INDICE
Introduzione p.3
Primo Capitolo: Storia medievale e storia romantica dell'io
solitario p.11
1. Chiostro di solitudine nel Medioevo p.11
2. Abbozzo di una nota di raccordo tra i due tempi p.25 3. Una particolarità del costume: topiche solitudini nell'amorale
Romanticismo p.28
4. La scrittura testuale di Sade: sbugiardata solitudine e comunicazione feticcio, tra filosofia dell'egoismo integrale,
presenza degli altri e possibilità del nulla p.35 5. La soggettiva dell'antropocentrismo negativo: il Werther di
Goethe p.40
Secondo Capitolo: Cenni di solitudine secondo la sociologia p.50
1. Cognizioni e discernimenti attorno alla fisiologia del consumo p.50 2.1 Critica delle apparenze e antropologia 'negativa' della
società: Minima moralia di Theodor W. Adorno p.56 2.2 Gli accordi minori di Theodor Adorno opinionista televisivo p.60 2.3 Adorno laterale ed il «second'ordine» degli oggetti: uso
domestico e funzione di compagnia dei media culturali p.63 3. I caratteri di Riesman e l'alienazione indiretta dei
4. Cenni di estetica dell'apprensione narcisistica e di cultura
terapeutica: Lasch p.82
Terzo Capitolo: Solitudine nello spazio globale e aree declassate
di significazione nella riflessione di Zygmunt Bauman e di
Marc Augé p.93
1. Spunti di teoria critica sulla società dei consumi e sue solitudini
derivative secondo il pensiero di Zygmunt Bauman p.93 2. Una versione d'appendice: solitudine e compassione secondo
Luigi Zoja p.114
3. Cosmologie della surmodernità nell'etnografia vicina di Marc
Augé p.119
Conclusione p.133
Introduzione
Questo lavoro di tesi viene concepito da un atto di ironia, da un'abitudine di dissimulazione tanto necessaria quanto allignante, attraverso la quale l'ironia va emendando la sua precipuità di figura retorica dell'impostura, dell'ambiguazione e della 'finta ignoranza', assieme alla sua struttura discorsiva, suasoriamente scaltra e incongrua per la sproporzione della 'pronunciatio' a danno dell''interlocutio'.
Per questa via, da postura, modo e strumento prescrittivo della voga dialettica, l'ironia diventa fibra della materia dell'esperienza, tessuto connettivo nella consumazione dei giorni, per l'appello di un 'tema' che, per quanto omertato, si raduna al centro e nella periferia della cognizione, per diventare assioma e domanda esistenziale - indirizzo di via o resoconto di storia personale - oltre che 'figura del pensiero' , per dirla secondo quelle strutture di significato care, per esempio, all'auctoritas semiologica di Umberto Eco.
A validare questa designazione dell'ironia come 'figura del pensiero', interviene già il tribunale della comune opinione, per il quale l'ironia è spesso l'assunzione di una posizione scettica a coronamento di un travaglio esistenziale.
Basti pensare, a tal proposito, - e con questo snodo del discorso si passa a enunciare quello che vuole essere l'oggetto della tesi - che capita spesso che una persona, pensando, si trovi sola già a partire dalla constatazione, che può essere molto sommaria, sulla mutilazione che talune 'parole ricorrenti' , come 'lapidario' o 'logoro' , operano alle giunture del discorso e al senso dei fatti, con il loro portato di genericità, ai danni di una
dettagliazione implosa sempre più nella stretta dei settori1.
Già nella corrività di questo costume del discorso, può accadere che qualcuno si senta solo nella misura in cui quel che ci fa essere individui risulti confuso nelle topiche della settorialità e misconosciuto in questo rampante 'presente assoluto', che molto profondamente connota l'esperienza di gestazione e gestione del tempo delle persone a questo punto della storia. Di conseguenza, sia che si ammanti di sarcasmo, come accade nella cinica performativa del gesto attoriale, sia che prorompa in livori, tic e risentimenti, in quella verità di vita che non passa dal racconto né dalla rappresentazione, la solitudine resta esito, segnale e giustificazione di dolore.
In virtù della risultanza in questione, parte di questo lavoro di tesi vuole partire dall'assunto che le opere dell'ingegno umano sortiscano, quasi 'maieuticamente', dal bisogno di espressione di una tensione.
Tenendo sullo sfondo questo generale punto di vista istituito a postulato, si vorrebbero un poco prendere ad oggetto le varie facce delle figure della solitudine, per come, ad esempio, la solitudine si è diffratta in contenuto retorico-letterario, con l'essere tematicamente il soggiacente filo rosso di ponderose e impegnative narrazioni, dalle saghe che dipanano liturgici destini corali2, alle inclinazioni del gusto contemporaneo, con la sua artiglieria pesante di epicizzati paradisi e inferni 'artificiali' , isolatamente personali, o con i suoi racconti di varie 'fami chimiche' e sintomatologie
1Rispetto alle 'parole ricorrenti', che esse siano fondative di un senso di unità, - unità spirituale di temi e di
disposizioni critiche, o unità di suasorie retoriche - è una specie di dato di fatto che, se da un lato avvantaggia indubitabilmente il discorso, dall'altro lato, però, non fonda certo una struttura di carattere per l'io, peregrino per il suo non potersi riconoscere e ricondurre a individualità, e affaccendato nelle conseguenze delle ricorrenze.
2Il riferimento è, sotto questo rispetto, all'ordito destinale e corale di Cent'anni di solitudine, romanzo di
Gabriel Garcia Marquez, citato, in questa introduzione, per la suggestione del titolo e per il ricordo che se ne ha, come di una ponderosa narrazione del destino di una famiglia; un ambito, dunque, di per sé comunitario che, però, nella ingiunzione titolare, appare intricato nello scandalo di una solitudine perpetuante per cento anni. Sia detto, pertanto, che questo rimando testuale ricalca una suggestione di memoria, un emotivizzato ricordo. Ciò lo priva, a questa altezza del discorso, di ogni accuratezza argomentativa. Esso qui appare come pura traccia mnestica, con tutto il suo portato bifronte di sapienza, secondo le leggi 'alogiche' dell'inconcio, e di insipienza, secondo qualsivoglia criterio di verifica della pertinenza di questa memoria testuale ai fini di un nostro discorso sulla solitudine.
della clinica dell'anima e del corpo3.
Ad ogni modo, al di là di queste vaghe premesse «diagnostiche», ci appare come dato di fatto che l'inclinazione dell'espressione artistica oggi impieghi spesso le sue parole finali nella rappresentazione degli appetiti di soggetti, o gruppi di soggetti,sempre più incapaci di scegliere gli appetiti, a causa dell'eccesso delle offerte, im-poste da stimolazioni che corrono in mappatissime vie e viaggi d'etere, configurando l'abnormità, costitutivamente strutturale, di un mercato a numero non chiuso di visibili e invisibili prodotti e promesse per soggetti 'appetenti' , che vivono il tempo come 'ideologia' piuttosto che come cantiere di progetto e progressività pratica.
Quanto ho appena detto in questa sezione introduttiva, a proposito di contemporaneità, muove da una considerazione su Marc Augé e dei suoi punti di vista rispetto allo spazio e al tempo correnti e alle suture di 'iper realtà' , per il tentativo di far fronte a quelle cesure e fenditure del tempo e dei luoghi che occupiamo, nella loro qualità di intervalli di vuoto, di negazione e di brachilogica angoscia, nello spazio interstiziale tra una patria di significazione e l'altra.
Le partizioni del primo capitolo, a carattere introduttivo, cercano di prendere a oggetto la solitudine per come essa si è manifestata nei due momenti di più pregnante espressione dell'io solitario, il Medioevo e il Romanticismo della storia delle idee, estrinsecandosi in 'figure' che il giudizio della posterità ha reso, di volta in volta, quasi emblemi di una marca esistenziale che, per quanto interiore, proviene sempre da una problematicità nella relazione con quel mondo 'storico' dove i soggetti sono
3Il rimando è a David Foster Wallace e alle sue peripezie sulla chimica dell'anima, delle sostanze e di un
corpo colto nelle varie escatologie della sua estremizzata risposta e reattività. Un rimando, questo, che vuole ricordare l'imbarazzante complicazione esistenziale di tanti abitatori del benessere, e la segretezza, privata, corrucciata e dimostrativamente narcisistica, delle morti per l'eccesso di stimolo e per la solitudine abulica, nello spettacolo corrente di un'aleatoria opulenza che, consumando velocemente tutto, pecca di abitudine e ripetitività.
più o meno soli, anche in considerazione di quanto essi si riconoscano in un mondo di 'pari' , in una comunanza, 'alla pari' , con gli altri.
Intendendo, quindi, procedere nel senso di un'osservazione delle figure di solitudine nel susseguirsi del tempo, un cenno viene rivolto, quasi con ictus tautologico, al monachesimo di tipo eremitico nel Medioevo4, col suo radicamento in seno agli ordini religiosi della tradizione del Cristianesimo d'occidente, sulla scorta di note di costume e suggestioni storiche rintracciate in scritti di saggistica.
Il tema della solitudine monastica vuole essere letto in stretta attinenza alla diade di amore e Dio, intendendo l'amore come ingrediente sia del sentimento di solitudine sia del sentimento di Dio.
Ne consegue, indi, la messa a bando di ruminazioni solipsistiche, in quanto l'amore è sempre implicativo di relazione, anche quando ha il suo scopo in un dialogo invisibile con Dio. Questa tensione si conforma, dunque, come 'amore per Dio' , che profonde in 'amore in Dio' , con tinta mistica di esperienza spirituale.
Dopo la compatta tempera del concetto di solitudine nel Medioevo, si prosegue, sul versante del corso storico, alla 'luce' della cosiddetta 'modernità'.
Si vuole dare per inteso, sotto questo rispetto, che si parla di 'modernità' sulla scorta non soltanto degli indici scolastici di periodizzazione, ma soprattutto a cagione di un mutamento generale del gusto, seguendo gli avvicendamenti di un'ininterrotta palingenesi che, ad un Medioevo sorto dalla cenere dell'Antichità e del mondo classico, ha fatto seguire una
4Questa periodizzazione calca da vicino quella storia e critica delle idee che tanto sente il bisogno di dare
un nome a tendenze e parti della storia, secondo una voga 'ideologica' che, in quanto tale, riporta a griglie e denominazioni quelli che, invece, sono più che altro i corsi della storia, liberi e progressivi per gemmazione. Si tratta, pertanto, di una periodizzazione che non occulta la disgiunzione della vista che un simile orientamento periodizzante e nomenclatorio comporta; pur tuttavia, essa è qui adottata a motivo della 'comodità' di una prima esposizione, per essere poi, nel prosieguo del lavoro, se non contraddetta, per lo meno affiancata dal giudizio storico di un Le Goff che, in luogo di partizioni periodizzanti, vede un unico e lungo Medioevo, dall'Antichità fino alla Rivoluzione industriale dell'Ottocento.
rinascita diramatasi dalle ultime sopravvivenze di basso Medioevo.
Risentendo delle influenti idee dell'Umanesimo, col suo elogio della dignità umana, fondata sul potere efficace dell'azione individuale, - si rimanda, a tal proposito, a De hominis dignitate di Pico della Mirandola - la solitudine in tempo di 'rinascita' pare appartarsi e appiattirsi sullo sfondo, agendo magari sottotraccia alla fioritura di quella trattatistica trionfale che ha sostituito lo scandaglio di colpe e colpevolezza, con il valore, non moralmente aggravato, della felicità come meta terrena, e con la vivacità retorica della contrappuntistica del genere dialogico, con tutto il suo portato di collaboratività «civile», al fine di far passare dall'uno agli altri un discorso comune.
Per ciò stesso, la solitudine recede dalla scaltra “buona educazione” dei trattati e si eclissa nella struttura del dialogo, a prescindere, come è ovvio, dalla 'natura' dei parlanti.
Sia detto per inciso, a questo proposito, che questa assenza di solitudine nei dialoghi è semplicemente un effettismo retorico, e non la testimonianza di un effettivo 'legame' tra i parlanti del discorso.
Trattandosi di testi, si dà ovviamente per scontata l'inferenza della finzione, più o meno ingente, che, però, a ogni modo non soffoca la voce dell'autentico, il cui registro timbrico parla nei testi tra una diffrazione retorica, una furba omissione e lunghe e sincere dimenticanze o ignoranze, per cui, ad esempio, Petrarca, nel suo Secretum, pare non essere solo, anche se Agostino altri non è che la controparte e il contrappeso critico della stessa mente petrarchesca, una specie di trasporto, al tono morale, della voce sua stessa.
Questo esempio, appena sinteticamente menzionato, restituisce dunque l'evidenza che le persone di un dialogo sono spesso diffrazioni di aspetti di un unico soggetto, franti nelle varie sfere psichiche.
non esternata - per ciò stesso, dunque, si potrebbe dire assente - nelle forme sperimentalmente 'aperte' della poetica barocca.
Ipertrofizzando il reale, secondo quel 'principio della meraviglia' che avvantaggia l'aggravamento semantico e la traduzione delle cose in simboli, la poetica barocca si precisa in una disciplinatissima dettagliazione degli aspetti del reale.
Ciò sfocia nella disposizione elencatoria dell'enciclopedia e del collezionismo, dalla cui puntigliosa perizia la solitudine, in quanto tema e umore del discorso, è senza dubbio bandita, per quanto la sicumera del compilatore di elenchi o del collezionista abbia la sua de-ironizzata zona d'ombra nel sospetto – che è invero intima convinzione – che l'enciclopedia stabilizzi in definizione l'inquietudine delle cose instabili.
Quest'ultimo è un aspetto che, forse, potrebbe far avvicinare la spregiudicata fantasia barocca al sentimento di solitudine, o anche all'approssimarsi (incipiente) del decadere del senso dell'autenticità, che si rifrange nella molteplicità delle espressioni barocche e dei barocchi, prorompendo nella stentorea difficoltà manieristica, dopo che la serietà umanistica si è flessa nel segno ipertrofico e nell'esperimento raro.
Ad ogni modo, resta il fatto che, in tempo di Manierismo e Barocco, la solitudine non pare un dato predominante sulla scena esposta.
Continuando ad osservare, per sommi capi, le facce della solitudine nel tempo, si può dire che, nel clima di propaganda volta alla diffusione delle idee illuministiche di coraggio nell'uso della ragione critica, nel Settecento essa prende prevalentemente il carattere francese, nel senso che, conformandosi alla 'vita concreta', tralasciando dunque per un istante trascrizioni letterarie, romanzesche e retoriche, la solitudine del Settecento s'insedia di nascosto nei privati appartamenti nobiliari, attraverso i protocolli delle rituali giornate degli aristocratici di corte, con la loro consumata abitudine a dissimulare il travaglio interiore in presenza d'altri.
Sia detto, sotto questo rispetto, che gli altri, di cui si circondano i nobili, sono i servitori.
Questa circostanza prelude, in prima istanza, all'accezione della solitudine come 'condizione' posta da una sensazione - o stato - di lontananza rispetto ai propri 'pari'. In seconda istanza, questo stato di cose parrebbe anticipare, in senso lato, uno degli iati più strutturalmente fondativi della cosiddetta 'società di massa' - che è la società a noi contemporanea - dove noi tutti siamo sempre soli, pur non rimanendo, almeno in potenza, mai isolati.
Sotto questo rispetto, sia detto, con piglio soltanto informativo, che sarebbe interessante desumere qualche ritratto di nobile solo, precipuamente dal 'remake' di costume e ambiente che suole fare l'arte cinematografica, quando si tratta di fissare l'umore di un'epoca e di un uomo tornando indietro nel tempo, per rendere al presente il servizio di restituire un'immagine condensata e 'iperrappresentativa' di varie 'inattualità'5.
Ancora, sempre per quel che riguarda il Settecento, altro riferimento noto è la ventura di solitudine di Robinson Crusoe, col conforto che il ricordo della cultura ha saputo arrecare a un diario giornaliero dello stento e del rimorso.
La scorribanda latamente storica nelle espressioni creative suscitate da solitudine prosegue, di poi, con l'Ottocento romantico e la strana solitudine - spesso dovuta a autoemarginazione - da parte di un soggetto con propensione ai temi dell'irrazionale, del sentimento e della fuga dalla realtà, in un anelito verso un infinito e un assoluto che, per quanto immanenti, si colgono meglio e di più nelle pieghe sentimentali dell'anima che sprofonda in se stessa.
Da qui, l'attenzione si volge a I dolori del giovane Werther, di Johann
5
Wolfang Goethe, un'opera che, quasi simbolicamente, precorre il clima del Romanticismo tedesco, pur attenuando quella dismisurata disposizione titanica che 'tipicizza' i personaggi romanzeschi, figli del Romanticismo tedesco, in eroi assoluti e dolenti, per i moti giornalieri della sentimentalità. Per contro, l''epistolario' di Werther insiste con la lirica e cronica confessione e analisi di una delusione, e su questo pedale si ferma, portandosi per tutta la durata dello scritto con questo timbro.
Queste linee generali, a sommaria dettagliazione, vogliono, sul piano cronologico, fermarsi qui, essendo il Novecento e la contemporaneità l'intenzione precipua a cui questo lavoro di tesi si vorrebbe volgere in maniera più distesa, con l'andare a mettere la solitudine in tante manifestazioni del tempo corrente.
Per questa via, la semplificazione analitica vorrebbe soltanto riconsegnare la solitudine alla cronaca dell'anima e della storia umana, emendandola dall’effettistica clinica dello spavento e dalle concettose degenerazioni, in senso psichiatrico, per il troppo disquisire, al fine di trasformare in tragedia dell'inerzia ciò che altro non è che uno dei colori di struttura dell'anima.
Primo Capitolo
Storia medievale e storia romantica dell'io solitario
1. Chiostro di solitudine nel Medioevo
Tra i ricordi scolastici di molte persone ve ne è senz'altro uno che inculca una definizione di Medioevo fondata unicamente sull'etimo della parola. Nel caso di «medioevo», l'etimologia è piana, certo non problematica, e centra subito il fuoco dell'apprendimento intuitivo, raccontando, anche nello stesso avvitamento di due parole in una, che 'medioevo' significa 'età di mezzo' .
Questa elementarissima nozione della nostra scolarizzazione appare qui con lo scopo di cavarmi d'impaccio, con un ricordo semplice, e poter indi dire che il titolo di questo capitolo gioca con la parafrasi di «medioevo», secondo senso letterale, modulando al plurale l'imprinting di significato di un’età del 'frattempo', un interim incidentale, storicamente 'evenemenziale', interessante e, soprattutto, tanto lungo e protratto nel suo preparare l'approdo alla modernità, al punto da rendere pertinenti talune visioni, si potrebbe dire, di antropologia storica.
Il riferimento va, sotto questo rispetto, alla concezione di 'lungo Medioevo' di Jacques Le Goff, il cui libro sull'immaginario medievale, compendiando la temperie del Medioevo secondo la dimensione dell'immaginario, riscatta quell'immagine di Medioevo smembrato e mutilo, «senza letteratura, senza arte, senza diritto, senza filosofia, senza teologia»1, che, a suo parere, viene fuori dai purismi di studi affatto sincronici e polivoci, ma apertamente monocronici, secondo una tradizione
1
di scuola che Le Goff additava come propria dell'orientamento degli studi universitari degli anni Ottanta del Novecento.
L'immaginario medievale di Jacques Le Goff, tenendosi lontano da concettosi dibattimenti, descrive un mondo medievale pieno di rappresentazione, rendendo, per questa via, testimonianza e merito alla fertilità dell'immaginazione poetica di uomini e di donne ben avvezzi a tenere in gestazione simulacri, phantasmata, simboli e altre meravigliose difficoltà, pur abitando le frazioni ordinarie di una quotidianità semplice.
Dalla lettura di Le Goff viene fuori una mossa temperie di immagini, stili iconografici, purismi edificanti, personaggi fondamentali, griglie ideologiche, tipi e temi che nessuna iper-specializzazione di accademia e analisi strutturale in senso storicizzante sarebbe, invero, in grado di comprendere. D'altro canto, questa pecca dell'organizzazione settoriale e puristica degli studi trova, ad ogni modo, un punto di rammento nel consegnare i viaggi dell'immaginazione medievale allo studio degli storici dell'immaginario, abili a trovare, nell'abitudine visionaria, tanto l'archetipo di radice ideologica, quanto l'autarchia della legge peregrina dell'immagine mentale, per quanto essi facciano, sempre a giudizio di Jacques le Goff, qualche concessione di troppo nel dare credito e seguito d'interpretazione a quei grandi archetipi psichici, che primariamente non sono altro che griglie ideologiche e mistificazioni comodamente elucubratorie.
Resta, comunque, e resiste a tendenziosità e sofisticazioni di scuola, il senso di un immaginario che è fenomeno collettivo, in quanto è, ad esempio, grande forza di riscossa nella Crociata dei cristiani dell'Occidente, motivati alle armi dall'immagine, anche disgiunta dal pensiero, di una Gerusalemme figurale. Non senza una certa dose di faciloneria e di ingenuità - si potrebbe trovare, in questa forza dell'immaginario collettivo, un primo elemento che va a intrufolarsi, con tutto il suo apparato ideologico, nell'isolamento più integrale e più mistico di quanti, al tempo,
erano vocati al silenzio e, quindi, poco suscettibili nei confronti della propaganda dottrinale delle immagini comuni.
D'altra parte, questa civiltà medievale della sensibilità interna2 certo non contraddice la vicenda di quegli anni, che dimostra un'ingente opera di interiorizzazione spirituale, sostenuta da un Cristianesimo che evolve nel senso di un umanesimo, anche per aver attribuito natura spirituale ai sogni, al sonno e alla stessa follia, nella loro qualità di esperienze e rappresentazioni interiori che si nutrono dall'avvicendamento includente di materia reale e immaginario immateriale.
Ne consegue che, a dispetto di ogni concezione storiografica peggiorativa di Medioevo , si coglie, in nuce, nella temperie dell'anno Mille, una nascente volontà, forza e idea di progresso, dalla quale, nel prosieguo del tempo, sarebbe scaturito tanto il coraggio della scelta urbana e della fede civica, quanto la spregiudicatezza di una mistica che, per quanto possano riuscire ingerenti le ideologie egemoni e le cavillosità teologiche di ortodossi e non, rimane, ad ogni modo, uno dei 'luoghi' meglio deputati dell'espressione dell'interiorità personale.
A questo proposito, sia detto soltanto come tra parentesi, fu proprio questa incipiente forza 'progrediente' a indurre Jacques Le Goff, già di per sé avverso ai tagli inflitti alla storia dalle periodizzazioni, a trovare, per così dire, il rinascimento nel Medioevo, anche in considerazione del lento movimento di periodi che tra di loro si accavallano e si implicano, più che succedersi a mo' di segmenti, ciascuno con un suo proprio punto di genesi.
Il Medioevo di Le Goff è, dunque, uno spazio cronologico di diciassette secoli, durante i quali l'uomo si è potuto sempre meglio assestare su posizioni di fiducia, cambiando ogni volta l'intervallo della distanza rispetto alla sua stessa solitudine, avvicinandosene e allontanandosene come in un gioco di rifrangenze, sdoppiature e isolamenti al margine, che
2
molto dice circa la responsabilità umana nel comporre un 'aldiqua' dei sensi e una mistica per il senso.
Da una parte, infatti, si potrebbe dire che, per quel che riguarda l'aldiqua, vige la logica del profitto delle città, - ambienti materiali e 'monetizzati' secondo un'idea di progresso e sostentamento comunitario - ben rappresentate, nella vivacità delle loro transazioni, da quelle chansons de geste della letteratura francese del secolo XII, che, tra ridondanza modulare epica e fluidità della parola detta e letta, raccontano di selvatici guerrieri, istintivi abitatori itineranti di incolte foreste e delle loro avventurose conquiste di città belle e desiderabili, delineando, per questa via, anche un immaginario e un tema urbano fitto di stereotipia.
Gli autori delle canzoni, in altre parole, vanno costruendo «lo stereotipo urbano medievale», a forza di citare mura, porte, torri aguzze, pietra, intrico di vie, dimore fortificate, e anche certi luoghi più politicamente connotati, qual è, ad esempio, la piazza del mercato che, nel suo essere il luogo per eccellenza dello scambio e della mobilità dei possessi, diventa pure teatro del potere nei suoi passaggi di proprietà, nel suo spostarsi dal vecchio al nuovo, anche muovendo dal basso istinto astuto dei mercanti.
E' certo facilmente intuibile come il tema della città, evocata nei suoi contrassegni figurali anche in quanto mondo degli artifici, in conseguenza dell'adattamento di elementi del meraviglioso tradizionale al contesto urbano, sembri quanto di più lontano possa esserci da un discorso sulla solitudine, proprio per l'opulenza, tipica della vita cittadina, in traffici, rese e conquiste, paragonabili ad assalti e conquiste amorose, secondo la poetica, propria delle chansons e dell'ideologia guerriera, della 'città-donna', da prendere nascostamente e con l'astuzia, nella difficoltà di un mondo fatto di rapina e di beni di proprietà mobile e di possesso dubbio.
Tuttavia, anche le famiglie della città hanno mostrato talora un certa propensione per il mondo mitologico e selvaggio della solitudine. Ciò è
attestato,ad esempio, dalla consuetudine, presso la famiglia dei Plantageneti, a trovare la propria progenie, nel pieno della cristianità, in un personaggio dai tratti diabolici, qual è Melusina, essenzialmente per il legame che questa ibridata e tabuizzata figura intrattiene con le leggi della solitudine e con i luoghi dello spirito selvatico.
Nel saggio sull'immaginario medievale di Le Goff, questa informazione è data come nota a pie' di pagina3, per calibrare l'aporia, in parte soltanto apparente e capziosa, tra il mondo imborghesito e civile della città e quelle foreste di vasta solitudine che sono il regno dei guerrieri e degli eremiti, generosi per natura e disaccorti nella cortesia urbana. In particolare, quella dei guerrieri è come una fazione che pare precedere la classe dei cavalieri, il cui statuto corporativo rende certo poco adeguata un'ipotesi sulla solitudine di uomini quasi sempre impegnati in grandi mischie e rinomati tornei, in città che sembrano fiere, tale e tanta è la ricchezza.
In considerazione di quanto sopra, s'instaura, dunque, nel solco della novità costituita dalla città medievale rispetto a quella antica in termini di economia, messaggi simbolici e dinamica sociale, una patente contrapposizione che vede, da un lato, il mondo costruito e idealizzato dell'urbanità, dall'altro, un più rustico e non prevedibile mondo della solitudine, fatto di mare, di foreste e di figure appartate.
Sia detto che, tanto l'urbanità quanto la rusticità fungono, di poi, da realistiche e attendibili idealizzazioni, che tanta parte svolgono nella formazione di un immaginario collettivo medievale sui temi di deserto e transocialità. A ciò si aggiunga la declinazione di un tema urbano dai risvolti quasi diabolici, se si pensa alla pessima fama della città biblica dell'Antico Testamento, una città spesso maledetta fin dalla sua infamante origine, per l'iniziativa di quel controverso Caino che, nel radunare in comunità gli uomini delle tende e del deserto del tempo dei patriarchi,
3
pensò bene di inventare anche i pesi e le misure, portando, per questa via, la sommossa dei conti, delle gerarchie e dei poteri, unitamente all'imperativo dei consumi, laddove prima regnava la libera prodigalità della divina Creazione.
Nei suoi successivi svolgimenti, nel passaggio al Nuovo Testamento, il tema della città biblica si va emendando di alcuni eccessi, legati ad un immaginario di maledizione divina e di peccaminosità umana - si pensi, proverbialmente, a Babele e al fallimento del programma di solidarietà umana, e alla lussuria di Sodoma e Gomorra.
Attenuando questi caratteri, la visione urbana si fa, dunque, gradualmente più positiva, per quanto resti sempre molto attivo l'aspetto 'babilonico' della città, fin anche della benedetta Gerusalemme, che è la città più di ogni altra legata alle vicende della vita e della morte di Gesù,e, quindi, per ciò stesso è luogo al massimo grado condensato di ambiguità, tra positiva attrattiva e scura maledizione.
Tornando ora all'estetica delle chansons, dove violenza e gentilezza spesso sono congiunte, si potrebbe avvertire come misurabile lo smarrimento provato, al cospetto della comunità cittadina, da parte di quei guerrieri, rudi e istintivamente generosi, che potrebbero anche apparirci, tra le righe delle chansons fitte di idealità e ideologiche bramosie, come figure di solitari sparuti e non coltivati, il cui spontaneo itinerario rimane interdetto alla violenza esogena dell'urbano consorzio borghese. Sotto altri rispetti, invece, è ad ogni modo inalienabile il retaggio biblico di un'umanità che trascorre i suoi ultimi giorni felici non in solitudine, ma nello scenario di una città, prefigurazione, questa, che non si estrinseca soltanto sul piano del reale, ma si espande al di là di esso, tanto da indurre l'immaginario medievale ad interrogarsi sulla raffigurazione di un aldilà urbano.
un altro, tra solitudine e bisogno di vita associata, per quanto, forse, la solitudine rimanga più ruvidamente fedele ad una specie di primigenia incorruttibilità più di quanto possano fare le forme della vita aggregata nel loro corso storico.
Quello della solitudine è, infatti, il dominio di individui che rispondono per lo più unicamente al diritto della propria soggettività; questo stato di cose, dunque, doveva certo turbare non poco la cultura clericale e vescovile dei secoli XI e XII, nella sua aspirazione a far valere l'autorità gerarchica ecclesiastica come unico controllo su una società di laici uguali e molto osservanti del vinculum concordiae di paternità agostiniana. Ne viene fuori una sorta di teologia della città, una forma di controllo delle mentalità, caldeggiata ai vertici della Chiesa e applicata in quanto strumento ideologico di dissuasione dei 'disobbedienti', nel suo portato di schema ricorrente di manipolazione delle immaginazioni.
Ciononostante, la buona fama del tema urbano viene affiancata, tra XI e XII secolo, da un approfondirsi dello scavo individuale, volto a trovare l'intenzionalità del peccato attraverso pratiche di 'autovalutazione' solitaria. Accade, perciò, che la coscienza venga purgata, non più mediante pubblica e tariffaria penitenza, bensì nella privatezza della confessione.
In altre parole, questa morale dell'intenzione pone gli individui di fronte alla propria personale responsabilità, tralasciando abbastanza l'azione palliativa della giurisprudenza civica e delle solidarietà corporative: le persone, che siano «solitarie» o «socievoli», si ritrovano sole all'appello della coscienza4.
4Questa personalizzazione del peccato si affianca al «gioco non innocente», secondo le parole di Le Goff,
del collegare i vizi alle categorie socio-professionali, o anche alle lingue ed alla nazionalità. Si tratta di un’operazione tutta congegnata a partire dagli 'stati del mondo', che altro non sono che classificazioni 'sociali' da cui sarebbe scaturita una specie di topografia dei vizi, ricondotti, per fantasioso e certo non innocente determinismo, a caratteri nazionali o a specializzazioni professionali. Di questo ha parlato Giacomo di Vitry, predicatore facondo e redattore di molti sermoni nel XIII secolo, nella sua Historia
Occidentalis degli inizi del secolo, facendo combaciare lo schema antico dei peccati a quello nuovo
degli status sociali. In questa ottica, è altresì facile che accada che ai peccati appartenenti alla propria categoria si aggiungano peccati propri di altre categorie: si dice, per questa circostanza, che «si è usciti
Naturalmente si è soli al momento della morte, allorquando è l'ultima intenzione del morente a decretare il futuro dell'anima, nell'ottica di una geografia dell'aldilà che viene profondamente rimaneggiata nel secolo XII, in conseguenza dell''invenzione' del Purgatorio.
Sia detto, a questo proposito, che quando si parla dell'idea di Purgatorio nel Medioevo ci si riferisce non tanto a uno stato, per così dire, topografico e localizzabile nell'itinerario dell'altro mondo. Viceversa, il Purgatorio del Medioevo ha poco a che vedere con i 'determinismi' della geografia immaginaria, ma molto incarna, invece, una condizione di trasformazione spirituale, come se si trattasse di un rito cronico di 'purgazione' che prende avvio dall'ultima volontà, alla fine del tempo terreno. (L'altro mondo - non che 'altro tempo' - viene visto mediante la lente di un'ottica popolare dell'iperbole o della miniatura; si tratta, insomma, del gusto folclorico per il deforme e lo strano, non disgiunto dai ricordi, in filigrana, dei viaggi dell'aldilà della cultura 'erudita').
Tornando al tempo terreno, è sempre solitaria l'occasione di concepimento dei sogni e delle visioni, testimonianze di vita dello spirito che sarebbero diventate veri e propri motivi ricorrenti nella letteratura 'colta' e 'popolare' del Medioevo, topoi per lo sfogo dell'immaginazione popolare, spesso di tinta accesa e di violente figurazioni compensative, talora temperate da più morigerate eredità culturali del passato o anche dalle stesse censure morali della controffensiva gerarchica ecclesiastica.
C'è però da dire che, sotto la cappa del plumbeo controllo della Chiesa, e anche nell'aria penale dei sermoni dei Padri predicatori, riuscì a farsi strada una certa 'valorizzazione del secolo'5, un abbassamento del tono del contemptus mundi e una dilatazione del tempo degli affari, che seguono un
fuori dal proprio ordine di peccati», accrescendo la drammaticità della situazione di colpa. L'occasione più adatta per questo 'peccato globale', che spazia tra i vizi di varie categorie, è data dai tornei, che presto sarebbero divenuti oggetto delle deplorazioni dei redattori di sermoni. Il riferimento, per queste informazioni, è ancora, in questa parte del testo, Jacques Le Goff, L'immaginario medievale, pp. 61-65
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calendario di partizioni uguali, religiosamente affatto connotate, che hanno a motivo la fortuna dei mercati
Ad ogni modo, oltre al carpe diem, che intensifica l'esperienza del tempo sul versante della vita, persiste, sul versante della morte, nel modo di interim penale tra il giudizio individuale e quello Universale, un regno intermedio che ritualizza e drammatizza il momento del trapasso dell'anima, sola nella solitudine del giudizio di Dio: l'indulgenza dei vivi, infatti, ha un'incidenza sul conteggio del tempo nel Purgatorio, mediante quella forma di solidarietà post mortem rappresentata dai suffragi, ma certamente l'indulgenza dei vivi non può essere di compagnia all'anima, che non consiste di materia e fa da sola i suoi viaggi.
Ad ogni modo, la nascita di nuovi tipi di solidarietà, attive, ad esempio, presso le confraternite e i nascenti ordini mendicanti, le ramificazioni genealogiche degli alberi familiari degli aristocratici laici e, inoltre, l'inventario della memoria collettiva e la collettiva responsabilità dei suffragi, sottraggono un poco del tempo globale del Medioevo all'imperio della solitudine e delle responsabilità congiunte al carattere individuale, ponendo, con ciò, l'ipotesi di un nuovo senso della morte, che implica l'importanza della comunione dei vivi, l'immaginazione dell'anima penalmente responsabilizzata e la tensione verso un tempo escatologico, passando attraverso il continuum di un presente di conversione in preparazione dell'orizzonte della salvezza.
Più specificatamente, andando ad infernalizzare la valorizzazione del secolo, la licenza del piacere e l'ambizione del commercio, il cristianesimo pone come 'normale' un minoritario atteggiamento di rinuncia; per esso, il cristianesimo appronta tutto un corpo di parole, concetti e parametri di paragone, creando un compromesso tra mistiche della trascendenza, interpretazioni della Scrittura e il quadro del mondo secolare, la cui varia libertà si irrigidisce in un’esemplarità dominante.
Si sta parlando, con ciò, del monachesimo, che Jacques Le Goff introduce in quanto manifestazione di società ed incarnazione del nuovo modello della rinuncia sessuale, al massimo grado della sua perfettibilità ideale, nell'ossessione fobica della purezza, in vista di una fine del mondo data per imminente.
Da questo punto di vista, può provocare un istantaneo stupore il rapporto di equivalenza e di quasi tautologia tra carne e peccato, istituito dal cristianesimo anche attraverso la manipolazione dei significati di certi passi della Bibbia che, in realtà, stando alla verità della lettera, sembrano parlare di un riscatto della carne, piuttosto che della sua repressione.
Con la costituzione del sistema dei peccati capitali, tra il secolo V e il XII, la concupiscenza e la più generale lussuria sono le nozioni della irrelazione tra i soggetti, ponti verso un oggettuale polo del desiderio, dove l'io conosce la solitudine del peccare nel mondo degli oggetti e degli abbagli, seguendo dappresso il fondarsi di un nuovo concetto della carne, che diventa smaccato centro di produzione del peccato, senza ritraduzioni e arrangiamenti allegorici.
Di fronte al ricadere reiterante secondo le viste della carne, il monachesimo si sceglie la castità, nel deserto fobico della carne infernalizzata in mille rifrangenze di pavido peccato. Sia detto anche che la notizia dell'umanità assunta da Cristo, disceso nella carne, rinforza senz'altro la nozione di corruttibilità e debolezza.
Mi resta però oscura, a questa altezza di tempo e esperienza, la ragione dello slittamento semantico da 'carnale' a 'sessuale', quasi fosse niente di altro che un frutto della fobia degli uomini e della loro passione a tagliare testi e contesti nel dissolutorio 'assoluto' semantico di un particolare, che diviene peccato secondo l'autarchia tabuizzante della paura.
Ne consegue che questa direzione delle idee fonda l'apposizione di una matrice carnale al peccato originale. Contrariamente a parvenze di senso
comune, si aggiunga che la paura della propria colpa spinge le persone nel deserto della ricerca delle purezze, dove la solitudine è quasi accidente evenemenziale e collaterale della fuga fobica dai dettati di potere dei teologi, dei Padri del passato e del deserto e dei direttori di terrene burocrazie del controllo e delle obbedienze.
Come ogni etica, anche questa medievale antifrastica della carne ha l'anarchica disobbedienza della nevrosi. Essa, pertanto, non potrebbe essere certo salda senza quella disposizione a un certo 'volontarismo' , che traccia linee e punti disgiuntivi tra il peccato del passato e la salvezza prossima, e che costituisce il metro con cui si misura la rivalsa dell'anima nella prodezza guerriera del tempo medievale.
Nel raggio d'azione di questa timorata etica, si capisce molto facilmente come lo stato coniugale venga formulato come condizione personale sgradita agli occhi di Dio. In conseguenza di ciò, un incoraggiamento alla solitudine potrebbe essere grossolanamente ravvisato anche soltanto negli apparati di leggi non scritte e nel calcolo delle opportunità che il mondo, attorno all'anno Mille, è andato computando, nell'ossessione della carne e per il corruccio di un Dio Nuovo che, per quanto incarnato, non scende ulteriormente nella carne delle menti a cancellare quella patologia del piacere e quella nevrosi del ribrezzo e delle fughe, lunga diciotto secoli, e certamente anche di più.
Fu così che lo schema del monachesimo benedettino, più improntato a equilibrio, non fu in grado di soppiantare la negligenza delle regole insita nello spirito e nel costume del deserto, con tutto il suo portato di anarchica e cronica mania di perfezione, facendo implodere il proprio dettato solitario nell'assolutizzazione di un'idea, o di una paura, o di uno spavento, in un clima generale di angosciosa prevenzione dell'intenzione desiderante e nella solitudine oscura e polisemica dei cercatori di religione personale.
l'atteggiamento di inquieta diffidenza che il cristianesimo matura in rapporto alla sfera onirica, generando in tal modo, per dirla con Le Goff, una società dai sogni bloccati, dove l'interpretazione dei sogni può compiere i propri esorcismi sugli ignoti significati soltanto in un clima di stentata tollerabilità.
Per questa via, si accresce il disorientamento: la decifrazione dei sogni diventa una prassi clandestina, mentre gli uomini e le donne del sogno interdetto si trovano costretti a fare i conti con le sopravvivenze del rimosso, gli assilli dell'inconscio e l'ipertrofia della visione che rimane minaccia, più che indicazione su un futuro di significato utile.
Per questa via, s'installa, pertanto, un nuovo stile nei rapporti col divino, che passa anche attraverso il tesoro dei sogni monastici, coi vari riarrangiamenti di un'onirologia sempre piuttosto circospetta riguardo alla natura del sopor.
Del resto, la messa a punto di una pedagogia ecclesiastica, fortemente incentrata sulla paura e sulla demonizzazione del simbolo, ha certo contribuito a isolare sempre più gli uomini del tempo nella loro solitaria e preoccupata oniromanzia sulle genesi, i caratteri ed i sensi di sonno e di sogno.
Il chiostro di solitudine del Medioevo si ammanta, dunque, di altro e fitto spessore nella mistica controcultura di una eresia privata, che prorompe laddove l'immaginazione degli uomini si spaventa al cospetto delle sue proprie rappresentazioni. Ne consegue che l'immaginario medievale, violentemente compensativo rispetto alle censure agìte dal controllo ecclesiastico, renda paesaggio le credenze, spazializzando la vita spirituale tra città celesti e sublunari deserti.
A tutto questo si interseca il piano di un’aritmetica tutta terrestre della pietà, intesa come esercizio di una auto-affermazione non emendata dal 'retropeccato' di vanagloria, secondo la chimica, prevalentemente
femminile, dell'affermativo bisogno di autonomia e di identità rispetto a una autorità prelatizia maschile.
In ragione di ciò, nel tempo avviato allo scoccare dell'anno Mille, si va affinando, per questa via, un modello muliebre di sacrificio di pietà, tanto condito dal sale della prudenza, quanto spregiudicato nel suo trascegliere regole di condotta poco codificate e certe, secondo la schietta usanza popolare del rendere eroici, o santi, i valori sovvertiti dalle topiche del rovesciamento e dell'abbassamento.
Sia detto, a tal proposito, che questo modello di pietà, che inevitabilmente istituisce relazioni di mutui soccorsi oltre che implicare un addestramento efficiente dell'anima in ascesi di santità, è anche passo successivo rispetto al tempo della 'santa anoressia', quando a venir reputata santa era la malattia e non la premura o la pietà.
Su siffatte osservazioni si chiude il saggio di Rudolph M. Bell che, indagando tra inedie e pietà sante, mostra un mondo di donne oppresse da debiti coniugali e da ortodossie di obbedienze pronte e assolute, tutto un 'teatro privato' di pugnace ascetismo e di irreprensibili inedie.
Ciò reca in sé la testimonianza di un mondo femminile affamato dei segni favorevoli dell'identità e dell'autonomia, in una società di teologie patriarcali e di politiche ecclesiastiche che sospettano delle donne, fugaci figurazioni della solitudine eretica e disobbediente, dove l'inedia si mischia alla vanagloria e, da lì, alla mutua ed essenziale pietà6.
Concludo il paragrafo con un appunto su un'ennesima forma di solitudine dell'uomo del Medioevo, quale è quella che si riferisce alla relazione con le stesse strutture della significazione, nel senso che il mondo delle parole, a quel tempo, era reso turbolento da una certa non corrispondenza tra il lessico e il modello mentale della Bibbia, il linguaggio dell'adeguazione al secolo e alla moneta degli inizi del '200 e, infine, la rappresentazione della
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realtà sociale dell'epoca. Ne risultano controsensi, vuoti del senso, e un'inquietudine dal punto di vista della critica dei significati che, se da una parte provoca una certa ansia di neologismi, dall'altra parte spinge al deserto delle brachilogie e degli isolamenti.
Ciononostante, resta da dire che, prodotto del tempo e del luogo, è una figura come quella di san Francesco, il quale riesce a sottrarsi alle tentazioni del disadattamento, del deserto e della radicale eresia, istituendo tra gli uomini un modello sociale di famiglia; si sta parlando, con ciò, di quella ben nominata fraternità francescana, che, ancora oggi, pone a noi la domanda se Francesco abbia fondato l'ultima rocca monastica o la prima famiglia di fraternità moderna.7
Col suo essere figlio della città, Francesco si è fatto promotore di una dialettica dell'integrazione del modello della povertà con l'ottica storica della salvezza spirituale, attraverso la parola urbana della predicazione per piazze e per vie, e attraverso l'attenzione all'arte della dolcezza di vivere, così lontana dalle infrastrutture di certo masochistico Cristianesimo.
Va da sé che, in questo mantener lo spirito desto di fronte all'ascesa delle scismatiche monete, sta il merito del controcanto francescano, che ancora oggi pare invitarci alla critica dei poteri, alla parola democratica del lessico sociale e allo 'scandalo glorioso' di una terrena societas caritatis.
Alla luce di questi discrimini, la solitudine diventa quasi ordo di un io gerarchico e strutturale: niente di più lontano, si potrebbe dire, dal dettato semplice e libero, umanistico ed ecologico, di Francesco.
2. Abbozzo di una nota di raccordo tra i due tempi
Tralascio ora la fenomenologia di solitudine esplicatasi in prima diramazione dalle sorgenti età di mezzo, e passo ad immaginare l'idea di un
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raccordo tra la programmatica solitudine dello spirito religioso medievale e l'inquieto lassismo romantico.
Per limitare, per quanto più io possa, il disagio di un'applicazione d'attenzione tanto impegnativa quanto, soprattutto, pedante e precettisticamente marcata, passo, idealmente, dall'aggravato Medioevo del contesto dell'anno Mille, alle (ri)flessioni sulla solitudine dal versante della metamorfosi romantica, utilizzando, nel mezzo, parole di frasi, che quasi vogliono essere gli slogan di una solitudine sempre comprovabile al massimo grado e in ogni istante del tempo, tanto nelle sue confermazioni quanto nelle sue sfarzose e 'incodificate' dissimulazioni.
Ordunque, sicuramente solo doveva sentirsi Jacopone da Todi, con la sua religione dei controvalori e della discriminazione delle gerarchie, e col suo accento didattico e predicatoriale nella fermezza del verso, forse raramente involato dalla corsa della poesia. E di qualche fondamento parrebbe anche l'ipotesi di una solitudine dantesca, specialmente nella misura in cui la vicenda biografica è parsa suggerire, all'acribia dei posteri, un cielo storico dalle stelle mute.
Dall'altra parte, sul versante della parola avviata a democratico uso e caduca nel tempo orale della performativa, era certamente solo il cantastorie, nello spectaculum alchemico del rottame, 'advenuto' puntata di novella e romanza modulare. Per altro verso, invece, un'impiantata fictio, quale è il motivo strutturale che incornicia letterariamente la fondatezza, quasi filosoficamente necessaria, di un Decameron, è inganno alla solitudine, nell'immortalato ritratto di un passatempo da interno.
Avvicendandosi i passi del raccordo, secondo la progressuale cronologia di una canonizzata storia delle idee, sembra opportuno imprimere, per la nuova società della corte rinascimentale, la marca della solitudine flessa ed eclissata, a cominciare dalla civica utile della preservazione cortigiana e dalla precettistica altamente regolamentata del 'fare la corte'.
Si tratta, con patente evidenza, di quella tipicizzata smorzatura della solitudine, che ricorre, invero, ad ogni tempo di rinascita, e che è stata altresì pedale d'espressione anche nelle rese figurative, nel cuore della Rinascita moderna per antonomasia. Si pensi, sotto questo rispetto, alla costanza dialogica dei personaggi simmetricamente interrelati di Raffaello, o anche alla distruzione e composizione materica attorno alle varie solitudini dell'io del Michelangelo scultore, secondo la sinodia, ad ogni punto ellittica, della ferma elegia del marmo con la furia dello scalpello e lo sprone di un certo naturale giudizio signorile.
Similmente, non prevedono esiti e segni di solitudine le organizzazioni dello spazio in senso architettonico, che, al contrario, si pongono come indirizzi di studio applicato ad una pragmatica rispettosa dei criteri delle funzionalità a vettore filantropico. Questo significa, in altre parole, che non c'è solitudine strutturale nella disabitata 'città ideale', la cui campitura quasi ritaglia un piatto cliché dell'umana istanza del co-abitare programmi di spazi rassicuranti.
Avanzando a gradi con l'espediente del raccordo tra Medioevo e Romanticismo, si fa del Barocco un sunto nel segno dell'ennesima solitudine, differita nella poetica ellittica del collezionismo, del refuso e dello sfarzo, il cui significato incorre nell'accecante eccesso.
In prosieguo, col carattere ideologico del tempo dell'Illuminismo, l'umore di solitudine viene rivisitato in senso positivistico. Ne è attestazione la cronaca 'vera' della laboriosa desolazione di Robinson Crusoe, nell'Isola di solitudine e bella compagnia, dove «s'erano capovolti i desideri, e gli affetti cambiato registro»8, mano a mano che la nostalgia per le convenienze della Classe Media lasciava sempre più il posto al gusto del «tenere consiglio nel buio», del consultare, cioè, i propri stessi pensieri.
Questo memoriale del tempo appunta quotidiane crisi del coraggio,
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facendo, al contempo, la conoscenza della salvezza data da una nuova Nozione delle Cose9, che riqualifica le dizioni di solitudine e dipendenza, di selvaggio e di civile, sulla base dell'universale magistero della Natura.
Ciò detto, questo stratagemma espositivo del raccordo tra i due termini della storia delle idee, si conclude in un appunto di antropologia visiva e privata, con l'occhio del cinematografo che inquadra la solitudine di un aristocratico. Il rimando è a Ludwig, film del 1973, di Luchino Visconti. Di questo film, ricordo l'approfondita ascesa al mondo mistico e non empatico del segreto psichico, l'imprigionamento dell'io nel proprio sotterraneo, gli occhi senza sguardo della mania, e, soprattutto, il decadente spirito delle estetiche delle scene e del costume.
A questo punto, il raccordo trae indietro i suoi ponti. Una capillarità romantica costituisce la tensione più nevralgica dell'Ottocento. Anche questo romantico languore consta di perdite e nostalgie, per come, propriamente, conviene al dolore. Pur tuttavia, nell'immaginazione e nel sentimento dei lettori appassionati dell'opera romantica, esso vive come un giovane dolore, senza criterio e senza ricordo dei tempi passati.
Questo senso del deliquio romantico è dominante almeno presso il tribunale della communis opinio , che esamina posizioni e punti di vista, compendiandoli in voghe di superficie e senza scavo dei risvolti più derivativi e degenerati.
Con questo accenno, si vuole immaginare l'evenienza di un allontanamento dalla matrice romantica, per come essa viene comunemente intesa, e la sua risoluzione in un pervertimento della relazione con la vita morale e con l'affettività.
Ciò significa, in altre parole, che raffronti tematici intertestuali tra
9 Per quel che riguarda questo uso del carattere maiuscolo, esso viene qui adottato senza alcuna acribia
di intenzione. Semplicemente, esso è parso in linea a quel clima di ingenuo candore, di prima nominazione e formazione delle parole, che fu proprio dell'Isola di Crusoe. Si aggiunga che un tale uso può altresì calcare la maniera, propria del tempo, di parlare con l'astrattezza audace di una filia per le marcature ideologiche
letterature irrelate mostrano tipi e temi dalla crudeltà recrudescente, laddove il senso comune della periodizzazione e dell'astrazione ingaggerebbe, invece, una poetica ipocrita della nobiltà del dolore.
3. Una particolarità del costume: topiche solitudini nell'amorale
Romanticismo
Quando si dice «romanticismo», si deve sottintendere il carattere convenzionale di questa dicitura periodizzante della storia del gusto e del pensiero.
A proposito della voce «romanticismo», il saggio d'introduzione, scritto da Francesco Orlando per il libro di Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, accenna all'utilità dell'uso di certe 'categorie empiriche', qual è, per l'appunto, 'romanticismo', in quanto esse offrono al critico la possibilità di pronunciare giudizi di valore attorno a un'opera, scongiurando, per questa via , il rischio dell'afasia al cospetto dell'imperfettibilità conchiusa dei prodotti estetici.
D'altra parte, noi tutti ci intendiamo bene circa l'accordo convenzionato del linguaggio e della parola, circa il tratto dell'arbitrio, impresso nella radice di ogni uso, e l'indispensabilità della convenzione, al fine di scongiurare afasie e astrazioni.
Quando si dice 'romanticismo', o 'barocco', o 'illuminismo', si tratta sempre di ampie approssimazioni attorno al gusto di un'epoca, che pare possano trarre alimento da quel certo senno critico, incline ad eleggere le costanti attraverso lo scarto delle varianti.
Questa scrematura dei temi ricorrenti è una specie di 'seconda vista', di passo di revisionismo, apposto, con idealismo critico, a dati materici e costantemente durevoli, quali possono essere, per esempio, gli scritti di
letteratura.
Sotto questo rispetto, il libro di Mario Praz, indicato come un 'classico' fatalmente invecchiato e epifanicamente affascinante, pone costanti tematiche entro cornice storica, persegue le vie defilate dell'intertestualità e il metodo della transizione, nonché una scrittura affatto metastorica, sottraendo importanza alle immancabili varianti, con il desumere convergenze di temi che divengono costanti e che producono esempi di sottoinsiemi tematici.
Si pensi a motivi come quello della 'donna fatale', o del 'masochismo maschile', per fermarsi soltanto a un prospetto di raffronto tra la tempra dei due generi e alle loro tangenze con la curva pervertita della mente e con la deriva sadica del gusto dell'affetto.
Questo tematismo di Mario Praz mi porge un modo per sapere che, nella materia del testo romantico, c'è un focus d'argomento, qual è il tema del dolore congiunto al piacere, che, piuttosto che concentrarsi attorno a una considerazione sulla solitudine dell'io romantico, sbalza, invece, su un tono di decadenza in senso sadico.
Mi pare, infatti, che il tema della solitudine sia, senz'altro, d'ispirazione più franca di tanti altri temi, più derivativi e compromessi nella loro sincerità dai rigori e dalle cavillosità della psicopatologia clinica e catalogica.
Ciononostante, Mario Praz ha riconosciuto il tema centrale della fantasia romantica nel morboso, piuttosto che nelle diffrazioni dell'io solitario, meritandosi, per così dire, il tendenzioso rimprovero di aver applicato una 'psicologia freudiana' , clinica e catalogica, in luogo di un'analisi interna dei testi letterari.
C'è, tuttavia, da annotare che, per quanto questo 'psicologismo' costituisca un innegabile capo di accusa per Praz, la sua elocutio pare, tuttavia, smarcare biografismi impropri e spinti, nel senso che Praz non si è
addentrato in un'investigazione sull'aneddotica personale degli scrittori, ma ha pur sempre condotto un'indagine di letteratura, facendo vedere, nei temi della scrittura, «qualcosa di sempre più ampio che la persona degli scrittori», come ebbe a dire Francesco Orlando, nella sua introduzione al libro in questione.
Pare, dunque, che il dato dell'extraletterario collettivo, con tutta la sua vita furente, si sia ben accordato, nella letteratura dell'Ottocento, con un certo spirito della licenza espressiva. Ne è risultato un accento crudele della letteratura romantica, con quel suo insistente trasgredire, che sembra significare niente di più di una doverosa disquisizione nei perimetri morali.
Indi, ritrovo forse quel certo sentore di vuoto o debolezza del contenuto, ad aleggiare vago qua e là, nei nostri ricordi, spesso bugiardi, sul dolce Romanticismo, un''epoca', in fin dei conti, anch'essa di transizione, che da una tradizione religiosamente credente si è evoluta nella risultanza di una statutaria ragione del sentimento erratico.
Anche durante questo passaggio, gli spiriti romantici delle letterature europee hanno ricercato sempre un vademecum, con la nota di un modo, nuovo e diverso, per sentirsi soli con sapienza.
Nel metodo della letteratura è dunque possibile riporre sofisticazioni sul tema trasgressivo.
Ciononostante, è bene ricordare che, soltanto discendendo nella coscienza di solitudine di ognuno, è possibile incontrarsi con un discorso refrattario ad ogni mistica della sofisticazione che, però, nonostante questo, ha spesso bisogno d'illusioni di trasgressione, per trovare la via che lo conduca a divenire comunicato.
Al contempo, resta il fatto che nell'Ottocento il mondo delle passioni si fa più autoreferenziale, per l'essersi ormai sganciato da garanti di convalide e di sanzioni, quale poteva essere, ad esempio, il sistema della corte.
autentico del costume della sensibilità ottocentesca, e la deriva morbosa non ne è che un dettaglio.
Inoltre, andando per le grandi linee, nel corso del tempo, nel passaggio di testimone da una tendenza del gusto ad un'altra, ciò che non ha conosciuto interruzione è stato il processo di educazione delle sensibilità e, parallelamente, il suo attenersi alla morale coeva.
Sotto questo rispetto, la radice del Romanticismo, in quanto fenomeno morale, va ricercata nella direzione di quel mal du siècle che, nell'Ottocento, pare anticipare il dolore del Novecento, il dolore, cioè, della resa e della resistenza secondo meditare filosofico.
A ciò si aggiunga che, se nel Novecento il dolore si disamina alla luce dell'attiva logica filosofica, nell'Ottocento, invece, esso si incunea nella sospensione del non detto , dove la pagina bianca pare più significativa di una pagina scritta, secondo una poetica dell'ineffabile e della passività. In questo senso, è facilmente intuibile come l'io solitario si sia potuto sentire davvero a proprio agio, in tali spazi 'deresponsabilizzati' e di disinvestimento del concreto e in queste ambigue mistiche dell'ineffabile inazione.
Ad ogni modo, per quanto propenda al fantasmatico, l'io romantico s'imbatte pur sempre in capisaldi tematici, che ancora oggi si pongono come punti nevralgici del dibattito critico.
Ed è proprio per temi che procede Mario Praz, ravvisando una prima occorrenza di 'perturbante' in quell'archetipo mitico della bellezza orrida e corrotta, piena di pena e piena di grazia, qual è la bellezza medusèa, al cui cospetto il dolore si combina con il piacere.
In altre parole, almeno per quanto pertiene precipuamente all'espressione letteraria, tenendo lo sguardo aperto sulla compagine europea, si vede come nell'Ottocento si sia instaurata una forma di estetica dell'orrido, - già echeggiante, a dire il vero, negli intrecci ostici e pulsionali dei drammi
elisabettiani - di cui è parte anche quella idea di voluttà del dolore, che tanto dice riguardo al mistero della crudeltà e al suo nesso necessario col principio del piacere.
Ne consegue che, tra la pena e la voluttà, l'aria di famiglia è, sinistramente, nella morale della crudeltà.
Ponendo tra parentesi l'estetizzata decadenza di quegli 'ambiti' di concetti che sussistono unicamente a seconda di quanto essi 'ricadano' moralmente -di quanto cioè essi abbiano una ricaduta morale - , resta -di patente evidenza che, a conti fatti, ogni 'patto' sancito per crudeltà sia, invero, catalizzatore di solitudine e non testimonio della riuscita di una comunione di intenti, dal momento che, in cotali 'patti', si verifica l'esponenziale dilatazione del centro del narcisismo, per dirla prendendo a prestito la logica della psicologia, escatologica e drammatizzata nel senso della patologia.
Ad ogni modo, lo spirito romantico, incontrandosi coi gusti tematici dell'epoca, manifesta anche una certa preferenza per l'astrazione, che pare essere, per certi versi, una corda espressiva molto diversa da quel compiacimento dei drammaturghi elisabettiani nel rappresentare l'azione scenica dell'orrore.
Nello stesso tempo, sia detto soltanto tra parentesi che, nonostante questa rivendicazione di un proprio diritto all'astrattezza, la tempra dell'individuum romantico è tale da accordare favore anche a certe precise accensioni tematiche, che la stima critica dell'Ottocento valutò di contenuto confusamente disforico.
Si pensi, a questo proposito, all'inclinazione romantica per il tema dell''angelo caduto' di John Milton, dove l'oltracotanza si unisce all'inversione delle potenze e allo smacco delle energie e delle gerarchie, decalcando figure di rovesciati e splendidi eroi vinti, con cui, anche per il lettore più provvido e mite, è facile identificarsi, dal momento che, per
esempio, il Satana di Milton è, per i romantici, come un riporto, o magari un refuso, di una quasi mitologica galleria di fondate figure paradigmatiche, la cui identità non è tanto nell'indirizzo del bene o del male, ma vive primariamente di vita letterariamente trasfusa.
Di poi, assumendo per un istante la suggestione di una memoria letteraria delle fonti, una considerazione su quanto solo possa sentirsi un angelo caduto nella sua odissea, tutt'altro che superna, di miracoli inferi e di sublime bricconcellagine, riporta ai quasi catechistici ricordi dei primi giorni del mondo, allorquando il Diavolo, l'uomo, la donna e lo spirito di Dio erano come ipostasi isolate, da cui ebbe origine quella non amicizia così gravida di dialettica storica.
Inoltre, sempre secondo questa ansa prospettica, è cosa di ben patente evidenza che, dalla suggestione luciferina, abbia tratto alimento tutto un affabulato romanzo nero della trasgressione, la cui naturale temperatura è in quel parossismo che già freme nel modo del dramma elisabettiano delle passioni, anticipando, per questa via, quel tipo dell'eroe romantico eccessivo ed occultato, per il quale una circostanza è più o meno poetica a seconda di quanto essa appaia irregolare.
Questo concetto del vizio, in quanto evenienza non digressiva rispetto ad una conformazione di natura, ben corrisponde ad una certa logica teorica, fondata, in primis, sulla legittimità dello strumentale.
Ciò significa che, nel passaggio dal Settecento all'Ottocento, in certe frange dell'espressione artistica, si va guadagnando un proprio diritto di cittadinanza nella legazione del 'normale', il piacere del meccanizzare i fatti spirituali dell'umano mediante il loro impiego in senso strumentale. Ne consegue che, ricalcando l'astrattezza di un luogo comune circa il cambiamento del gusto tra fasi successive della storia culturale, si può simulare prontezza nel ravvisare, in questa suddetta degradazione dell'umano all'ufficio di strumento, l'indicazione di una profanazione delle
convenzioni dell'ambito morale, strettamente concomitante con la crudeltà. Da qui, discende anche quella certa fiducia nella forza scardinante della parola rovesciata e la promozione al rango del concetto di certuni significati, nel calco di parole nate da tecnica artigiana e perizia di ideologo.
Il riferimento va, sotto questo rispetto, al metodico accanimento del discorso riguardo a «sadomasochismo», parola di costrutto che, a mio parere, sta a significare niente di più specifico di una solitudine, endogena ed esogena, resa, però, un poco minacciosa dalle simulazioni della scuola psichiatrica dell'orrore.
In breve, si può intuire come certe etichette tradiscano, invero, la natura profonda di un inganno. Pertanto, anche il deleterio «sadomasochismo» cerca di far passare per interessante una monotona reiterazione; in realtà, tale «sadomasochismo» pecca di non evasione, e consegna la retorica di una falsa indignazione: il prezzo del disgusto, si potrebbe dire, per una mascherata senza umorismo.
Questo è, notoriamente, il clima degli scritti di Sade, a cui qui si accenna per segnalare l'inferno dei desideri paralleli, in un mondo letterario dell'ossessione rudimentale, mentre la storia della cultura e delle idee era pervenuta, agli inizi dell'Ottocento, a un punto tale da rendere fiducia al soggetto individuale ed alle sue diffrazioni nelle ipertrofie dell'ossessione, della trasgressione e dell'isolato dolore mistificante dei romantici, con qualche sortita nell'ambito dell'esotismo e delle proiezioni fantastiche del sé, in altri tempi ed in altri luoghi, secondo i modi, fondatamente romantici, della 'nostalgia' e della contemplazione, tra orgoglio di vita e deliquio di noia.
4. La scrittura testuale di Sade: sbugiardata solitudine e comunicazione feticcio, tra filosofia dell'egoismo integrale, presenza degli altri e possibilità del nulla
Prendendo le mosse da una prescrizione dettata da senso comune, in base alla quale ogni ritrazione in una ossessione inficia, di per sé, la socialità, predeterminando isolamento, mi sono costruita, per così dire, un'intenzione per leggere Sade10, come se si trattasse, in fondo, di una galleria di 'monotipi' e di 'monotemi', con una tensione di accumulo nel tono di un 'burlesco' deprivato da qualsivoglia trattamento umoristico.
L'umorismo è, infatti, una mozione discorsiva dell'empatia o, per lo meno, della partecipazione alla natura di una causa, ed esso si attesta nel punto della sintesi dell'impulso ravvicinante della simpatia con la distanza critica di un atto interpretativo, nei confronti di un soggetto a cui si guarda e da cui, umoristicamente, si evade.
Tralascio, in quanto piano metastorico, la riflessione sul potenziale eversivo che la reazionarietà libertina ha esercitato nel mondo sociale francese del XIX secolo. Similmente, trascuro del tutto di fare a brani il repertorio tematico del sadismo, per altro ben noto, nel senso del luogo comune, a questa nostra 'attualità', nelle risultanze delle varie culture di massa e nel sottoculturale gergo 'nero' della cronaca dei nostri telegiornali, col suo criptato messaggio di apologetica criminale.
Non trascuro di appuntare, invece, che la topica classica del sadismo letterario può essere liquidabile in due battute, nel segno sintetico di una legazione della crudeltà che approva soltanto le malevoli alleanze nelle condiscendenze anormali di temi e di tipi corrotti, che sono come ipersemantizzate figure nevralgiche di un più ampio metadiscorso sulla
10La considerazione su Sade si è avvalsa della lettura de La nuova Justine, Garzanti, Milano 2007 (Ed.
solitudine del male, oltre che sulla sua frequentemente menzionata 'banalità'.
Giocando per un istante con un'acciaccatura grossolanamente allegorica, si può dire, facendo le parti del gioco, che un libro di Sade è un universo di mummie affatto balsamiche, non soltanto per l'incidenza del pedale necrofiliaco, ma anche per la 'pestilenziale' detrazione di ogni accento di valore da un dettato discorsivo privo di ogni stupore, oltre che non interessato ad apporre la scrima del dubbio nell'assoluto binomio 'strage-voluttà'.
Ne risulta un universo senza increspature, in cui ciascun personaggio, più che una figura di trama o un 'carattere' dettagliato, è la storia fattuale di un'idea del male, il ritratto discorsivo di un atteggiamento prometeico, che è, per così dire, ciò che costituisce l'aria di famiglia tra i personaggi degli scritti di Sade, spinti, ciascuno per sé, a perseguire l'assoluto di ciò che, sul piano letterario, ci viene presentato come desiderio, con patente e reazionario disprezzo nei confronti dei grandi e fondativi luoghi comuni della vita.
Secondo l'abitudine dell'uso, per altro nemmeno dimentica di rapsodici ricalchi di titoli da settime arti, si parla, infatti, di 'legge assoluta del desiderio', in quanto quel quid, che costituisce il polo della tensione desiderante, istituisce una specie di trigonometria, “monominica” e non pusillanime, dei soggetti e degli obiettivi a cui i soggetti si arrendono, che affatto inquadra alleanze di pietà o circoscrive istituti di solidarietà. Per ciò stesso, poiché «il sentimento della pietà è compatibile solo con l'essere che mi somiglia»11, ecco che, nella mitologia infantile dell'assolutamente coerente filosofico di Sade, la morte della distanza avviene tra eguali, in pagine piatte e mancanti di quel senso antico e greco dell'umano che, tenendo il conto del disgusto, invera un movimento in atto, rende fonda la
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carta del libro, e fa di Dio un vegliardo delle cronologie, del progresso delle colpe e della conseguenza, secondo il senso di una distribuzione della responsabilità nell'universo.
Non accade, insomma, nel regime sadico, spectaculum di coscienza morale rotta da trauma.
Per contrapposto, invece, l'apologetica del vizio è niente di più di una mascherata che, progredendo nel crimine, consegna al lettore l'impressione di una forte vera mancanza.
Manca, cioè, in Sade, ciò che manca alla sapienza quando di se stessa troppo si convince; che, insomma, il guado del cambiamento apporti lo scompiglio al costume della sadica replicazione dell'identico e del meccanico, ove niente è vero e perfino le arricciature caratteriali ruffiane, qui menzionate appena in quanto ennesime deprivazioni del vero, sono finte ipoteche del mondo invariabilmente inconseguente del libertinaggio.
Da ciò risulta che l'attesa di un lettore che pretenda, per esempio, una correzione dell'officina del terrore, è vana. Accettare il patto sociale, in Sade, significa, infatti, perseguire l'egoismo naturale del desiderio, come se, in fondo, potesse essere data per fondata l'ipotesi di un eterno nulla, che non conosce opinione del bene e del male, e che, invero, ha occhi ben poco filosofici per poter accordare la dolcezza alla solitudine.
Se è vero, come riteneva Hegel, che la modernità letteraria ha inizio alla fine dell'uso applicato dell'inventività mitica12, è di tale suddetta modernità
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Per questa relazione di implicazione identitaria tra mito e condizione poetica, si rimanda alla disquisizione apertamente problematizzante che Fausto Curi ha approntato in La scrittura e la morte
di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi, Laterza, 1996, p.3. Intendendo il mito come un piano fittizio
coscientemente trascelto, si intuisce facilmente in quale modo la morte del mito comporti, intrinsecamente, la vita delle poetiche realistiche. Sotto questo rispetto, si dà per sottinteso che le nuove prose della «vita reale», sorte sul cadavere del mito e del sublime, hanno riabilitato la vecchia illusorietà contenutistica della finzione mitica, nella nuova illusione strutturale o, se si preferisce,
ontica, del moderno discorso letterario, in quanto, a fondamento della costruzione di un contenuto
letterario vi è, necessariamente, un imprescindibile atto di fede nei confronti di qualcosa che, pur non essendo reale, reale, tuttavia, si impegna a diventarlo, attraverso le forme della finzione d'arte. A proposito di un senso doloroso di 'reale', Cesare Pavese, negli appunti diaristici del Mestiere di vivere, ravvisa l'imperativo del dovere nel compito «dell'adornare variamente questo eterno reale», nonostante si sappia che tutto è passatempo e che il reale, in quanto «reclusione, dove si vegeta e