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La scrittura testuale di Sade: sbugiardata solitudine e comunicazione feticcio, tra filosofia dell'egoismo integrale, presenza

degli altri e possibilità del nulla

Prendendo le mosse da una prescrizione dettata da senso comune, in base alla quale ogni ritrazione in una ossessione inficia, di per sé, la socialità, predeterminando isolamento, mi sono costruita, per così dire, un'intenzione per leggere Sade10, come se si trattasse, in fondo, di una galleria di 'monotipi' e di 'monotemi', con una tensione di accumulo nel tono di un 'burlesco' deprivato da qualsivoglia trattamento umoristico.

L'umorismo è, infatti, una mozione discorsiva dell'empatia o, per lo meno, della partecipazione alla natura di una causa, ed esso si attesta nel punto della sintesi dell'impulso ravvicinante della simpatia con la distanza critica di un atto interpretativo, nei confronti di un soggetto a cui si guarda e da cui, umoristicamente, si evade.

Tralascio, in quanto piano metastorico, la riflessione sul potenziale eversivo che la reazionarietà libertina ha esercitato nel mondo sociale francese del XIX secolo. Similmente, trascuro del tutto di fare a brani il repertorio tematico del sadismo, per altro ben noto, nel senso del luogo comune, a questa nostra 'attualità', nelle risultanze delle varie culture di massa e nel sottoculturale gergo 'nero' della cronaca dei nostri telegiornali, col suo criptato messaggio di apologetica criminale.

Non trascuro di appuntare, invece, che la topica classica del sadismo letterario può essere liquidabile in due battute, nel segno sintetico di una legazione della crudeltà che approva soltanto le malevoli alleanze nelle condiscendenze anormali di temi e di tipi corrotti, che sono come ipersemantizzate figure nevralgiche di un più ampio metadiscorso sulla

10La considerazione su Sade si è avvalsa della lettura de La nuova Justine, Garzanti, Milano 2007 (Ed.

solitudine del male, oltre che sulla sua frequentemente menzionata 'banalità'.

Giocando per un istante con un'acciaccatura grossolanamente allegorica, si può dire, facendo le parti del gioco, che un libro di Sade è un universo di mummie affatto balsamiche, non soltanto per l'incidenza del pedale necrofiliaco, ma anche per la 'pestilenziale' detrazione di ogni accento di valore da un dettato discorsivo privo di ogni stupore, oltre che non interessato ad apporre la scrima del dubbio nell'assoluto binomio 'strage- voluttà'.

Ne risulta un universo senza increspature, in cui ciascun personaggio, più che una figura di trama o un 'carattere' dettagliato, è la storia fattuale di un'idea del male, il ritratto discorsivo di un atteggiamento prometeico, che è, per così dire, ciò che costituisce l'aria di famiglia tra i personaggi degli scritti di Sade, spinti, ciascuno per sé, a perseguire l'assoluto di ciò che, sul piano letterario, ci viene presentato come desiderio, con patente e reazionario disprezzo nei confronti dei grandi e fondativi luoghi comuni della vita.

Secondo l'abitudine dell'uso, per altro nemmeno dimentica di rapsodici ricalchi di titoli da settime arti, si parla, infatti, di 'legge assoluta del desiderio', in quanto quel quid, che costituisce il polo della tensione desiderante, istituisce una specie di trigonometria, “monominica” e non pusillanime, dei soggetti e degli obiettivi a cui i soggetti si arrendono, che affatto inquadra alleanze di pietà o circoscrive istituti di solidarietà. Per ciò stesso, poiché «il sentimento della pietà è compatibile solo con l'essere che mi somiglia»11, ecco che, nella mitologia infantile dell'assolutamente coerente filosofico di Sade, la morte della distanza avviene tra eguali, in pagine piatte e mancanti di quel senso antico e greco dell'umano che, tenendo il conto del disgusto, invera un movimento in atto, rende fonda la

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carta del libro, e fa di Dio un vegliardo delle cronologie, del progresso delle colpe e della conseguenza, secondo il senso di una distribuzione della responsabilità nell'universo.

Non accade, insomma, nel regime sadico, spectaculum di coscienza morale rotta da trauma.

Per contrapposto, invece, l'apologetica del vizio è niente di più di una mascherata che, progredendo nel crimine, consegna al lettore l'impressione di una forte vera mancanza.

Manca, cioè, in Sade, ciò che manca alla sapienza quando di se stessa troppo si convince; che, insomma, il guado del cambiamento apporti lo scompiglio al costume della sadica replicazione dell'identico e del meccanico, ove niente è vero e perfino le arricciature caratteriali ruffiane, qui menzionate appena in quanto ennesime deprivazioni del vero, sono finte ipoteche del mondo invariabilmente inconseguente del libertinaggio.

Da ciò risulta che l'attesa di un lettore che pretenda, per esempio, una correzione dell'officina del terrore, è vana. Accettare il patto sociale, in Sade, significa, infatti, perseguire l'egoismo naturale del desiderio, come se, in fondo, potesse essere data per fondata l'ipotesi di un eterno nulla, che non conosce opinione del bene e del male, e che, invero, ha occhi ben poco filosofici per poter accordare la dolcezza alla solitudine.

Se è vero, come riteneva Hegel, che la modernità letteraria ha inizio alla fine dell'uso applicato dell'inventività mitica12, è di tale suddetta modernità

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Per questa relazione di implicazione identitaria tra mito e condizione poetica, si rimanda alla disquisizione apertamente problematizzante che Fausto Curi ha approntato in La scrittura e la morte

di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi, Laterza, 1996, p.3. Intendendo il mito come un piano fittizio

coscientemente trascelto, si intuisce facilmente in quale modo la morte del mito comporti, intrinsecamente, la vita delle poetiche realistiche. Sotto questo rispetto, si dà per sottinteso che le nuove prose della «vita reale», sorte sul cadavere del mito e del sublime, hanno riabilitato la vecchia illusorietà contenutistica della finzione mitica, nella nuova illusione strutturale o, se si preferisce,

ontica, del moderno discorso letterario, in quanto, a fondamento della costruzione di un contenuto

letterario vi è, necessariamente, un imprescindibile atto di fede nei confronti di qualcosa che, pur non essendo reale, reale, tuttavia, si impegna a diventarlo, attraverso le forme della finzione d'arte. A proposito di un senso doloroso di 'reale', Cesare Pavese, negli appunti diaristici del Mestiere di vivere, ravvisa l'imperativo del dovere nel compito «dell'adornare variamente questo eterno reale», nonostante si sappia che tutto è passatempo e che il reale, in quanto «reclusione, dove si vegeta e

che gli scritti di Sade paiono segnavia, anche per le loro insegne di realtà ordinata a prosa, che ha preso commiato dalle reticenze d'interludio dell'elusività della narrazione poetica, per assestarsi in un tutto tondo, tanto tramato da farsi romanzato, quanto immiserito dall'assenza del mistero e dalla conclamazione del dato.

In modo sinteticamente verosimigliante, si può dunque ammettere che la dipartita del mito dalla compagine letteraria sia leggibile e rileggibile, fuori e dentro l'ipocrisia di critiche letterarie sagaci, come l'atto di fondazione della modernità letteraria in senso proprio, allorquando la capacità generativa del mito si traslittera ad altro ordine ed intensità di reale, «trasfunzionalizzandosi» nella forza maieutica del modo totale dell'azione umana.

Questo cambiamento di paradigma, dalla poeticità del discorso del mito alle prose ordite del rapporto romanzesco, concorre, forse, a permutare l'intensità del non detto13 - peculiarità, questa, tipica della narrazione poetica - col modo di una dettagliazione del reale, che facilmente può esacerbarsi nell'esito della parodia o del grottesco in senso moderno, proprio in ragione dell'amplificata descrittorietà.

Allo scopo di liquidare un breve discorso che, come si intuisce, non è stato puntualmente messo a fuoco in relazione a una riflessione perdurante sulla solitudine, appongo qui la considerazione ovvia che una pagina di libro, per quanto corretta dal punto di vista della dispiegazione dei rapporti romanzeschi all'interno di un mondo totale degli interessi e delle relazioni tra i personaggi, può, tuttavia, lasciare molto solo il lettore, se essa non

sempre si vegeterà», è sempre per chiunque dolorabilmente possibile in quanto segregazione intera. Per questo non approfondito appunto in nota, cfr. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Diario 1935-

1950, Edizione condotta sull'autografo, a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, 2000 Einaudi,

Torino, pp. 46-47

13A proposito della poeticità del non detto, la potenzialità fabulatrice ed evocatoria della lacuna richiama

per rassomiglianza l'esistenza statutariamente indiziaria, congetturale, ipotetica del mito, in quanto vuoto e lacuna, oltre che la sua origine irrecuperabile, anzi inesistente, di racconto introvabile. Per questi spunti di riflessione, cfr. Fausto Curi, La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito e

reca in sé il senso forte del mistero di un valore, incaricato, anche nelle sue intermittenze, a raccordare il libro al suo lettore e a tenere vivo e teso il filo della storia della relazione tra una persona ed un'opera di scrittura.

Il piano del metadiscorso accenna, a questo punto, alla natura misteriosa della relazione tra libro e lettore, in quanto rapporto di soggezione e di solitudine, dal momento che certo esso non si dà nella moltitudine. Ciononostante, è pure molto vero che la solitudine di chi legge intercetta compagnia nelle epifanie del senso, o anche soltanto nelle volute della storia.

Nessuna compagnia, invece, proveniente dalle posture del male, all'infinito replicato, sorprende la solitudine del lettore di Sade.

Dunque, in fin dei conti, adoperando un linguaggio cavillosamente ermeneutico, pur potendo ragionevolmente confinare Sade in una fase mitologica infantile della figuralità del delirio, resta possibile, forse, l'eventualità di un riscatto del contenuto sadico nel segno di un assolutismo delle immagini e dei desideri che, lungi dal conseguire dal piano della realtà, pertiene, invece, al dominio psichico dell''onnipotenza dei pensieri', ammessa, freudianamente, in quanto stato ricorrente della vita mentale e del ripostiglio immaginario di ogni essere umano.

Pur tuttavia, al di là di ogni congetturante riabilitazione, permane il dubbio circa la possibilità dell'esistenza di una redenzione che eluda il rischio della ricaduta.

Da qui consegue un piano destinale dell'inibizione della salvezza e del vivere stesso, nonché un'implicita asserzione sulla logica necessità dei soggetti e degli oggetti di tortura, in quanto conditio sine qua non per la nostalgia dei fiori del bene o della virtù.14

14A mo' di conclusione, cito Vincenzo Barba, Sade: la liberazione impossibile, La Nuova Italia, Firenze,

1978, p. 274: «Ma gli uomini ricorderanno Sade, per continuare, però, quasi sempre, a non

riconoscerlo, e ad ammettere, così, paradossalmente, come propria la perfidia di Sade e della sua

opera immane. La quale, costruita non per condannare, ma per giustificare e comprendere, e tuttavia per agire in qualche modo sul cuore incorreggibile dell'uomo, rivela la propria nobile essenza di

5. La soggettiva dell'antropocentrismo negativo: il Werther di