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L’essenza ibrida di spirito e sensibilità

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 64-76)

Il preliminare concetto esistenziale dell’educazione

4. L’essenza ibrida di spirito e sensibilità

Soltanto l’uomo educa. Egli soltanto tra tutte le creature della terra conosce l’inquieta aspirazione e l’impegno ad andare oltre la condizione in cui lo ha gettato la natura: superare la condizione creaturale; egli soltanto tra tutti gli esseri viventi che giungono a manifestarsi nella luce dei cieli, sotto il passaggio del sole e la lucentezza delle stelle, si im- pegna per un’impronta, si conquista a fatica uno “stile”; egli non può indugiare in una specie già data, come il sicuro animale, né può stare semplicemente fermo come le delicate piante; egli non può fiorire come i gigli dei campi e neanche può lanciarsi nell’immenso come gli uccelli del cielo; non si radica nella terra con semplicità e ingenuamente, non risuona negli spazi aperti, né riluce in quelli luminosi. L’uomo non vive in una elementare appartenenza alla natura: egli è separato dalla varietà degli esseri viventi totalmente abbracciati dalla natura. Tuttavia, proprio per questo motivo, l’uomo può fare esperienza della prossimità stessa in maniera diversa dalle piante che si mantengono nella prossimità alla terra – e può rivivere la lontananza stessa in maniera diversa dall’animale che si muove nella lontananza. Egli è un’essenza della distanza: possiede la prossimità come prossimità e la lontananza come lontananza. Egli percepisce ciò che custodisce del suolo terrestre come una patria e il richiamo dall’esterno del campo aperto e viene reso inquieto dalla ten- sione di questo momento; il “luogo” dell’uomo non è semplicemente tale, come quello delle altre creature della natura “tra la terra e il cielo”; l’uomo si caratterizza per il fatto che in lui un’essenza ibrida si rapporta espressamente alle dimensioni, e in quel campo magnetico si trova il luogo proprio della sua esistenza. L’uomo non può semplicemente vive- re-lì come piante e animali, egli deve “istituire” la sua vita, deve cercare di ricondurre a uno scopo l’inquieto conflitto tra prossimità e lontanan- za, tra intimità ed esposizione, tra la più elementare notte del sangue e il pieno giorno della ragione, e di custodirlo in forma di senso. E l’uo- mo cerca di farlo da quando è sorto e si è innalzato dal regno animale: questo è il senso di tutti i riti magici dei popoli primitivi, il senso delle leggende e dei miti, che sono stati tramandati dai primordi della storia; e questo è anche il senso delle grandi interpretazioni storiche della vita.

Nella nostra propria storia l’umano conflitto dell’esserci ha trovato un tratto distintivo nella fusione tra metafisica antica e religione cri- stiana; questa non considera il “terreno” e il “celeste” come tensione di due momenti del mondo, bensì come l’opposizione tra un cosmo sensibile-visibile e un sovra-mondano ultrasensibile, tra un “al di qua” e un “al di là”, tra un mondo materiale e uno spirituale, tra un “mun- dus sensibilis” e un “mundus intelligibilis”. La “intercapedine” tra i due mondi viene indicata come il “luogo proprio” dell’uomo: egli vive in un primo momento – si dice – nello horatos topos, nello spazio delle cose visibili, ma possiede la straordinaria opportunità di “levarsi” dalla caverna del mondo sensibile e di giungere, in un cammino per gradi di trasformazione, alla visione delle “idee”. Tale cammino sarebbe di certo una rivoluzione di tutta il suo modo naturale di vivere, sarebbe l’edu- cazione pensata dalla filosofia, la paideia nel senso platonico; oppure, diversamente: l’uomo si trattiene “temporaneamente” sul mondo terre- no e provvisorio, che sarebbe stato creato soltanto per lui con lo scopo di rivelargli la grandezza e la magnificenza di Dio; il breve intervallo di tempo terreno sarebbe però il tempo della decisione: qui l’uomo si dovrebbe decidere o a favore o contro Dio e, con ciò, guadagnarsi l’eterna felicità o l’eterna dannazione; con ciò si decide di nuovo sul significato dell’educazione in senso assoluto: l’educazione è una guida verso Dio, è una propedeutica terrena per la “vita eterna”. Secondo la prospettiva della metafisica occidentale tramandata, l’uomo si trova dunque tra Dio e l’animale, in maniera tale, però, da partecipare all’ani- malità e alla divinità: l’uomo è un’essenza ibrida di sensibilità e spirito, di impulso naturale e libertà, gettata nella temporalità e purtuttavia destinata all’eternità – cittadino di due mondi e ordini dell’essere e però in nessuno del tutto a casa; l’uomo è, per così dire, un Dio macchiato di animalità e un animale turbato dalla divinità. L’uomo assiste in se stesso allo scontro delle due “nature”, entrambe lottano in lui per prendere il sopravvento. Il vivere umano viene pensato come conflitto delle parti animale e divina: l’animale in noi ci tira indietro nell’animalità, cerca di afferrarci in un modello di vita cieca, ottusa e istintiva, e tuttavia non riesce mai a raggiungere l’“innocenza” degli animali. Chi, coscien- temente, anela all’animalità, affonda presto al di sotto dell’animale. Per

altro verso ci sospinge la luce divina, che ci brucia nell’anima, per con- durci fino a Dio: noi siamo attirati in alto da una aspirazione di origine oltre-umana; ma essa non è, come si dice, un vincolo che ci obbliga, bensì è il “cor inquietum”, la “voce della coscienza”, la anamnesis come ricordo della pre-esistenza dell’anima, o anche il richiamo sottovoce della misericordia. L’uomo si trova nel punto di incrocio e conflitto tra forze trascinanti che lo spingono in basso e al contempo lo innalzano: bisogna portarlo a un corretto comportamento dinanzi alle potenze che lo trascinano, bisogna contrastare l’inclinazione verso il basso della na- tura animale e bisogna destare in lui e avere cura del “divino” e dello “spirituale” – cioè, nel senso della tradizione metafisica, “educare”. Tale tradizione è in primo luogo alla base delle concezioni di “educazione” che ci guidano, è il fondamento storico su cui noi cominciamo a formu- lare la domanda sull’essenza dell’educazione. Se, nel corso del nostro riflettere su queste basi della tradizione, noi possiamo permanere in essa, è un’altra questione.

In conclusione con la tesi “soltanto l’uomo educa” siamo giunti an- che in maniera cosciente allo schema metafisico dominante, che limita l’uomo nei confronti dell’animale e nei confronti del divino; abbiamo gettato uno sguardo sull’essere umano, confrontandolo, tramite para- goni, con Dio e con l’animale – ma l’umanità non è stata però spiegata come una mescolanza di animale e divino. Soltanto l’uomo educa – l’a- nimale non può e Dio non ha bisogno di educar-si. Quando l’uomo determina se stesso attraverso un’auto-formazione educativa, impri- mendosi una propria forma, egli si distingue radicalmente dall’animale e da Dio – e tale distinzione è talmente netta, che non si può proprio più comprendere l’uomo in maniera adeguata se non si connota l’esi- stenza umana come una convergenza di elementi dell’essere animale e del divino.

È più che problematico che un’antropologia, provieniente dalla “bestia divina”, possa comprendere l’essenza dell’educazione secondo categorie e concetti validi e adeguati. Animale e Dio sono “perfet- ti”, ciascuno in maniera diversa: l’animale in maniera finita, Dio in maniera assoluta; l’animale non si è attribuito da sé una formazione e una forma, esso ha in dote dalla natura la sua struttura di vita e

resta inchiodato a essa, non ha alcuno spazio d’azione, aperto per lui, di possibilità di stili di vita; l’animale possiede una forma impressa. Invece Dio, in quanto essenza assolutamente perfetta, non ha la possi- bilità di portare la sua vita in una “struttura”: Egli è colui che è dall’e- ternità – dice la fede. Dio è immutabile e invariabile, non può vigere per lui il compito “di diventare ciò che è”, di realizzare un telos inte- riore e neanche di adeguare la sua “manifestazione” alla sua “essenza”. Presso Dio coincidono l’essenza e la realtà in atto. Invece presso gli uomini finiti le cose vanno separatamente: l’uomo si è “dato come compito”, è un progetto interiore. L’uomo deve “diventare ciò che è”, deve cercare la sua essenza e realizzarla; e questo “dovere” non è un obbligo meccanico, è un “bisogno” esistenziale. L’esserci umano è un “essere-non-terminato” e un essersi-dato-da-sé per la pienezza finita. L’imperfezione non è un mero carattere obiettivamente presente nella vita dell’uomo, essa è l’incompletezza percepita, resa nella coscien- za, esperita e sofferta della nostra esistenza frammentaria, che induce all’auto-formazione e all’auto-costituzione. L’essere umano agli occhi di un dio greco non è soltanto un “torso” – né un essere completo a tutto tondo, né un vuoto nulla –, bensì un essere insignificante oppu- re un’insignificanza essente: si è aperta agli uomini stessi la finitudine del loro esserci ed essi ne sono coscienti quando vedono l’animale integro e la pianta silenziosa, oppure quando “credono” nell’eterna e infinitamente perfetta divinità, al di sopra delle nubi e delle stelle. Poiché l’animale è “perfetto” e anche Dio è “perfetto”, una mescolan- za di entrambi non può mai produrre uomini “imperfetti”. La costi- tuzione dell’essere dell’uomo deve essere resa visibile dall’uomo stesso e dev’essere pensata come una costituzione autonoma e incausata.

Come indicazione preliminare del modo d’essere proprio dell’esserci umano abbiamo utilizzato il termine “imperfezione”. Noi siamo l’ente imperfetto in un universo, che è pervaso di cose e creature perfette. Noi siamo cosmicamente un’“eccezione” e ontologicamente un paradosso: un “ente” che anzitutto deve dare a se stesso un’impronta d’essere; noi siamo un enigma per noi stessi, siamo i perturbatori della natura, che fendono con il solco il sacro luogo selvaggio, che trasformano i sassi in case, gli alberi in tavoli e letti, il metallo in armi e le belve in ani-

mali da fattoria, e siamo nondimeno con il nostro titanico lavorio una “risata” per gli dèi olimpici e un oggetto di amorevole pietà per il Dio del cristianesimo; essenzialmente privi di fondamento, cerchiamo un appiglio; aspiriamo senza rassegnazione a una costituzione; disorientati e amorfi nel profondo, siamo interessati a un orientamento e a una forma. E tutto questo non significa, che noi saremmo qui innanzitutto in un primo stato di perplessità e bisognosi di un ancoraggio e poi, per mezzo di conoscenze e ragionamenti, perverremmo in una seconda condizione, nella quale abbiamo acquisito un saldo indirizzo di vita. Qui non si tratta di una “storia dello sviluppo” pensata in un qualunque senso psicologico. L’uomo ha da sempre riempito e occupato lo spazio della sua insicurezza con una specifica interpretazione di vita, la quale non è prodotta dal singolo individuo, bensì dai popoli; e tuttavia tutte le “interpretazioni” e i “progetti di senso” umani, le “risposte” deline- ate circa la questione della vita, non eliminano la problematicità della nostra esistenza così come la sazietà non porta lo stesso fabbisogno di nutrirsi a scomparire. Il cibo seda la fame, il bere estingue la sete, – ma il cibo e il bere colmano solo lo spazio di una necessità e sono possibili solo sulla base del fabbisogno stesso. In modo analogo avviene in un certo qual modo con il più profondo bisogno della vita degli uomini; esso è rivolto per così dire, dove l’esserci arriva alle risposte, dove gua- dagna una forma, uno stile, un’impronta; ma tutte le forme e gli stili pongono preventivamente l’essenziale essere-senza-forma dell’umanità; sulla sua base, nel suo spazio possono insediarsi innanzitutto le decisio- ni storiche dei popoli e delle civiltà. Ma viceversa, ciò che allora attra- verso l’imperfezione dell’esserci prima di tutto viene “fondato”, vale a dire la particolare interpretazione di vita di un popolo, di una civiltà, è la datità innanzitutto e prima di ogni fondazione. Noi non incontriamo la realtà originaria della nostra esistenza, il suo intero spaesamento, – poiché questa ci è già sempre nascosta e velata; ci troviamo in una più o meno confortevole “dimora”, ci troviamo posti in una dominante interpretazione della vita; “dominante” non è necessario quindi nem- meno dire, se condiviso da tutti o creduto dogmaticamente; anche “la miscredenza illuministica”, anche una scialba mancanza di fede di ca- rattere nichilista può essere un soggiorno di vita, che ci occulta l’auten-

tico carattere enigmatico dell’esserci. Forse non sono nemmeno tanto le epoche del dubbio e della rassegnazione scettica, quelle in cui l’uomo avverte il problematico delle interpretazioni di senso, magari sono pro- prio le epoche dei progetti audaci, il fatto che si manifesta il carattere di

azzardo e che lo spazio vuoto, che rende possibile ogni “occupazione”,

vibra massimamente, quando una nuova costellazione irrompe in esso. La situazione, ossia il fatto che noi di volta in volta cominciamo già in una determinata interpretazione popolare o culturale della vita, significa in particolare, per il problema dell’educazione, che appunto il fenomeno originario dell’educazione, l’autoformazione dell’esserci, si è già sottratto. Innanzitutto e perlopiù ci è data una determinata “rispo- sta di vita”, ed essa in un certo senso nasconde e cela la pura domanda; a questa risposta di vita appartiene sempre anche un’interpretazione dell’educazione stessa; noi la afferriamo già nell’orizzonte dell’immagi- ne del mondo di tendenze moral-religiose, questo determina il nostro caratteristico punto di partenza, cioè il terreno della tradizione. Si di- mostra adesso cruciale arrivare al fenomeno originario dell’educazione e con questo, per quanto possibile, sottrarsi al condizionamento delle opinioni, le quali ci sono tracciate dalla determinata risposta di vita sto- rica della nostra epoca. In ciò non c’è alcun disprezzo della tradizione, bensì la convinzione che sia possibile porre in questione filosoficamente l’essenza dell’educazione – e di mostrarla come una struttura fonda- mentale dell’esserci umano. Anche se i sistemi educativi sono sempre storici, apparendo e scomparendo nel corso della vita dei popoli, è però in definitiva una necessità dell’umanità in quanto tale formarsi e costi- tuirsi in maniera educativa; riguardo al chiarimento di questa necessità, che non è “eterna”, perché questo predicato non può essere attribuito all’uomo, ma che invece dura da quando ci sono gli uomini, e durerà fin quando ci saranno – ci interessa l’analisi concettuale. Noi cerchiamo una comprensione esistenziale dell’educazione.

È necessario adesso cogliere il momento dell’“imperfezione” umana in maniera più nitida e non accontentarsi solo di un vago e generale distacco rispetto alla perfezione dell’animale e di Dio. Per caratterizzare l’“incompiutezza” dell’uomo avevamo detto che egli non può riposare semplicemente su di un essere compiuto, che è stato dato come com-

pito a se stesso per la figurazione e formazione; che prima spetta a lui di darsi una costituzione, un’impronta, uno stile; che egli è in maniera limitata la propria opera. Ma in che cosa si fonda allora questo carattere di “compito” della nostra vita? Inoltre siamo chiamati, interpellati da una forza estranea? Perché non ci è permesso, di restare così, come ci ha prodotto la natura? Cosa ci spinge dunque, a manipolarci, a trasfor- marci? Se noi stessi lo siamo o se è una forza estranea, sovrumana, che ci chiama a prendere in mano il nostro esserci, tuttavia è in ogni caso certo un comando significativo, solo se noi propriamente abbiamo la possibilità “di prendere posizione” su noi stessi. In altre parole, ogni autoconfigurazione e ogni autoformazione educativa dell’uomo si basa sulla possibilità di una relazione a sé; noi dobbiamo poter incontrare noi stessi, dobbiamo pure poter conoscere noi stessi nella nostra incompiu- tezza, nel momento in cui un appello a noi, che ci chiama a cercare una forma, è sensato. Una natura vivente, che non conosce nulla riguardo la sua imperfezione, non può mai ambire a un “compimento”. Una pianta può magari avvertire la ristrettezza, in cui è costretta, lo scarno, sassoso terreno, che gli nega la linfa vitale; un animale può più chiaramente avvertire una situazione di pericolo, che lo assedia. Ma né animale né pianta si sanno come “incompiuti”, come “compito” per sé; loro non stanno di fronte all’angosciosa domanda su quale “vita”, quale modo di vivere dover scegliere. La pianta costretta cercherà con le sue radici un nuovo e migliore terreno, l’animale tenterà di trovare vie di fuga; ma entrambi rimangono nella struttura fissa del proprio specifico compor- tamento; non modificano il loro essere pianta o il loro essere animale, il loro modo di vivere, perché soprattutto non possono rapportarsi alla loro specie; sono prigionieri inconsapevoli della loro specificità. L’uo- mo, al contrario, “si relaziona a sé”, si relaziona al suo proprio essere; è aperto a sé, non è solo in sé “imperfetto”, ma è dischiuso a se stesso nella sua imperfezione; è a conoscenza della sua incompiutezza e della necessità, di darsi forma e costituzione.

Ma che tipo di “sapere” è questo? La differenza tra pianta, anima- le e uomo è semplicemente una differenza di grado di un crescente “essere consapevole”? Si potrebbe dire che il tessuto del fiore perce- pisce in maniera ottusa, l’animale già in modo più “vivo” e “distinto”

– e in maniera ancora più chiara e definita l’uomo. Si dice magari con un richiamo all’autorità di una lunga tradizione storico-filosofica che “l’essere ottuso” e “l’essere vigile” sono differenze di consapevolezza. Aristotele pone all’inizio della Metafisica una genealogia dei saperi, che parte dall’aisthesis, cioè dall’impressione sensibile, comune a tutti gli esseri viventi; di un più alto grado è poi quel sapere, dove l’impressione sensibile è accompagnata dal ricordo e dalla memoria; questa spetta proprio agli animali o meglio ad alcuni animali. Più consapevole è tut- tavia il sapere che ha l’uomo, esso sarebbe “esperienza” (empeiria), e dal terreno dell’esperienza si innalzano ora i gradi ancora superiori e maggiori del sapere: la techne, l’episteme e nella sommità e per ultima la philosophia; il Dio infine supererebbe il sapere umano, a lui perter- rebbe la sophia, negata all’uomo4. Si delinea così nell’orizzonte di una

conoscenza impostata “per gradi” un’articolazione di gradi, una pira- mide; i livelli superiori presuppongono quelli inferiori: e nel contempo l’aumento di grado si accompagna con un restringimento dell’aspetto vitale delle nature. E troviamo un’analoga impostazione graduale anche nella Monadologia di Leibniz; le “monadi”, le sostanze semplici, le re- altà ultime, sono perlopiù monadi “dormienti”, hanno “perceptions” e “appétitions”, rappresentazioni e impulsi, ma nessuna rappresentazione del loro rappresentare, gli animali hanno già la memoria, e l’uomo è la monade che ha autocoscienza e conoscenza di Dio. Anche se Leibniz elabora significative differenze tra sasso, animale e uomo, tuttavia que- ste differenze rimangono di principio all’interno di un sapere impostato in modo graduale. Ma la questione è proprio questa, se animale, uomo e Dio sono distinti per un grado del loro sapere – o se alla fine il sapere è completamente di diverso tipo. La percezione sensibile che un uomo ha di una rosa profumata, è della stessa natura di quella di un cane? Nella ricchezza delle sfumature l’olfatto umano non può competere con il più sofisticato senso del cane, ma non risiede mai nella percezione sensibile dell’animale l’attribuzione dell’essere; esso non dice mai che ciò che è odorato “è”. In ogni percepire l’umano attraverso i sensi opera già da

sempre una specifica comprensione dell’esser-ci e dell’esser-dato di ciò che viene percepito sensibilmente. Non possiamo estrapolare astratta- mente la sensibilità dell’uomo dalla sua comprensione dell’essere, in modo che poi rimarrebbe un’aisthesis che l’animale e l’uomo avrebbero in comune. Piuttosto la sensibilità di entrambe le nature è condiziona- ta e determinata in modo diverso dalla loro fondamentale specificità. Tuttavia questi sono complessi problemi filosofici che noi dobbiamo lasciare da parte; io rimando solo al chiarimento della sensibilità nel- la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. Per noi qui è importante, che la spiegazione della relazione a sé a partire da una consapevolezza umana di grado superiore (rispetto all’animale) non è in nessun modo

Nel documento Introduzione alla pedagogia sistematica (pagine 64-76)