Nell'approfondire l'osservazione dei fenomeni sociali, agli sforzi intesi a delineare un quadro del disagio contemporaneo partecipa l'opinione della discrezione etnologica. Tráttasi, nello specifico, di una cifra particolare dell'ordine dell'osservazione, nonché di una timbrica complementare che, avvalendosi ad esempio dei riporti del reportage, distribuisce rotocalchi su fenomeni e dimensioni del reale.
Questa «poetica» è, altresì, metodo di riflessione che permette agli individui di ricondurre all’alveo del proprio interesse tempo e spazio contemporanei, secondo il metro di un non traslitterato realismo.
Pur ammettendo le non infrequenti concessioni al gusto per la divagazione, i suddetti tratti d'ispirazione calibrano, in parte, la conformazione delle riflessioni di Marc Augé, in fatto di realtà sociale e di diffrazione del senso dell'identità tra i paradossi strutturali del nonluogo e la crisi discorsiva della nozione di 'futuro'.
Dal solco dell'esperienza di antropologo africanista, Marc Augé mutua il modo di un'etnografia che si fa ravvicinata, tanto nello scandaglio della ricezione percettiva dello spazio-tempo precipui ed attuali, quanto nell'occasione dell'inserto breve del racconto etnografico, volto a rendicontare testimonianza circa l'esistenza giornaliera di «nuove categorie» di ricchi e di poveri.
Con formula breve, si potrebbe dire che, con ciò, si sta parlando di quei «vagabondi di lusso», noti anche con la sigla SDS (Senza Domicilio Stabile), e che l'espediente letterario di un 'diario dei giorni' pare attagliato allo scopo del registrare, ad esempio, le tracce esistenziali di quei tanti funzionari di medio livello, il cui reddito, però, è insufficiente a coprire il costo della Fissa Dimora. Da ciò discende, come ovvia conseguenza, il
volgersi dell'attenzione a queste nuove categorie di «erranti», che abitano in alloggi temporanei, spesso avvalendosi di quel beneplacito delle pubbliche assistenze che, secondo il senso dell'emergenza, diventa, ad un tempo, «asso nella manica» e stabile orizzonte di referenza.
Adottando la figurazione fittizia di una soggettività individuale posta ad osservazione delle quotidiane prassi itineranti di certi poveri del nostro tempo attraverso i paesaggi urbani e gli interstizi dei consessi civili, Marc Augé, nel Diario di un senza fissa dimora36, inquadra la soggettiva di un erratico itinerario individuale entro la cornice dell'etnofiction, di modo che, in virtù di cotale accorgimento narrativo, l'evocazione di una realtà sociale attraverso una singola ed individuale soggettività non assurga alla complessità della ragione romanzesca, ma si contenti, piuttosto, di assiomi più semplici, eleggendo una «puntata» a paradigma descrittivo di una biografia circostanziata e «lasciando al lettore il compito d'immaginare la totalità sociale che essa esprime37».
In tal maniera, attraverso la forma breve dell'etnofiction, la conoscenza di una situazione indotta da un fenomeno generale può farsi strada nella coscienza privata del lettore, riportando l'esito tanto di una traduzione sociologica dei dati di realtà in una dinamica preferenziale dei fenomeni del sociale, quanto di un personale labor ricostruttivo che, muovendo dalla finzione letteraria dell'autobiografia di «un senza fissa dimora», invera anche la vicenda biografica del lettore e la trascrive secondo il lemma sociologico della povertà.
Ed è sulla base di una tale impostazione che, per dirla con Lévi- Strauss, ammettendo l'improrogabile datità di un «fatto sociale totale» a cui i singoli fenomeni afferiscono per ordine di discendenza, Augé antropologo,
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Marc Augé, Journal d'un SDF. Ethnofiction, Éditions du Seuil, 2011, Collection La Librairie du XXI' siècle, dirigée par Maurice Olender (Trad. it.: Diario di un senza fissa dimora, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011
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mobilitando specialmente i concetti di luogo e di nonluogo, ha mostrato, nel tono espositivo del passo narrativo, il nesso a cagion del quale è accaduto che un singolo individuo sia divenuto testimone e simbolo dell'umore totale di un dato ambiente spazio-temporale.
Sulla base di quanto detto, entrando più nel dettaglio, si annota che protagonista dell'etnofiction di Augé è un ispettore del Fisco gravato da un assegno di mantenimento imprecisamente indicizzato.
Cosicché, il Diario di un senza fissa dimora accenna al «modo volubile di parlare dell'antiquario38», alla 'sincerità' calcolatamente utile del rigattiere ed alle sue pervertite prudenze.
Proseguendo, nel Diario si parla di carta di giornale, imballatore e compagnia di assicurazione e, così facendo, si rende testimonianza di un passaggio di residenza e della conseguente composizione di un «riassetto» abitativo. (A questo proposito, sia detto che questo mutamento di dimora, - dalla casa alla gioia sorda dell'abitare in automobile, - risulta dai modi del narrare, tanto vistoso quanto inavvertito e, altresì, esso risulta compiuto grado a grado e con la precipua cura per i «segni esteriori della rispettabilità39» che lo spirito di osservazione, proprio delle situazioni «di margine», prescrive come accorgimento opportuno).
In conseguenza di ciò, sulla scia di evocazioni di tal risma, il lettore del libretto in questione si astrae dai 'quadri sociali totali' e, per questa via, si trova coinvolto nella fabula del testo.
Per ciò stesso ne consegue che il lettore vada allineandosi alle spigolature narrative della vita del personaggio protagonista dell'etnofiction: una vita infusa, distillata e, si vorrebbe dire, guadagnata nell'ordine dei secondi. Si pensi, sotto questo rispetto, alla radio ed al giornale, al caffè assaporato lentamente e alla «strepitosa morbidezza del
38Augé, op. cit., p.16 39
croissant40».
E', infatti, dall'ordito dei dettagli, tra cabine telefoniche e circonvallazioni che fungono da frontiera e, ad un tempo, da zona franca e permissiva, che emergono, di poi, i riconoscibili tratti della no man's land.
Per questa via ciò che si registra è, in altre parole, la perdita del luogo come parametro fondante per il senso dell'identità dell'io. Cotale evenienza è confermata, tra l'altro, da quella certa constatazione, - tratta dal dettato narrativo -, che assimila la perdita del luogo alla «perdita di un altro, dell'ultimo altro, del fantasma che ti accoglie a casa quando rientri da solo41».
Con effetto di rimbalzo, da ciò si deduce che la perdita del luogo, nella misura in cui comporta un'esperienza di vuoto e di desertificazione, è anche sineddoche di solitudine.
A proposito di solitudine, si aggiunga che le voci dell'attualità ed i gerghi della politica vengono recepiti come elementi datati da parte degli occupanti delle interlinee dello spazio significante, con la conseguenza che alla perdita dell'identità territoriale si interseca anche un orientamento non chiaro circa i cardini e i «sottoprodotti» dell'attualità.
Ciononostante, è un dato di fatto che, per i «senza fissa dimora», viene mobilitata la risorsa di una specie di investitura identitaria, vicaria e supplente. In base a ciò risulta risulta che assurge a valore un'identità 'impersonale' che, proprio in quanto tale, è avvezza a ravvisare ogni luogo come familiare.
E' dunque in ragione di ciò se, nella fiction di Augé, «l'errante» personaggio riconosce di sentirsi come un pesce nell'acqua in tutta un'area di Parigi, o anche riconosce, assai più significativamente, che accendere la radio è, per lui, sufficiente per essere d'un tratto a casa, e che «la notte è
40Augé, op. cit., p.35 41
tutta sua42».
Per farla breve, quanto detto finora evoca, in modo chiaro, la circostanza dell'assunzione di un'identità clandestina e sottaciuta, formata anche da menzogne e portamento exlege, nonché da tutto un kit di 'strategie' di cui fanno parte, ad esempio, l'«offensiva del sorriso43» e lo sforzo del «costruirsi ricordi nuovi44», quasi come se questo fattore menzionato per ultimo fosse un pro forma per l'incessante riscattarsi.
Ad ogni modo, pur non trascurando il carattere di fictio narrativa, c'è da dire che l'uscita di scena del personaggio del breve 'racconto' di Marc Augé resta significativa, soprattutto in considerazione della sua ipotizzabile ricaduta impressionistica sul lettore.
Questo significa che, specialmente sulla scorta delle impressioni di lettura, la conclusione del Diario lascia il protagonista, - e, per certi versi, anche i lettori,- senza la 'nostalgia del futuro'.
Risulta, pertanto, consequenziale che la scrittura del personaggio del Diario di Augé si concluda su questa tinta e con il suggerimento, fuori e dentro la fiction, che un'opzione, -qualunque essa sia-, rappresenti pur sempre un patto di misura col futuro.
Proprio in pertinenza a quest'ordine di pensieri si veda l'«eroe» dell'etnofiction andare in direzione della Senna, nelle ultime battute del racconto di cui il «nostro» personaggio è, ad un tempo, oggetto dell'osservazione e soggetto dell'azione.
A questo proposito, in aggiunta, si potrebbe porre ad ipotesi che la determinazione di luogo 'verso la Senna', - per quanto essa sia indubitabilmente vaga e di congegno velatamente 'poetico', - apra il campo, nello stesso tempo, all'idea che le diadi felicità/infelicità ed agio/disagio possano, in fondo, mutare l'intensità e le proporzioni distributive delle
42Augé, op. cit., p.110 43Augé, op. cit., p. 61 44
antitesi anche in ragione e corelazione del luogo.
L'interrogazione circa i suddetti nessi costituisce, per l'appunto, la tematica dibattuta da Marc Augé, in una Lectio magistralis del 2011, dal titolo La felicità ha un luogo?, di cui ho avuto notizia per il tramite di un libretto45, dalla forma di un cahier tascabile, che reca in sé le pecche scettiche ed il merito divulgativo delle stampe fruibili e corsive.
Nel summenzionato articolo, Augé constata che le condizioni affinché uno spazio possa essere detto lieu non paiono attagliarsi al fine di pervenire alla derivazione che quello spazio, che già è stato detto luogo, coincida anche, nello specifico, con l'essere luogo di felicità.
(A tal riguardo, tenendo ben presente il termine sottinteso che è rappresentato dalla classe 'inversa' del nonluogo, è opportuno precisare che le condizioni ritenute fondative della concezione di luogo sono rintracciabili, invece, a giudizio di Marc Augé, nelle «relazioni sociali, nei simboli che uniscono gli individui e nella storia che è loro comune46». Ed è con il conformare i connotati identitari di una continuità comunitaria che cotali tratti di raccordo e di comunione si inscrivono nello spazio e lo rendono contiguo ed unitariamente coerente, sebbene sotto altri rispetti, essi non possono in alcun modo implicare garanzia per lo stato della felicità e dei suoi contrapposti, dal momento che la misurazione di quest'ultimo parametro spetta, infatti, agli individui ed alle loro complesse soggettività).
E' certo, ad ogni modo, che la «globalizzazione» ripone scarso credito nella possibilità della «felicità sedentaria».
Al contrario, essa tende ad immortalare la felicità nelle immagini di istanti totalmente intensi, - si potrebbe dire, quindi, istanti «di piena durata», - rifranti da spettri e moduli dell'impressione pubblicitaria, evocanti un «altrove» impervio ma, al tempo stesso, prossimo e
45Si veda, a questo proposito, Marc Augé, La felicità ha un luogo?, Granelli/ Filosofi lungo l'Oglio,
Masetti Rodella Editori, luglio 2011
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tecnologicamente 'a portata di mano'.
Ed è per scandagliare la forma della felicità secondo il paradigma dell'immagine, richiamandosi al 'domestico abitare' e a quel valore di vita intima e segreta che in esso è implicato, che Augé annota che «le immagini della sedentarietà felice sono tradizionalmente ideate per scongiurare la paura della solitudine e della morte47».
Secondo quest'ottica, rimanendo nel magistero dell'immagine e sulla scorta di un'intuizione sensibilmente condivisa, pare pianamente ammissibile che, molto spesso, per quanto attiene le 'rappresentazioni', la fotografia riporti dei cliches.
Più significativamente, - invalidando l'interpretazione, corrente ma affrettata, che presenta il luogo come la quintessenza del senso sociale ed il nonluogo come la negazione dell'identità, - Marc Augé lascia intendere che, molto spesso, ad insignire lo spazio con i distintivi e le marche del luogo, sono proprio le molteplici ed individuali inchieste48sulla felicità.
Ad ogni buon conto, rinnovando validità al concetto di «luogo antropologico» secondo l'accezione di «spazio in cui le inscrizioni del legame sociale e della storia collettivamente condivisa risultano leggibili», è bene precisare che, nella realtà, luoghi e nonluoghi, nel senso assoluto del termine, non esistono.
Se ne deduce che, al di fuori di un livello empirico, - livello nel quale i cosiddetti nonluoghi sono caratterizzati dall'effetto di un'accentuata imprimitura dei sigilli del passaggio e dell'effimero, - la discriminazione tra luogo e nonluogo acquista, invece, maggiore enfasi teorica con l'essere metro di misura della qualità della socialità e delle quote di simbolizzazione inscritte in un dato spazio.
47
Augè, La felicità ha un luogo?, op. cit., p. 15
48Il corsivo del testo è qui dovuto all'uso che si fa del termine «inchiesta», con allusione al mondo del
romanzo cavalleresco in quanto tipico nonluogo ma, ciononostante, motivato, nell'imagery romanzesca, dalle ragioni di una ricerca
Ciò detto, nella prefazione a Nonluoghi49, la riflessione di Marc Augé muove dal constatare l'imponente processo di urbanizzazione che ha coinvolto l'intero mondo.
A tal riguardo, stilando nella mente un ideale elenco delle possibili conseguenze di codesta mondializzazione del 'paradigma urbano', si potrebbe pervenire alla deduzione che le frontiere dell'esclusione risultino cancellate da un mondo così fittamente urbanizzato e deterritorializzato, in virtù del fatto che, in parte, tutto circola e si trova dappertutto.
Ciononostante, alla suddetta 'petizione di principio' pare doveroso applicare dei correttivi, consistenti, ad esempio, nel riconoscere che la globalità attuale, capillarizzando il cosiddetto «mercato liberale» e le tecnologie della comunicazione nella concretezza della rete, produce senz'altro effetti di omogeneizzazione, ma riporta anche rimarchevoli fenomeni di esclusione e discontinuità nell'ordine della realtà.
In conseguenza di ciò, anche sulla scorta di una coscienza planetaria, tanto apprensiva quanto socialmente infelice a cagione dell'ampliarsi quotidiano della forbice tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, Marc Augé paventa un futuro orizzonte storico interamente preso e compreso dai progetti espansionistici di un'«aristocrazia» globale, contrapposta al polo ingente degli «esclusi dal consumo».
Proseguendo con queste sommarie note di attenzione, si appunta che, nel tempo corrente della globalizzazione e dell'interesse per lo spazio letteralmente extraterrestre, l'antropologia si afferma sempre più come «antropologia vicina50», anche in ragione di quella convergenza tra globale e locale, alla luce della quale il locale, in variazione di scala, ricalca il globale.
(Per chiarezza di discorso, a questo punto, si specifica entro parentesi
49Cfr.: Marc Augé, Non-lieux, Editions du Seuil, 1992 (Trad. it.: Nonluoghi. Introduzione a una
antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009)
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che l'antropologia è vicina anche se, per definizione, il suo oggetto intellettuale è l''altro'. Alla luce di quanto appena detto, si possono comprendere le ragioni per le quali un'«antropologia della contemporaneità vicina» risulti gravata da preoccupazioni di metodo, per quello che concerne, soprattutto, il cosiddetto «preliminare dell'oggetto51»: ci si chiede, cioè, se gli aspetti della vita contemporanea siano legittimamente passibili di un'indagine antropologica che risulti interessante, tanto empiricamente quanto intellettualmente.
A questo proposito, pur non escludendo l' ormai avvenuto smantellamento dei centri dell'effettivo interesse, testimoniato da osservatori contemporanei per gli enunciati del mondo contemporaneo, Marc Augé preserva la validità dello statuto dell'indagine antropologica, sostenendo che la continuità di una disciplina non si commisura a quella dei suoi oggetti e che, in aggiunta, l'antropologia è per sua stessa natura una disciplina non cumulativa anche in virtù dello «slittamento» delle problematiche e della scomposizione dell'interesse).
Per queste vie Augé approda a riconoscere legittimità ad un''antropologia della contemporaneità', tendendo la provocazione che l'etnocentrismo delle nostre griglie consuetudinarie, nonché la sempre più ricorrente interpretazione dei riferimenti spazio-temporali in senso individualizzante, siano anche referto di un'etnologia della solitudine inestricabilmente legata a quelle tre 'figurazioni dell'eccesso' – eccesso di tempo, eccesso di spazio, eccesso di «io» - per mezzo delle quali Augé declina la propria concezione di surmodernità.
A tal riguardo, attenendosi, in senso lato, alla supposta etnologia della solitudine, si può osservare che, per converso, certi dispositivi spaziali della contemporaneità, decrittabili come luoghi, paiono essere centrati su istanze relazionali, marche identitarie e derivazioni storiche.
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Da ciò consegue la conferma dei rapporti di coesistenza e di dipendenze funzionali tra gli elementi implicati nella costituzione stessa della nozione di luogo.
Per questa via, si potrebbe quindi sostenere che il «marcatore» della solitudine emerga come debolmente indicizzato, tanto dai monumenti, non di rado impermanenti, dello spazio architettonico contemporaneo, quanto dall'organizzazione di itinerari e dai «filamenti» di continuità di un senso spaziale che, d'altro canto, è anche principio d'intelligibilità dell'appartenenza antropologica e di un'esperienza di relazione col mondo.
In altre parole, ciò corrisponde al porre ad ipotesi che la solitudine, - in quanto evenienza piuttosto incongrua rispetto alla natura affermativamente identitaria, relazionale e storica propria dei luoghi, - sia, invece, congenita al nonluogo. Abbozzando a questo punto una sparuta annotazione descrittiva, va detto che i valori esistenziali ed i pregi relazionali dello 'spazio antropologico' risultano erosi all'interno del nonluogo; quest'ultimo è, infatti, uno 'stato' del passaggio, animato dalla mobilità. Nel nonluogo accade, non di rado, che «lo spettatore in posizione di spettatore sia lo spettacolo in se stesso52», il che significa, in breve, esperire una forma di solitudine entro una «presa di posizione».
In definitiva, si potrebbe quindi dire che, in quest'ultima annotazione risiede una delle chiavi di volta dell'argomento, nonché lo 'stetoscopio' col quale auscultare la prassi solitaria di distrazioni, rivolgimenti e «delinquenze» degli sguardi degli «uomini medi», nei luoghi del senso clandestino.
Per di più, anche la natura stessa della relazione che ciascun utente ingaggia con testi e persone «morali» ed istituzionali dei nonluoghi fa pensare, in modo diretto, ad una particolare forma di contrattualità solitaria, fondata, - e ciò pare un patente paradosso, - sui crismi
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convenzionali ed ufficiali dell'identità individuale, nonché sull'inesausta attestazione d'innocenza da parte dei frequentatori di cotali spazi di sospensione dell'abitudine e del parametro territoriale.
Di poi, il fatto che le persone sperimentino l'incontro con se stessi e il mordente del «presente perpetuo» proprio nella cessazione delle determinazioni costituisce, per così dire, un curioso effetto di «seconda vista» o di diffrazione dell'immagine del sé che, in qualche misura, rimanda alle impreviste sensazioni che i soggetti possono esperire allorquando il tempo, tra palinsesti dell'immagine e repertori del distacco, urge più ancora dello spazio.
Quanto al tempo, si può dire che, stando alle battute concordate del pensiero teorico, ciascuna personale parabola esistenziale inscrive le ragioni della propria absoluzione nel continuum storico e lineare.
Di conseguenza, risulta evidente che cotale quadrante dell'afferenza è l'ambito in cui poter relativizzare tanto la portata delle singole esistenze individuali, quanto l'opposizione tra vita e morte.
Prescindendo però da siffatti rudimenti grossolanamente intuitivi, è ammissibile senza difficoltà rilevare che il controllo intellettuale e simbolico del tempo ad opera del «gruppo» umano riveste di senso e porta ad rationem ciò che, non possedendo di per sé perimetro e proprietà materiale, ha prevalente 'vita fisica' nell'apprensione psichicamente dibattuta e dialettizzata, sia nel «mare» degli eventi, sia nelle evenemenziali storiografie dell'inazione.
Proseguendo la riflessione sulla categoria del tempo, essa è, per dirla con Kant, «forma a priori della sensibilità» che, però, è anche patente dato simbolico, il cui dominio sporge, ad esempio, dalla padronanza del calendario e dalle plurime grammatiche del controllo religioso, aspetto, questo, che, per altro, sottintende un accenno all'aspetto dell'organizzazione rituale del tempo, in nesso funzionale alla necessità di compendio e
rappresentazione del «tempo sociale»).
A questo punto, il discorso è volto, con passo sommario, a riportare il personale punto di vista di Marc Augé53, lasciandosi fin da ora alle spalle, non soltanto le ispezioni dei precedenti capoversi, ma anche qualsivoglia premessa di acume interpretativo.
Si dirà, così, che Augé dettaglia l'argomento di un'«etnologia della