Nell'avviarsi alla conclusione del capitolo, il discorso riposa sulla tranquillità di una «citazione» pervia. Il rimando è, nella fattispecie, a I dolori del giovane Werther, di Goethe, allo scopo di non accusarne l'assenza nella progressione di un discorso, qual è quello corrente, che si è andato sommariamente impuntando sulla fenomenologia dell'io solitario nel suo nesso di raccordo coi programmi della espressione letteraria, con gli andamenti generali del costume e coi partiti del potere.
A proposito di Werther, incancellabili ricordi di scuola ce lo ragguagliano nello statico interim di una perpetua gestazione emotiva, oltre che nel rilievo della sua genesi sentimentale, facendone quasi un frutto dell'irrazionalismo.
Orbene, a una siffatta tradizione culturale del luogo comune e del pensiero abituale, un'obiezione, a mio parere validamente argomentata, viene mossa da Giorgio Manacorda in un saggio del 1973, dal titolo Materialismo e masochismo. Il “Werther”, Foscolo e Leopardi.
Tràttasi di uno studio volto, essenzialmente, a rintracciare il peso della presenza wertheriana nei due autori italiani, dibattendosi, - ed è questo un primo elemento di novità - , tra prospettive più materialistiche e illuministiche, e non più soltanto facendo rifrangere, e iterativamente cozzare, statutarie prerogative sentimentali.
In aggiunta a ciò, una considerazione, posta da Manacorda in prefazione15,
tragico racconto morale e la sdegnosa pietà del suo infelice autore.»
15
Per questo carattere di innovazione, in barba all’inveterata tradizione della èdita opinione, cfr. Giorgio Manacorda, Materialismo e masochismo. Il “Werther”, Foscolo e Leopardi, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Più circostanziatamente, per una quanto mai calma e chiara indicazione di programma, cfr. : Manacorda, Materialismo e masochismo. Il Werther, Foscolo e Leopardi, op.cit., p. XI: «La genesi emotiva del prodotto letterario non comporta necessariamente conseguenze di tipo irrazionalistico e addirittura mistico-religioso. Una volta accettato il momento emotivo come facente parte della realtà (e nella fattispecie una realtà letteraria) esattamente come il momento razionale, lo strumento più adatto per scandagliare questi fondali ci è sembrato la psicoanalisi.»
sembra preparare un programmatico argomento, il cui carattere di novità consiste nell'uso della psicoanalisi come strumento per scandagliare certi fondali della psiche, che sono sì emotivi, ma non per questo, ipso facto, tautologicamente irrazionali o, addirittura, misticamente accesi e religiosamente aggiogati. Inoltre, sia detto soltanto per inciso, poiché i caratteri della psiche hanno struttura antropologica, va da sé che la loro età, più che essere determinata da credenziali e variabili storiche, è pari al computo del tempo della presenza umana nell'universo.
Arruffando un po' le conclusioni, ne consegue, pertanto, che i dolori di Werther, la sua solitudine e il suo isolamento, paiono ancora oggi rimproverarci per lo scacco di un individuo, riportandosi all'archeologia della struttura umana e al liquido amniotico delle antropologie.
Per queste vie, può accadere che i lettori, per quanto sia chiaro l'attacco inferto dal personaggio all' establishment morale dell'epoca e al microcosmico costrutto della famiglia16, tendano tuttavia a trascurare la critica storica, le responsabilità della società e le pastoie moralmente accreditanti del 'dramma borghese', e si scoprano, in tal senso, classici, più che romantici o sentimentali, avendo riconosciuto nella struttura antropologica del dolore tratti di se stessi.
16Per quel che riguarda quel costume di sicurezza e quello stato di ordine costituito di cui si fa garante,
primariamente, la morale comune, si vede facilmente come ogni società umana abbia relegato in un ambito patologico, o della disfunzione, i segni della sovversione dell'ordine. Si tratta, si potrebbe dire, di una lettura interpretativa dei segni del reale, che la società mette in uso alla bisogna, allorquando la scala dei valori si fa instabile. Ne consegue che, discostandosi dal costume della norma, - che è spesso, per altro, quello più funzionale all’esplicazione di compiti ed occupazioni che la vita sociale implica - , la psicopatologia crea sempre un turbamento ed un punto nevralgico di debolezza nell'ambito della ricezione sociale, anche a cagione di un certo suo simbolismo 'altro' e debilitante, vale a dire di quella ritualistica del gesto che è, propriamente, una forma di religiosità personale, il campo di dominio onnipotente di un 'carattere' e di un fenomeno spirituale. Per contro, il fatto che gli «psichismi» individuali abbiano spesso le impronte della cultura del gruppo sociale da cui, ad ogni modo, necessariamente si discende, è constatazione riconducibile al piano del contagio tra psicoanalisi e riflessioni più propriamente antropologiche. Di questo avvicinamento tra la psicologia e l'etnologia, nonché delle interferenze tra inconscio personale e pensiero collettivo, si è occupato, tra gli altri, uno studioso come Marcel Mauss, uomo dall'argomentare denso, che tanto ruolo ha svolto nel pensiero etnologico e sociologico francese, per quanto i suoi scritti abbiano conosciuto, per lungo tempo, la sorte della dispersività. Si capisce, però, che questa informazione, in quanto relativa ad un settore degli studi di indirizzo più propriamente etnografico, costituisce una chiara digressione rispetto a un discorso su “Werther”.
Più nello specifico, il Werther di Goethe, sia che venga ingiunto al grado di alter-ego dell'autore, sia che corrisponda alle istanze dei lettori secondo la sua autonomia di personaggio, manifesta, in ciascuna delle due occorrenze, una palese distorsione dell'affettività.
Con ciò, ci si sta richiamando ad una caratteristica che ben si presta, con tutta evidenza, ad autorizzare lo scandaglio delle refrattarietà dell'inconscio.
In altre parole, per dirla col giudizio di Manacorda, Werther, come del resto Ortis di Ugo Foscolo e Consalvo dei Canti leopardiani, drammatizza, per così dire, il subcosciente, propriamente nella misura in cui l'inconscio diviene la funzione più caratterizzante del poter essere personaggio sulla carta17.
Questo dato suggerisce, secondo l'impostazione analitica del qui citato volume di Manacorda, la non impertinenza di un immaginario del personaggio di tipo masochista, anche in spiegazione della wertheriana imagery amorosa, oltre che in smaccato collegamento con l'ossessione di un suicidio quasi ipostatizzante e, però, in un certo senso ben poco metaforico, per quanto fatto di carta.
Nelle pagine del Werther, salta agli occhi, inoltre, una particolarità che gli stilemi di genere del «romanzo epistolare» non mancherebbero di additare come anomalia. Con ciò ci si riferisce al fatto che il destinatario delle lettere, a nome Guglielmo, non profferisce parola e non corrisponde alle missive. Per contro, Guglielmo pare esistere in quanto astrazione o pretesto per lo scandaglio, in un ideale intervallo di latenza e di latitanza della parola, anche della parola morale, senza però mai dismettere, all'interno
17A proposito di questa promozione dell'inconscio al grado di funzione del personaggio, si tenga in conto,
ancora una volta, l'opinione di Manacorda, il quale ritiene che Goethe abbia potuto drammatizzare ossessioni e altri 'detriti' psichici, in virtù del crollo delle barriere della rimozione. In aggiunta, Manacorda scrive: «A Goethe sembra che questo sia, almeno in parte, riuscito forse perché scrisse il
Werther in a somnambulistic state». Cfr. Giorgio Manacorda, Materialismo e masochismo. Il “Werther”, Foscolo e Leopardi, op.cit., p.44
della finzione epistolare, l'esercizio silente di una funzione redarguente e persecutoria nei confronti della vox principale.
D'altra parte, se è vero che ogni corrispondenza, proprio per l'intrinsichezza della sua natura, si impianta in una struttura dell'attesa e della posizione della richiesta, si capisce facilmente secondo quali logiche un impulso discorsivo, che non sia un monologo, deprivi il silenzio di velleitari incarichi semantici, registrandolo, invece, sic et simpliciter, come macchia, anomalia o, per lo meno, ambiguità strutturale della situazione.
Queste zone di deprivazione e indebolimento - basti citare, per l'appunto, sotto questo rispetto ed a titolo di esemplificazione, la non dolosa 'afasia' di Guglielmo - non soltanto fanno vacillare la tenuta della letteraria fictio epistolare, ma si connotano anche di caratteri e di corrucci psichici.
In tal senso, appare significativa la concomitanza sintomatica di due pregni temi, concomitanza che induce Werther a far collimare la perdita dell'oggetto d'amore con «la soddisfazione dello scopo recondito»18.
A questo proposito, poiché sulla scorta della lettura del saggio di Giorgio Manacorda pare ammissibile sottintendere un'insolubilità di implicazione tra la struttura dell'io ed i reflussi masochisti, se ne deduce che il già richiamato scopo recondito, uscendo dalla vaghezza del nesso sintagmatico, s'invera nel programma dell'autodistruzione.
Ciononostante, a cotale contenuto di autolesionismo si affianca una sensazione, apparentemente più ingiustificata, di assenza di tragedia: il Werther, insomma, si regge tematicamente su una programmatica distruttività, che è quasi un puntiglio o una ritorsione e una forma del ricatto, su cui si esacerba un’originaria sanità del personaggio, fino ad arrivare ad un suicidio che, se da un lato rintocca come definitivo, dall'altro lato non sconferma l'impressione di aver come assistito, leggendo il Werther, alle 'prove generali' del non tragico dramma di una volontà,
18
introflessa alla cieca in senso masochista, che «muove incontro alla punizione (...) per sollevarsi di nuovo»19.
Ad ogni modo, per quanto, per dirla con Theodor Reik, la perdita sia, nella realtà psichica, un guadagno, resta il fatto che, nelle trascrizioni romanzesche, vige spesso la prassi di preparare, per il finale, un disinganno che è mortale, per il suo disinnescare la macchina delle illusioni.
Inoltre, a ben guardare, il fatto che Werther 'si strugga' per l'amore verso una donna che appare alquanto reificata, cioè strumentalizzata, in rispondenza ad un di lui bisogno psichico di riabilitazione virile, non soltanto è prova di una limitata capacità d'amare, ma anche sostanzia e ratifica lo stato di solitudine dell'io, allorquando ci si esercita nell'estroversione, ma, invero, lo si fa soltanto per dislocare la propria voluptas dolendi, il proprio autolesionismo ed il proprio carattere, negativamente elettivo e dolorosamente passivo, in una causa fuori di sé.
A fortuna editoriale conclamata, ora che molti anni ci separano dalle prime pubblicazioni dell'opera di Goethe, presso i lettori si rinnova, a proposito del Werther, la sensazione appurata di un evergreen.
In aggiunta a ciò, però, la posterità sa, e forse, al limite, anche deve sapere, che la 'riuscita' del romanzo, per come esso è stato recepito, ha conosciuto anche la risultanza extraletteraria di un equivoco, magari forse neppure contemplato dall’acribia di Goethe, occorso in conseguenza di un contagio tra il livello della ricezione dell'opera ed il piano della costruzione mitica della persona dell'autore, nel senso che, se Werther è morto, e Goethe, però, non è morto, ciò nonostante alcuni lettori sono morti, impigliati nella mimesi di un teatro della suggestione.
Quanto a Werther, egli rimane, nel suo ultimo tempo, ben più attratto dal principio di realtà. Piuttosto che romanticamente morire, il Werther delle
19Per questo sentimento della fiducia in sé, da dover mettere continuamente in forse al fine di vederlo
ricostituito, e per l'implicazione tra questa dinamica ed un certo velato 'complesso della superiorità inibita', cfr. Theodor Reik, Il masochismo nell'uomo moderno, Sugar, Milano, 1963
ultime ore disbriga questioni amministrative, quasi come se la burocrazia potesse essere un momento affettivo di incontro, o comunque di inclusione, col principio di realtà20 dell'imprescindibile prassi dell' esistere-in-società: un inserto di afferenza, insomma, dell'io con gli altri, «nella vasta solitudine del mondo» , per vie 'materialiste'.
Quella delle ultime pagine del romanzo è, insomma, un'aria del tutto antiretorica, senza trepidazione d'immortalità, di religioso viatico o indugi introspettivi.
Per contro, tutto è immanente, e la morte è riferita, fuori da ogni sintassi morale21, con quel tono di cronaca che si è soliti riservare all'accadimento, allorquando esso avviene mentre se ne sta divulgando la notizia.
Si aggiunga, a margine, che siccome l'ultima «emanazione» del personaggio goethiano è materia cerebrale che fuoriesce, tendendo forse un poco i fili dell'interpretazione, si potrebbe vedere, in ciò, una possibile e velatissima suggestione su una certa corrispondenza tra la fine della vita e la fine dell'attività del cervello, vale a dire la fine di quel pensiero che, cessando, cessa anche di continuare ad istituire distanze e differenze tra l'io e gli altri.22
20Significativamente, cfr. Giorgio Manacorda, Materialismo e masochismo. Il “Werther”, Foscolo e
Leopardi, op.cit., p.145: «E il dramma nasce da questo, dal fatto che al principio di realtà (cui si
constata di non poter sfuggire perché ormai si sa e quindi si teorizza che non c'è altro) non si riconosce una connotazione positiva. Con ciò finisce l'Illuminismo propriamente detto, ma non comincia il romanticismo». A conferma di ciò, si pensi che, in barba al predominio della critica letteraria di impronta idealistica, - molto portata a distinguere tra poesia e non poesia ed a sopravvalutare il sentimento - , autori come Foscolo e, soprattutto, il «ferocemente raziocinante» (Manacorda, cit., p.165) Leopardi, risultano inclini a visioni del mondo immanenti e materialistiche piuttosto che romanticheggianti. A questo proposito, cfr. Manacorda, op.cit., p.153: «Binni sottolinea la repugnanza leopardiana di fronte al contagio di affettazione romanzesca sentimentale»
21Per questo relativismo del personaggio Werther, cfr. Manacorda, Materialismo e masochismo. Il
“Werther”, Foscolo e Leopardi, op. cit., p.191
22Questa suggestiva coincidenza tra fine della vita e cessazione del pensiero pare un costrutto
ancestralmente strutturato nel bagaglio del precosciente. Trattasi, pertanto, di un nesso -senz'altro molto fertile per l'immaginazione, per la facoltà della libera associazione, e per 'vitalistiche' gnoseologie - che sventaglia i suoi significati nell'inconscio, alla stessa stregua di quanto facciano tutte quelle memorie che abbiamo ma che noi non ricordiamo: si pensi, sotto questo rispetto, al liquido amniotico, al grembo materno, a ideazioni inclusive, osmosi spaziali, grado materico della Struttura- Madre (Natura), ecc. Per questo filo suggestivo, a cui ho fatto soltanto un accenno molto approssimato, cfr. Manacorda, op.cit., p.197 : « [...] materialità della morte: il momento in cui la materia che pensa torna alla materia tout court. Cessa di resistergli e quindi cessa di soffrire. Perché il
Il fatto che, di poi, sempre secondo la lettura di Manacorda, figure di grandi masochisti abbiano determinato fin anche il computo del tempo - ovvio riferimento, a questo proposito, è a Cristo - forse è un dato che dice qualcosa anche rispetto al nostro tempo attuale, e, del resto, rispetto ad ogni di volta in volta attualità, dal momento che tutt'altro che infrequente è stata l'identità tra Weltanschauung e affermazione di sé per il tramite del dolore.
Fuori dal computo dei paragrafi, individuo il sistematico carattere di 'saggio' di analisi della modernità, nel segno precipuo di una risultante teoria della società, nelle pagine di un classico libro, qual è Dialettica dell'illuminismo, di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, che racconta, con unità spirituale di tema e organico critico, le vie di archiviazione del progresso, secondo tutta un'evidenza di fatti culturalmente regrediti, tra i gangli e le gogne di passioni o occupazioni che formano un focus d'interesse, tanto atomistico quanto distribuito in replicazione, in seno a corporazioni di arti, fatti e mestieri, sempre più scaltriti nell'insediare il mezzo a scopo, controvertendo, per queste vie, i nessi della responsabilizzata finalità in una impregiudicata pragmatica dell'utile parziale. Da ciò risultano ovviamente delle conseguenze.
Si pensi, a questo proposito, alla latitanza degli entusiasmi, responsabilmente appassionati, nelle preistorie, o eterne latenze, del prototipo o del nominalismo; alla sostituzione del senso spirituale del rito antico con una nuova forma di protocollo dell'adempienza, qual è il dispotismo surrettizio e imbonimente delle merci; alla fuoriuscita del pensiero dal suo elemento di critica e alla depravazione delle personalità entro gli apparati categoriali.
pensiero crea la distanza, la distanza crea la differenza, e la differenza crea la sofferenza. Ma la distanza è fittizia: l'altro siamo noi. Inoltre non esiste altro mondo al di là della Natura, della struttura della materia. [...] E' chiaro che la morte in questa logica non ha nulla di eccelso, semplicemente mette fine alla differenza e con essa alla sofferenza, poiché si torna nel grembo del tutto, nel grembo della Struttura-Madre. La vittoria della materia vanifica l'illusione (o l'inganno) della differenza. L'Eden può essere solo amniotico, regressivo per l'uomo (la microstruttura pensante)»
A ciò si aggiunga, inoltre, che un esito piuttosto macabro del funzionamento di questa 'macchina del progresso' è colto nel fatto che il singolo sparisce nella catena dentata del meccanismo che serve, divenendo sempre più ridotto all'impotenza e alla dirigibilità, quanto più cresce la quantità di beni che gli viene assegnata.
In cotale stato di cose, finanche la componente spirituale si neutralizza in ostentato patrimonio culturale, col suo reificarsi23 in merce liberamente circolante di un certo paranoide mercato del benessere. In poche parole, un nuovo genere, tutto ideologico, di metafisica di carattere commerciale nasce dalla fabbrica igienica della feticizzazione dell'essere, implicando, altresì, quel «regime» dell'equivalenza che è cosa tipica della società borghese, per la sua abitudine a tralasciare la specificità delle qualità, a livellare l''altrimenti', ed a ridurre le eterogeneità ad astratta unità.
Più concretamente, nella società industriale della 'funzionalizzazione' delle qualità, sono le stesse condizioni di lavoro a predeterminare un conformismo senza uscita dei lavoratori. Va detto, però, che dall'altra parte anche i padroni non conoscono in fondo sorte migliore, esistenze più felici, e forse, 'stranamente', nemmeno credono alla necessità oggettiva dei propri programmi...
Ciò detto, tornando per un attimo all'astratto, a proposito di questo nuovo ordinamento dell'unificazione del concetto, risulta senz'altro ovvia la riflessione che riconosce il concorso di due fattori ad esso favorevoli, ravvisabili, da una parte, nell'abbandono, nel prosieguo del tempo, delle sfaccettate e confuse rappresentazioni dell'eredità magica, dove ogni cosa testimoniava anche di qualcosa d'altro oltre che di se stessa, e dall'altra,
23 Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966 (Ed. Orig.:
1947), p.36: «con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni tra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. [...] L'animismo aveva vivificato le cose; l'industrialismo reifica le anime.» Ciononostante, anche il mondo matematizzato della reificazione ha un suo carattere numinoso e di predeterminazione, nel senso che le odierne ingiustizie sociali, per esempio, conoscono la medesima sorte di inestinzione dei demoni del mondo magico.
nella tipica attitudine al comando, che è propria delle modernità.
Ad ogni modo, se qualcosa resta di non compreso nella pur scrutatissima società industriale, è proprio ad esso, forse, che rimane la possibilità di ritorcersi, in qualche punto inaspettatamente catastrofico della storia o in qualche iniziativa sparutamente 'personale', nel segno non stilizzato di isolate affermazioni di sé.
Di poi, se si pensa che, sempre più frequentemente, l'affermazione di sé sembra usare a proprio vantaggio la circostanza storica del capitalismo, che ha impiantato la licenza della reificazione delle totalità24, ancora una volta si può riflettere sulla solitudine costitutiva della modernità, dove sempre più spesso 'gli altri' figurano in forma estraniata, in quanto strumenti o sostegni finanche nelle più private ponderazioni della vita intima.
In questo tenore di cose, 'restare in società' diventa uno sforzo, la cui fattibilità è data tanto dalle illuministiche istanze e risorse di una ragione intellettuale, quanto dal ritmo di acciaio della «catena di montaggio», adusa ad amministrare la flessione come impulso.
Avviandomi, dunque, alla conclusione del capitolo, con l'immaginare un ideale ponte che porti un poco ad approssimare parametri più sociologici di una riflessione sulla solitudine, faccio di Sade un trait d'union alla temperie capitalistica, calcando, da questo punto di vista, anche l'indicazione dell'Excursus II della Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno, nel senso che, tanto l'opera letteraria del Marchese di Sade, quanto le burocrazie capitalistiche, trattano l'umano come nucleo
24Nella Dialettica dell'illuminismo, all'interno di una critica della società borghese, Odisseo e Robinson
Crusoe vengono citati per le loro implicazioni con la socializzazione, l'uno attraverso la forma del viaggiare, l'altro nella industriosa costruzione di una società nell'isola solitaria. Tutti e due, anche per