CAPITOLO 2 Impatto della crisi finanziaria sui titoli sovrani
2.3 La crisi dei debiti sovrani in Europa
In seguito allo scoppio della bolla speculativa del mercato immobiliare collegata ai mutui subprime, originatasi negli Stati Uniti, numerosi istituti di credito europei si sono ritrovati in gravi difficoltà. Il fallimento della banca Lehman Brothers e i grossi problemi finanziari del colosso assicurativo AIG (oggetto di diversi interventi di salvataggio da parte del governo americano) nei confronti dei quali le maggiori banche europee erano notevolmente esposte, contribuirono a creare instabilità anche nel vecchio Continente.
Inoltre le forti interdipendenze internazionali ed il carattere bancocentrico dei sistemi finanziari europei, in pieno processo di globalizzazione non accompagnato
da una omogeneizzazione dell’ordine giuridico, non hanno fatto altro che facilitare la rapida diffusione della crisi.
Dunque, seppure in origine riferibile ad un’area specifica, la crisi innescò una reazione a catena di complessità e portata tali da giustificare interventi pubblici di natura e dimensioni straordinarie, tesi a sostenere la solidità e la liquidità del settore finanziario e bancario, a garantire un funzionamento, per quanto possibile, normale del circuito creditizio e a supportare l’economia reale.
Le banche in difficoltà furono oggetto di interventi di salvataggio da parte degli Stati perché ritenute “too big too fail”, ovvero intermediari con una rilevanza sistemica tale che un loro eventuale fallimento avrebbe potuto provocare delle notevoli conseguenze nell’intero sistema. Inizialmente gli interventi vennero decisi a livello nazionale. Dopo un’analisi “caso per caso”, i governi adottarono diversi strumenti straordinari che andavano dall’estensione delle garanzie pubbliche, al sostegno degli attivi problematici e del funding degli intermediari, alla creazione di strutture di bad banking, alle agevolazioni per operazioni di salvataggio, agli aumenti di capitale mirati e sottoscritti in parte dal mercato ma soprattutto dai fondi governativi, agli interventi diretti di ricapitalizzazione degli stessi e, in casi estremi, alla nazionalizzazione delle banche. Si può affermare che la natura straordinaria dei salvataggi attuati a favore degli intermediari finanziari furono guidati in larga parte dalla situazione di emergenza venutasi a creare.
Purtroppo le misure adottate finirono inevitabilmente col sottoporre gli Stati al pericolo di un’eccessiva esposizione finanziaria tale da alterare gli equilibri di finanza pubblica e la sostenibilità dei relativi debiti.
Il sistema bancario europeo, per di più, investì massicciamente in obbligazioni di Stato nel tentativo di ripulire i bilanci dai titoli tossici che si trovarono all’origine della crisi. Questa manovra però finì per rendere ancora più esposte le banche al rischio sovrano, aggravando così il circolo negativo tra settore bancario e finanze pubbliche.
Banche e Stati quindi non fecero altro che trasferirsi risorse e rischi, causando il passaggio da una crisi bancaria a una crisi ben più grave: la crisi del debito sovrano. Il configurarsi di tale contesto può essere ricondotto a due ordini di motivi. Prima di tutto perché la crisi, nata nel settore finanziario in seguito allo scoppio della bolla
dei mutui subprime, si estese rapidamente alla cosiddetta economia reale. In secondo luogo, perché si fece chiara la possibilità che, in una tale situazione, anche gli Stati, proprio a causa del deterioramento dei conti pubblici dovuto agli impegni assunti per garantire la stabilità dei propri sistemi finanziari, potevano fallire. Di fatto, l’aumento del rischio sovrano e di quello bancario possono essere descritti come due espressioni della stessa crisi di fiducia, legate da un duplice rapporto di causa: dalla prima alla seconda per via del costo dei salvataggi a carico del bilancio pubblico; dalla seconda alla prima a causa del declassamento dei titoli pubblici in portafoglio presso le banche. Si generò così un meccanismo secondo cui l’illiquidità delle banche si trasformava in insolvenza degli Stati e viceversa: i tassi crescevano, le condizioni di finanza pubblica diventavano meno sostenibili, il premio per il rischio sovrano richiesto dal mercato si gonfiava e i tassi subivano un ulteriore aumento, alimentando così la spirale negativa.
L’assenza di un quadro condiviso di strumenti e di una strategia comune nell’area euro, determinò inoltre incertezza e fece in modo che gli oneri legati alla gestione dell’emergenza finanziaria, anziché diminuire, si gonfiassero a dismisura. Le preoccupazioni sul debito interno alla zona euro impattarono, a loro volta, negativamente sulla rimozione delle operazioni di rifinanziamento, rallentando in maniera considerevole il processo di dismissione delle misure di sostegno al sistema bancario. Infatti i titoli tossici venivano in pratica trasferiti e messi a carico dell’Eurosistema, ma in questo modo veniva cambiata solo la natura dell’emittente e non il grado di sicurezza dei titoli stessi.
Presa coscienza perciò della necessità di coordinare gli interventi di salvataggio a favore del sistema bancario e finanziario, l’azione dell’Unione Europea si configurò in contributi economici, concessi in varie forme agli Stati membri, cui si consenti di garantire i prestiti interbancari e di ricapitalizzare gli operatori finanziari in difficoltà, in cambio di adeguate garanzie di gestione ottimale degli stessi e di misure
di austerity40 volte a risanare i bilanci.
40 Le misure di austerity sono politiche economiche volte al contenimento della spesa pubblica.
Queste misure possono includere vari provvedimenti, tra quali il taglio delle spese e
disinvestimenti, l'ottimizzazione dei servizi (spending review, cioè "revisione della spesa"), aumento della pressione fiscale sui cittadini contribuenti e la stretta sulle pensioni.
C’è da aggiungere che, oltre alla mancanza di una strategia comune, i Paesi dell’euro zona presentavano differenze significative anche nelle condizioni di finanza pubblica e nel tasso di crescita. I cosiddetti Paesi core (come la Germania, Austria, Olanda, Finlandia) si distinguevano per livelli contenuti di debito pubblico, per un’attività economica più solida e per un incoraggiante tasso di crescita. I Paesi invece conosciuti come “periferici” o PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) si caratterizzavano per un basso tasso di crescita del PIL (intorno al 3,3%) e per una maggiore fragilità legata a dinamiche poco sostenibili di debito pubblico, dovuta proprio all’indebitamento accumulato negli anni, all’incremento incontrollato del deficit e agli oneri delle operazioni di salvataggio degli istituti bancari in crisi.
A peggiorare una situazione già abbastanza problematica si aggiunse un’accentuata attrattiva per il conseguimento di facili profitti correlati alla aleatorietà dei mercati. Ci si riferisce infatti, in particolare, alla possibilità di realizzare elevati rendimenti mediante l’impiego di cospicui flussi di liquidità in operazioni che consentirono di trarre vantaggio da tale situazione. La presenza di consistenti debiti sovrani fece da catalizzatore negli “attacchi speculativi” verso Stati con rilevante esposizione debitoria. Questi ultimi, non in grado di resistere autonomamente a quest’azione offensiva da varie parti, in vista di un facile tornaconto, furono costretti a subire gli effetti devastanti di una condotta finanziaria contraria ai canoni del regolare ordine di mercato e soprattutto all’etica.
Fu proprio il dissesto di uno dei Paesi cosiddetti “periferici”, la Grecia, a sancire il passaggio alla nuova e ben più grave fase di crisi, quella del debito sovrano.
La storia di questo Paese si caratterizza per una disinvolta gestione delle politiche fiscali, non rispettosa dei vincoli imposti dal cosiddetto piano di stabilità e condotta
con gravi occultamenti delle reali condizioni economico finanziarie41, che ebbe come
naturale conseguenza un deficit di entità non sostenibile. Infatti già dagli inizi del 2010 in Grecia si registrò un’esplosione del debito pubblico che raggiunse oltre il 120% del PIL. A questa fece seguito un crescendo della sua posizione debitoria nei
41 Nell’autunno 2009, il neo primo ministro greco George Papandreou rivela pubblicamente che i
bilanci economici inviati dai precedenti governi greci all'Unione europea erano stati falsificati con l'obiettivo di garantire l'ingresso della Grecia nella Zona Euro.
confronti dei Paesi esteri, accompagnato dall’abbassamento dei rating da parte delle Agenzie internazionali, e una ovvia difficoltà nel reperire i fondi necessari per il mantenimento di adeguati livelli di liquidità del sistema.
La Grecia, con i suoi conti pubblici dissestati e a lungo occultati, agì da innesco ad una più marcata percezione del rischio da parte degli investitori internazionali, alimentando i timori legati ad una rapida quanto inevitabile situazione di sfiducia rispetto la moneta unica. Impossibilitato a collocare i propri titoli sul mercato, nel maggio 2010 il governo ellenico ha fatto ricorso all’aiuto dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il prestito di salvataggio approvato per la Grecia ammontò a 110 miliardi di euro (30 da parte del FMI).
Nei mesi successivi, anche l’Irlanda (novembre 2010) e il Portogallo (aprile 2011) richiesero il medesimo tipo di aiuto. Il piano di sostegno elaborato dalle istituzioni europee con la partecipazione dell’FMI per l’Irlanda contò un ammontare pari a 85 miliardi di euro. Al governo portoghese invece fu concesso un prestito di 78 miliardi
di euro dalla cosiddetta Troika42.
Le cause dei problemi che provocarono la crisi dei tre Paesi salvati dai fondi dell’Unione Europea, erano di diversa natura: di competitività il Portogallo, di finanza pubblica, di competitività e di squilibrio esterno la Grecia e di crisi del sistema bancario l’Irlanda.
Dopo Irlanda, Portogallo e Grecia, anche Cipro, suo malgrado, si ritrovò sul punto di chiedere aiuto alla comunità internazionale. La difficoltà dell’Isola cipriota nacque dalla forte esposizione che le sue tre principali banche, Banca di Cipro, Banca Popolare di Cipro e Banca Ellenica, avevano nei confronti della Grecia. L’Unione Europea stanziò per Cipro altri 10 miliardi di euro.
Il notevole aiuto monetario prestato a questi Paesi fu giustificato dal fatto che l’ipotesi di default del debito pubblico di uno Stato-euro avrebbe sollevato rilevanti criticità, dovute sia agli effetti sistemici che ne sarebbero scaturiti e che avrebbero coinvolto interessi sempre più vasti e complessi, sia perché il Paese è inserito in un sistema in cui la politica monetaria è gestita indipendentemente al solo livello
42 Con il termine troika, dal russo тройка, che significa “terzina” ci si riferisce ad un “triunvirato” di
istituzioni europee è costituita da istituzioni: Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, ognuno con i proprii rappresentanti.
europeo dalla Banca Centrale Europea, senza alcuna autonomia al livello nazionale. Si pensi solo al fatto che, nel momento in cui uno Stato non fosse stato in grado di far fronte agli impegni assunti, sarebbero stati ipotizzabili variegati eventi, ben distinti tra loro. Uno di essi, e il più preoccupante per le istituzioni europee, era la fuoriuscita di tale Paese dall’area dell’euro. Quest’eventualità poteva verificarsi anche per decisione unilaterale dello stesso Stato ed era questo il caso che l’Unione Europea voleva evitare.
Prevedibilmente, le tensioni di questi Paesi si rifletterono da subito su tutti i principali mercati finanziari, dove si registrarono cali di notevoli dimensioni, in alcuni casi comparabili, se non superiori, a quelli verificatisi nel corso della crisi del 1929.
La crisi esplose in tutta la sua gravità a partire dai primi giorni di luglio 2011, quando investì anche l'Italia e la Spagna, economie più grandi e rilevanti.
Il coinvolgimento nella crisi di questi due importanti Stati non fece altro che
aumentare il rischio paese43 sia dell’uno che dell’altro, con conseguente aumento dei
tassi d’interesse richiesti sui rispettivi titoli di Stato e rendendo più precaria la loro finanza pubblica.
Riguardo l’Italia, infatti, i tassi d’interesse andarono alle stelle, raggiugendo livelli prossimi al 7% per i titoli di Stato decennali. Il rapido aumento dei tassi comportò inevitabilmente un innalzamento del costo complessivo di rifinanziamento del debito pubblico, tra l’altro in Italia molto elevato. Lo spread, ovvero il differenziale di rendimento tra il titolo di Stato italiano e il benchmark di riferimento, in questo caso il Bund tedesco, passò in pochi mesi da valori inferiori ai 200 punti base a valori
superiori ai 500 punti base44. Una crescita così considerevole ed incisiva dello
spread fu il risultato dell’effetto combinato di due fattori importanti: da un lato l’intensificazione della percezione del rischio sovrano italiano e dall’altro la
43 Il rischio paese può essere definito come il rischio di insolvenza di operatori, siano essi pubblici
ovvero privati, legato all’area geografica dove operano e indipendente dalla loro volontà. Le attività finanziarie sono inevitabilmente influenzate dai cambiamenti degli scenari economici geo-politici. Nella definizione di rischio paese rientrano quindi tutte quelle operazioni che un soggetto effettua con controparti straniere.
44 A titolo esemplificativo, se il titolo di Stato italiano avesse un rendimento del 7% mentre il tasso
d’interesse del Bund tedesco fosse il 2%, lo spread ammonterebbe al 5% (7-2=5), ovvero 500 punti base.
preferenza da parte degli investitori nel scegliere i titoli tedeschi, considerati più
sicuri rispetto quelli italiani (il cosiddetto fenomeno del flight to quality45).
Risultò tutt’altro che trascurabile il fattore legato all’effetto contagio, ovvero la parte di spread che non deriva dalla situazione macroeconomica e di finanza pubblica del singolo Paese, ma dalla sfiducia degli operatori di mercato nei confronti dei titoli di Stato. È stato dimostrato infatti che alcuni Paesi europei, a partire dalla crisi finanziaria del 2007, hanno riscontrato una crescente penalizzazione registrata da differenziali di rendimento dei rispettivi titoli di Stato rispetto al benchmark, sempre meno influenzati dall’andamento dei fondamentali economici e fiscali e sempre più legati a fenomeni di contagio. L’effetto contagio colpì anche l’Italia, con una penalizzazione costante e progressivamente crescente con l’aggravarsi della crisi.
L’intervento da parte dell’Unione Europea avvenne, in momenti diversi, attraverso il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), costituito nel 2010 dai membri dell’area euro, con lo scopo di aiutare gli Stati membri che versavano in difficoltà economiche e finanziarie, fornendo loro prestiti, ricapitalizzando banche e comprando titoli di debito sovrano.
Più nel dettaglio, la risposta dell’Unione Europea si articolò lungo tre linee d’azione:
i) fornire assistenza finanziaria ai Paesi in crisi (Grecia, Irlanda, Portogallo
e Cipro);
ii) rafforzare i controlli sulle politiche fiscali degli Stati membri (Spagna e
Italia);
iii) stabilizzare le condizioni sui mercati monetari e finanziari.
Tali provvedimenti determinarono una mitigazione solo temporanea delle tensioni sul debito sovrano europeo, dimostrandosi agli occhi degli operatori di mercato come interventi poco risolutivi.
45 Il termine inglese «fly to quality» (o «flight to quality») significa «volo verso la qualità»: indica, sui
mercati finanziari, il momento in cui gli investitori hanno paura di qualcosa e dirigono i flussi di capitali verso beni rifugio. Tradizionali mete del «flight to quality» sono i Bund tedeschi o i T-Bond Usa, ma anche l'oro: comprando questi titoli, ritenuti sicuri, gli investitori tradizionalmente si riparano dai rischi geopolitici, finanziari o di altra natura.
Dunque per evitare che le tensioni nei mercati delle obbligazioni sovrane, a causa delle loro ripercussioni sul mercato monetario e sul credito bancario, potessero mettere a repentaglio la trasmissione omogenea della politica monetaria, la Banca Centrale Europea, oltre a decidere di continuare ad utilizzare, per il rifinanziamento delle banche, aste a tasso fisso e con pieno soddisfacimento della domanda, avviò un programma di acquisti di titoli pubblici (Securities Market Programme o SMP). Anche l’FMI si dimostrò disponibile a fornire un sostegno aggiuntivo.
Inoltre, la mancanza nell’ordinamento giuridico europeo di strumenti specifici di intervento, la lentezza e l’incertezza a livello politico nel mettere in campo nuove soluzioni finirono per accrescere il ruolo di supplenza della Banca Centrale Europea, cui più volte è stato chiesto di agire come prestatore di ultima istanza nei confronti non solo di banche e intermediari finanziari, ma anche di Stati e governi nazionali. Essere prestatore di ultima istanza significa garantire che il denaro sia sempre disponibile per pagare i detentori delle obbligazioni.
Nella zona euro la situazione è complicata dal fatto che il mercato bancario è integrato, ma il debito sovrano resta nazionale. Una crisi di liquidità è, in linea di principio, un problema di politica monetaria e richiede un intervento della Banca Centrale. La funzione di prestatore di ultima istanza, però, ricade nella zona più grigia tra politica monetaria e politica di bilancio, tanto più nel corso di una crisi sistemica, quando è incerto il confine tra i problemi di solvibilità e quelli di liquidità. Negli Stati Uniti, tracciare una netta linea di distinzione non è rilevante, perché la Federal Reserve Bank e l’Amministrazione del tesoro agiscono in modo coordinato e si garantiscono a vicenda. Diversa è la situazione dell’area euro, dove il Sistema Europeo delle Banche Centrali non può operare, per via dei veti imposti dai Trattati, al servizio né delle istituzioni finanziarie né degli Stati nazionali. Con lo scoppio della crisi del debito sovrano, i compiti e le funzioni della banca Centrale Europea sono andati notevolmente ampliandosi, al di là di quanto originariamente immaginato e i suoi interventi si fecero sempre più incisivi, configurandosi anche nel ricorso a misure straordinarie (“non standard measures”).
È doveroso inoltre, puntualizzare il ruolo che ebbero le Agenzie di Rating e i Credit
Default Swap durante la crisi pocanzi descritta. La crisi finanziaria, infatti, ha
costringendoli ad operare in un regime di maggiore trasparenza. In modo particolare è insorta la necessità di valutare in modo più accurato la solidità finanziaria di Paesi ed Istituzioni poiché la regolazione vigente non è stata capace di cogliere i punti di debolezza del sistema che la crisi ha messo in luce. Il rischio paese perciò può essere in qualche modo percepito sia attraverso il rating sia attraverso l’andamento dei Credit Default Swap (CDS) sovrani.
Per quanto riguarda le Agenzie di Rating, esse svolgono, in generale, un compito importante poiché offrono agli operatori economici, quali banche commerciali ed investitori istituzionali, informazioni sul grado di solvibilità di un Paese attraverso il Sovereign Rating: si tratta di un indicatore che esprime la capacità di un Paese di onorare le proprie obbligazioni, ovvero fornisce indicazioni rilevanti sul merito creditizio associato a tale Stato. Dunque, quando si desidera effettuare degli investimenti all’estero, il rating dà le informazioni necessarie rispetto al grado di rischio di un determinato Paese.
Più nel dettaglio, le Agenzie internazionali più importanti, Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch Investor Service, forniscono il Sovereign Credit Rating, ossia un indicatore che esprime la capacità di un emittente di onorare le proprie obbligazioni nei termini e nei limiti di scadenza. Poi gli operatori professionali orientano le proprie decisioni di investimento in base alle informazioni divulgate da tali Agenzie, avendo la possibilità in questo modo di valutarne tutti i limiti riferiti ai singoli livelli di rischio paese. A seconda della tipologia di investimento e del grado di rischio, varieranno le metodologie di rating applicate. Alla base del rating non esistono teorie specifiche; ogni Agenzia di rating utilizza proprie valutazioni qualitativo/quantitative basate su differenti parametri con lo scopo di elaborare un punteggio che verrà poi tradotto in rating. Di fatto per esprimere il giudizio, tali società considerano variabili sia di natura politica, finanziaria ed economica, sia di natura qualitativa e/o quantitativa. Ciascuna Agenzia poi predispone in maniera autonoma tali parametri con l’ausilio di metodologie statistico-matematiche per stilare una classifica che affida massima fiducia per chi occupa i primi posti ed una fiducia via via decrescente, associata ad una inadeguatezza patrimoniale o inaffidabilità creditizia. L’esercizio delle Agenzie di rating, perciò, è da considerarsi un’attività volta a rendere significativamente trasparenti i dati economico finanziari,
non solo delle imprese, ma anche degli Stati, recando un contributo di chiarezza e trasparenza ai sistemi e incrementando la possibilità per i mercati di tener conto in maniera compiuta i rischi degli emittenti. Le valutazioni espresse dalle Agenzie assolvono alla finalità di rendere noto lo stato di effettivo indebitamento dei soggetti in osservazione e, dunque, costringono sovente questi ultimi ad assumere misure correttive. In altre parole contribuiscono ad eliminare, o quantomeno ridurre, le inefficienze derivanti dall’asimmetria informativa che caratterizza il mercato. Nonostante tali fini tendenzialmente positivi a cui è volta l’attività delle Agenzie di rating, ossia una funzione che sembra preordinata alla stabilità dei mercati rivelandosi per certi aspetti complementare alla supervisione, durante la crisi del debito sovrano, il ruolo che ricoprirono tali imprese non fu del tutto a favore della