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La sempre più acuta percezione degli effetti della crisi economica successiva allo shock petrolifero del 1973; l’espansione della disoccupazione, giovanile e non, come dato stabile del mercato del lavoro: fu sulla scia di tali processi la fiducia nel binomio scuola-sviluppo entrò progressivamente in crisi, aprendo nel mondo occidentale una nuova fase non più segnata dalla fiducia incondizionata sulle sorti progressive dello sviluppo. Sia il dibattito pubblico che quello parlamentare sulla riforma della scuola ne furono influenzati, così come ne uscirono condizionati il lavoro concreto svolto nelle sperimentazioni e il più generale rapporto del mondo giovanile e delle famiglie con la scuola.

In Italia, il dibattito cominciò a prendere una piega diversa da quella assunta negli anni successivi a Frascati, spostandosi sempre più verso la questione del valore

professionalizzante della secondaria. L’importanza assunta dalla questione è dimostrata

dall’impegno (e dal ruolo) assunto in quegli anni dalle Confederazioni sindacali direttamente nel campo delle politiche educative – emerso nell’estate del ‘73 – e nella diffusione delle tesi della scuola-parcheggio su cui, nella seconda metà degli anni Settanta, si attestò buona parte della sinistra antagonista, che d’altronde era sempre stata convinta dell’irriformabilità del sistema; ma la svolta trova riscontro anche nell’evoluzione delle posizioni dei principali partiti politici, Dc e Pci in testa.

Un ruolo centrale in questa fase lo svolse infatti proprio il partito comunista. Negli anni che videro crescere il suo consenso elettorale - alle amministrative del ‘75 e infine nel voto del 20 giugno del 1976 – e che di fatto traduceva lo spostamento “a sinistra” dei primi anni Settanta, i comunisti ribadirono con forza la centralità della questione scolastica e della sua riforma, da utilizzare come grimaldello per trasformare la società nel suo complesso. In questo modo, il partito riuscì a raccogliere consensi anche in quell’ampia area trasversale alle culture politiche che sul rinnovamento della scuola era in campo da tempo. Rispetto agli anni successivi al Sessantotto, però, le strategie del partito non riuscirono a intercettare i fermenti del mondo giovanile come invece era (almeno in parte) accaduto in precedenza: la strategia del «compromesso storico», calata nel contesto dell’austerità e dei sacrifici che fu il leitmotiv della metà degli anni Settanta, anzi, portarono

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il partito in aperto scontro con i movimenti giovanili della seconda metà degli anni Settanta179.

Allo stesso tempo, fu il Pci a farsi il maggior portavoce delle istanze delle Regioni, nel periodo che va dall’emanazione della Legge 382 del 22 luglio 1975 ai decreti attuativi del DPR 616 con cui, il 24 luglio 1977, furono trasferite le funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni: il periodo, cioè, in cui si cercò di condurre a compimento il processo di regionalizzazione avviato nel 1970, rendendo evidente il problema di un generale ripensamento della funzione amministrativa pubblica di cui si fece allora interprete il giurista socialista Massimo Severo Giannini, a capo della commissione incaricata di stendere le deleghe previste dalla legge 382180.

Il tema assumeva particolare importanza nella visione comunista per il chiaro interesse a promuovere enti dove il partito avrebbe potuto governare: ma anche perché proprio nelle Regioni e nelle loro funzioni nel campo della formazione professionale il Pci riponeva le speranze per mettere un tampone al crescente problema della disoccupazione giovanile. Proprio il tema della formazione professionale e delle nuove prerogative regionali nel campo dell’istruzione mostravano le difficoltà in cui si muoveva la Dc: la necessità di non perdere terreno elettorale investendo più energie sulla riforma della scuola si scontrava con il timore per il peso crescente delle sinistre nelle amministrazioni locali e regionali. Tale prospettiva pesò come un macigno nelle successive scelte del partito in tema di riforma della scuola e, soprattutto, di riformulazione dei rapporti tra amministrazione scolastica e nuove prerogative regionali. A questo andava aggiunto, come per i comunisti, la necessità di rispondere alle difficoltà dei giovani a entrare nel mercato del lavoro. Già le conclusioni del convegno del ‘74 avevano mostrato la persistenza di posizioni incerte e di numerose ambiguità, soprattutto sul versante delle procedure: infatti, se da un lato la relazione introduttiva di Malfatti sembrò preludere all’intento di perseguire la strada della riforma “a blocchi”, cercando intanto di generalizzare il più possibile la sperimentazione dei bienni unitari, dall’altro non mancarono interventi volti a evidenziare l’ambiguità di fondo insita nelle remore ad affrontare il nodo della riforma da un punto

179 Per una visuale interna del rapporto tra partito e movimento del Settantasette si veda L. Magri,

Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 299 e sgg.

180 S. Cassese, Il politico, il riformatore, lo studioso, «Mondoperaio», 11-12, novembre-dicembre 2015,

pp. 29-33: si tratta di un numero monografico su Giannini. Cfr. Ragazzini, Rimuovere gli ostacoli, cit., pp. 22-33.

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di vista complessivo181. Inoltre, pur nel richiamo ormai tradizionale alla commissione

Biasini, la proposta democristiana fu la prima a mettere da parte il carattere onnicomprensivo della nuova secondaria teorizzata a Frascati.

Lo aveva mostrato proprio l’intervento di Malfatti in commissione istruzione. Il progetto di biennio elaborato dal ministero, infatti, mirava dichiaratamente a rafforzare il carattere professionale della secondaria superiore fin dal primo anno «in vista della riforma», tentando per questa via «un recupero della professionalità, rispetto ad altre esperienze di sperimentazioni in corso a carattere decisamente deprofessionalizzante». Si voleva così rispondere anche ai segnali sempre più negativi che arrivavano dal settore produttivo e dal mercato del lavoro, in un contesto che invece esaltava il ruolo dei sindacati nel più generale dibattito sulla riforma della scuola.

La comunicazione di Malfatti in Commissione ebbe sicuramente l’effetto di riportare l’attenzione della classe politica sul processo di sperimentazione in atto e sul rapporto che esso avrebbe dovuto svolgere nel promuovere la riforma della scuola superiore. Allo stesso tempo, rese evidente la volontà del Ministero di cambiare rotta rispetto alla direzione imboccata dopo Frascati, facendo filtrare peraltro una certa sfiducia – più o meno giustificata - nelle capacità degli istituti di portare avanti da soli un processo del genere.

Le parole del ministro attirarono sicuramente l’attenzione del Pci, preoccupato del possibile uso strumentale della sperimentazione per realizzare una «riforma strisciante». D’altronde, l’istituzione dei 17 bienni ministeriali non era passata inosservata. Già nel numero di gennaio di «Riforma della scuola», un mese prima della comunicazione in Commissione, comparve un articolo che si interrogava su quali intenzioni si celassero dietro l’azione ministeriale182.

Ne era autore Giulio Cesare Rattazzi, preside dell’Istituto Tecnico Industriale Cobianchi di Verbania, che proprio quell’anno ricevette l’autorizzazione ad avviare una sperimentazione autonoma di biennio unitario. Da un lato, egli riconobbe al Ministero il merito di aver dato avvio con l’inizio dell’anno «a quella “larga sperimentazione” nella

181 Questa fu ad esempio l’opinione di Cesarina Checcacci che, in rappresentanza dell’UCIIM,

sottolineò il pericolo di scindere biennio e triennio per la buona riuscita della riforma.

182 G. C. Rattazzi, La sperimentazione del biennio unitario tra riforma e controriforma, «Riforma della

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scuola media superiore» che avrebbe dovuto, secondo le dichiarazioni ufficiali, «concretamente caratterizzare la fase preparatoria della riforma». In effetti, dei 73 nuovi bienni unitari appena istituiti - di cui 55 con progetto autonomo - non pochi sorsero in piccoli centri «precedentemente privi di scuola media superiore», mostrando l’intenzione di voler «bloccare e contenere l’istituzione di altre scuole tradizionali» in attesa della riforma.

Tutto questo avrebbe potuto far pensare ad una «impostazione coerente» con le indicazioni della Commissione Biasini. Allo stesso tempo, però, modalità e atti d’intervento destavano «varie e congrue perplessità». Ad esempio, il piano di studi del progetto ministeriale si concretizzava in uno schema di biennio davvero «poco unitario, poco consistente e gravemente sperequato»183, in cui le opzioni risultavano

«evidentemente volte a far passare lo studente ai trienni attualmente esistenti»: insomma, una versione «rachitica» e a metà della riforma annunciata. Il punto, poi, era che l’origine stessa del progetto appariva poco limpida. In un appunto manoscritto inviato da Giuseppe Chiarante a Marino Raicich insieme alla bozza dell’articolo, Rattazzi esprimeva con chiarezza questi suoi dubbi:

La Commissione Centrale per la sperimentazione ha “elaborato” il progetto ministeriale senza informare alcuni dei suoi membri (così mi ha detto Visalberghi che ha avuto da me il “progetto ministeriale” che figurava elaborato anche da Lui). Il progetto ministeriale ha una premessa ripresa dall’UCIIM (e in buona misura condivisibile) ma non rispettata dai programmi reali successivamente indicati»184.

E nel numero di maggio di «Riforma della scuola» finiva per affermare che l’esistenza stessa di tale commissione centrale non aveva ragion d’essere,

visto che alcuni suoi Membri «ministeriali» dichiarano di non essere stati più convocati da anni e altri prendono le distanze non senza ragione per certi atteggiamenti assunti dal Ministero in tema di sperimentazione «all’ombra della Commissione» senza essere stati interpellati185.

183 Esso prevedeva ampio spazio fin dal primo anno alle materie opzionali, numerose e

raggruppate in sei blocchi, incrinando così il principio per cui il biennio avrebbe dovuto ricoprire prioritariamente un ruolo orientativo.

184 G. C. Rattazzi, Appunto con note esplicative: conservato insieme alla bozza dell’articolo “La

sperimentazione del biennio unitario tra riforma e controriforma” in AMR, IIa 20.

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Ma anche le forme di controllo esercitate sulle sperimentazioni lasciavano trapelare una concezione “elastica” di coordinamento dal taglio decisamente burocratico, a cui faceva da contraltare «l’inesistenza di controllo scientifico sui contenuti delle sperimentazioni avviate». Il problema di un approccio non propriamente partecipato alla sperimentazione si rendeva visibile non tanto nella fase preparatoria e nell’autorizzazione, preceduta sempre da una serie di incontri tra funzionari dell’Amministrazione scolastica e il personale della scuola, quanto a sperimentazione già avviata: come scriveva Rattazzi in riferimento all’esperienza del Cobianchi,

il controllo di tipo burocratico si è fatto sentire, al momento della definizione dei decreti ministeriali istitutivi, con interventi e colloqui singoli (e senza discussioni comuni) volti a “ridurre” i progetti nell’alveo delle volontà ministeriali sopra descritte.

Insomma, secondo lui sembrava profilarsi

una contrapposizione tra chi considera la sperimentazione, che è una sfida tra il vecchio e il nuovo, come una banalità, uno sfizio o un fastidio necessario; e chi le valuta invece impegnativamente, perché investe l’area della novità, della diversità, del progresso ed è un mezzo insostituibile per innestare effettive innovazioni, non troppo male e non troppo tardi186.

Nonostante Rattazzi continuasse la sua collaborazione con «Riforma della scuola» almeno fino al 1977187, egli non era comunista. Iscritto alla Dc e partecipe della vita

politica di Verbania fino al ‘78, quando divenne preside di un istituto tecnico storico torinese - l’Avogadro, ben conosciuto in quegli anni per l’alta conflittualità espressa dai suoi studenti fin dal Sessantotto - Rattazzi rappresenta tutt’al più un esempio di quell’area del paese che guardò con fiducia alla possibilità di un «compromesso storico» con i comunisti188: una sorta di “mediatore”, capace di intrattenere contemporaneamente

rapporti con esponenti politici di diverso orientamento politico, purché interessati

186 Ivi.

187 Oltre ai due articoli già citati, si veda anche quello uscito in contemporanea con la

presentazione della nuova proposta di riforma comunista agli inizi del 1977: G. C. Rattazzi, Il

difficile cammino della sperimentazione, «Riforma della scuola», 1, gennaio 1977.

188 Rattazzi, «“leader” della sinistra democristiana» a Verbania, aveva anche ricoperto il ruolo di

vice-sindaco tra ‘65 e ‘69: cominciarono allora dissidi con la direzione locale del partito che nel 1971 lo portarono alla radiazione dal gruppo consiliare e lo spinsero a istituire un gruppo autonomo che confluì nel Movimento popolare dei lavoratori (MPL) di Labor, appoggiando la giunta di sinistra allora insediatasi in città, composta da Psi, Pci e Psiup. Verbania: frattura nella

democrazia cristiana, «Corriere della Sera», 28 febbraio 1971. Sulla sua figura tornerò nell’ultimo

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seriamente alla questione della riforma della scuola emersa a Frascati; e anche di farsi portavoce di quelle istanze di decentramento delle Regioni e degli Enti locali che, come ho detto, caratterizzarono in parte il processo partecipativo e sperimentale degli anni Settanta189. Più in generale, l’articolo di Rattazzi diede voce all’opinione della maggior

parte degli operatori scolastici impegnati allora nella sperimentazione, come emerge da una serie di convegni, pubblicazioni e presentazioni pubbliche sul tema che caratterizzarono gli anni tra ‘75 e ‘77: un tema che tornò ad essere “caldo” anche perché si erano esauriti ormai i primi cicli di biennio sperimentale, mentre sul triennio permaneva ancora un alone di indeterminatezza che rischiava di vanificare il lavoro fin lì svolto. Che fossero eventi nati dalla spinta degli istituti o degli Enti locali interessati oppure organizzati direttamente dal Ministero, tutte le iniziative identificavano in sostanza gli stessi problemi di base. Innanzitutto, la mancanza di incontri periodici tra istituti coinvolti in esperienze sperimentali, e tra questi e il Ministero. Isolati tra loro, costretti ad interfacciarsi con un’istituzione che pareva intenzionata ad esercitare il controllo sul processo sperimentale nelle forme burocratiche tradizionali, rinunciando a creare le condizioni di una verifica realmente scientifica di esso, gli istituti sperimentali provarono autonomamente a costruire reti stabili di collegamento per rispondere alla “solitudine dello sperimentatore” che le attanagliava: ad esempio, proprio il Cobianchi si rese promotore insieme ad altre scuole non solo piemontesi di una serie di incontri tesi a chiarire alcune questioni improrogabili per il buon esito delle sperimentazioni190.

Questi incontri, cominciati nel marzo del ‘75, sfociarono nell’organizzazione di un “Convegno delle Scuole Medie Superiori Sperimentali Piemontesi”, svoltosi a Verbania nel febbraio del ‘76 e incentrato - come si può leggere dagli inviti e dalla relazione

189 G. C. Rattazzi, Visione globale dell’Ente Locale sui problemi della scuola, «Il Comune democratico»,

5, 1975. Rattazzi scrisse anche un intervento sulla questione dei rapporti tra Enti locali e distretti scolastici insieme al pedagogista Luciano Benadusi, all’epoca vicino a Livio Labor e all’esperienza del MPL (dove probabilmente conobbe Rattazzi) prima di passare al Partito socialista, di cui divenne uno dei responsabili dei settori scuola, università e ricerca nonché membro della Direzione nazionale dal 1978 al 1991: L. Benadusi, G. C. Rattazzi, Distretti scolastici e autonomie

locali, Verbania, Lega per le autonomie e i poteri locali del Verbano-Cusio-Ossola, 1977.

190 Così affermava Rattazzi nell’introdurre i lavori del convegno, accennando allo svolgimento di

quattro incontri precedenti; ma dalle carte conservate nell’Archivio Raicich sono riuscito ad individuarne solo tre, il primo dei quali, svoltosi a Roma, era stato organizzato in realtà dal Ministero. Si veda: Incontro tra operatori scolastici impegnati nel biennio sperimentale unitario (D.M.

17.2.1975) - Roma, 10-12 marzo 1975, in AMR IIa 19; Incontro tra istituti di scuola media superiore della regione Piemonte sedi di sperimentazione di bienni unitari - Asti, 11 maggio 1975 e Incontro tra istituti sperimentali del Piemonte e della Liguria con rappresentanti regione Piemonte, genitori, sindacali a Verzuolo (che

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introduttiva – sull’intenzione di creare una piattaforma di lavoro e discussione comune per una «proposta di schema di struttura del triennio superiore» da proporre al Ministero191. All’evento parteciparono, oltre agli istituti Piemontesi impegnati allora nella

sperimentazione192, alcune scuole di altre regioni, tutte afferenti al ramo tecnico

dell’istruzione: due istituti tecnici commerciali - il Da Passano di La Spezia e il Pacini di Pistoia - e tre istituti sui generis come I’ITSOS dell’Umanitaria, quello della Provincia di Parma e il Biennio Sperimentale istituito dalla Provincia di Milano193. Erano presenti

inoltre rappresentanti dei sindacati, dei partiti – a livello regionale e nazionale - e delle associazioni professionali. Le discussioni si concentrarono principalmente sulla questione del triennio e del suo rapporto con il mondo del lavoro, e sulla necessità di elaborare un sistema di uscite laterali dopo il biennio collegate ai sistemi di formazione regionale, ma in grado all’occorrenza di rilasciare titoli già spendibili sul mercato del lavoro194.

Le esigenze espresse dagli operatori scolastici al convegno - al di là degli aspetti più specifici legati allo schema di triennio elaborato in quell’occasione - non furono dissimili da quelle emerse in altri eventi del genere195. Il “coro” di voci proveniente dalla scuola

191 Il materiale sul convegno conservato da Raicich è copioso e sparso in più buste, ma in una di

esse (AMR IIa 20) c’è un fascicolo specifico contenente, oltre all’invito, la documentazione consegnata ai partecipanti per la discussione: lo schema di triennio elaborato dall’istituto Cobianchi (piano di studi, gruppi di materie opzionali, scopi e finalità generali), i piani di lavoro per il convegno, un bollettino interno d’informazioni con numerosi dati generali sull’istituto e, infine, un’analisi dettagliata effettuata dal Cidi delle proposte di riforma della secondaria superiore presentate in Parlamento. La relazione introduttiva del Convegno, tenuta dallo stesso Rattazzi, si trova invece in AMR IIa 18.

192 Oltre ai rappresentanti del Cobianchi, erano presenti insegnanti dell’Istituto Tecnico

Commerciale Ferrini di Verbania, del B.U.S. di Luserna (a Trento, ma facente capo al tecnico commerciale Buniva di Pinerolo) e di quello di Caluso nel torinese, del liceo scientifico Gramsci di Ivrea e del Liceo Classico di Borgosesia in provincia di Vercelli, dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura di Cuneo e di quello per l’Industria e l’Agricoltura “Olivetti” di Ivrea.

193 Tale esperienza ebbe origine nel 1969 - nel bel mezzo dell’autunno caldo e della contestazione

studentesca - per volere dell’allora presidente della Provincia di Milano, Erasmo Peracchi, e di un gruppo di intellettuali vicini all’Uciim e alla Cattolica di Milano. Lo scopo iniziale era quello di verificare l’ipotesi di «biennio unitario articolato» delineato allora dal pedagogista Carlo Perucci nel suo volume Il biennio a struttura unica articolata, scuola degli adolescenti, edito per Le Monnier nel 1969. Su questa esperienza, molto importante per Milano (e non solo), tornerò in modo approfondito più avanti.

194 Come si evince dall’introduzione con cui Rattazzi aprì i lavori del convegno: Convegno scuole

medie superiori sperimentali piemontesi - introduzione preside prof. Giulio Cesare Rattazzi, resoconto del

convegno conservato in AMR IIa, 18.

195 Come gli incontri che si svolsero a Stresa, Formia, Anzio e Roma tra maggio e giugno del ‘76,

voluti dall’Ufficio Studi e Programmazione del ministero in vista dell’organizzazione del ciclo successivo al biennio unitario e i cui atti furono pubblicati l’anno successivo: Centri Didattici Nazionali (a cura di), Atti degli incontri per la sperimentazione in corso nella scuola secondaria di 2° grado.

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pretendeva in sostanza un’assunzione di responsabilità da parte del governo, in un momento in cui si avvertiva sempre più il peso della crisi economica che attraversava il paese: sulla riforma non si poteva più tornare indietro, e le sperimentazioni avrebbero fatto la loro parte fino in fondo.

Oltre alla necessità di raccordo tra le varie esperienze, emerse con forza, quindi, la volontà di perseguire la strada della sperimentazione. Essa, si ribadiva, andava però rapportata alle esigenze di una riforma complessiva, avente quindi una prospettiva quinquennale per lo meno indicativa. La sperimentazione limitata al biennio si era rivelata un fallimento, ma si era ancora in tempo per non perdere il lavoro prezioso fin lì svolto. Il Ministero però, da parte sua, avrebbe dovuto fissare un quadro di indicazioni generali sulle finalità della scuola secondaria superiore su cui le diverse esperienze sperimentali potessero convergere. Intanto, si poteva iniziare col garantire la validità dei titoli rilasciati, ma si doveva intervenire al più presto su quegli ostacoli di natura burocratica e giuridica che ostacolavano il lavoro quotidiano degli operatori scolastici impegnati nella sperimentazione.

La strada per un nuovo stato giuridico dei docenti che i Decreti delegati avevano aperto non poteva essere percorsa senza tenere conto delle problematiche emerse nel loro lavoro196: in primis, l’urgenza di una riforma amministrativa. Tornava centrale la

questione di una riforma della scuola legata a doppio filo a una riforma dello Stato che il processo di regionalizzazione aveva innescato e che i decreti delegati avevano reso improcrastinabile. Il bisogno di garantire un controllo verticale che permettesse una verifica realmente scientifica dei processi sperimentali in corso, avvertita da tutti, non