità” della nostra propria vita ed è tuttavia allo stesso tempo la lontananza infinitamente-smisurata, inim-

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