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Bisogna dunque partire da un’ottica internazionale per cogliere i mutamenti in corso e le influenze sul dibattito in un paese che, al contrario, sembrava rimanere come “sospeso”, schiacciato dai propri problemi economici e sociali. Soprattutto, si deve partire da una messa a fuoco del modo in cui le principali forze politiche seppero percepire il nuovo quadro che andò delineandosi in quell’inizio di decennio. Ne parlò a più riprese il Censis, che in modo per la verità via via più preoccupato e allarmato nel corso degli anni, cercò di richiamare le forze politiche al loro ruolo di “governo” dei ai mutamenti “sommersi” – contraddittori, certo, ma indizio anche di vitalità inaspettata - che attraversavano allora la società italiana299: ai problemi atavici dello sviluppo ineguale del paese si sommarono

tendenze internazionali già allora evidenti che però, se governate, avrebbero potuto evitare una definitiva degenerazione del sistema-paese300. Ciò valeva anche in campo

scolastico: un territorio che mostrava enormi contraddizioni, sospeso com’era tra l’immobilismo delle sue istituzioni, ancora non riformate, e il fermento che lo attraversava dall’interno301.

Il focus del dibattito sulla scuola si spostò progressivamente dal tema della riforma legislativa a quello della necessità di gestione e razionalizzazione dei processi spontanei in atto, attraverso un confronto più stretto e un maggior coordinamento con gli altri stati europei. Allo stesso tempo, le differenti priorità e strategie prospettate sembrano confermare i limiti culturali e politici delle principali forze politiche dell’epoca.

Così, gli accorati appelli a non perdere la strada intrapresa nel decennio precedente di «Riforma della scuola» e in generale dei rappresentanti del Pci, sembrano confermare i

299 Si vedano le considerazioni generali del XII° (pp. 11-25), XIII° (pp. 9 e sgg.), XVI° (pp. 11-

27) e XVII° (pp. 11-29) Rapporto sulla situazione sociale del paese.

300 Su una certa correttezza dell’interpretazione del Censis, almeno sul piano economico-fiscale,

sembra esserci oggi abbastanza convergenza nei giudizi degli storici, così come sembra esserci sufficiente accordo sull’incapacità dimostrata allora dal sistema dei partiti di autoriformarsi: il passaggio agli anni Ottanta e la prima metà del decennio costituirebbero quindi l’ennesimo periodo di «occasioni mancate» del paese, con conseguenze di cui ancora oggi paghiamo lo scotto. M. Salvati, Occasioni mancate: economia e politica in Italia dagli anni ‘60 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2000. Più pessimista ancora Crainz, per il quale lo stato delle trasformazioni culturali e identitarie del paese già allora sembra definitivamente guasto: G. Crainz, Il paese reale, cit., pp. 15 e sgg.

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limiti della strategia dell’«eurocomunismo» di Berlinguer di fronte alle nuove sfide del decennio302. Mentre, al contrario, sulle pagine di «Scuola e città» e di «Scuola democratica»

si assiste al rinnovato interesse dell’area socialista per il dibattito europeo. D’altronde, l’opera di rifondazione operata da Craxi in vista di un inserimento del partito nel quadro del socialismo europeo - e sintetizzata nel motto scelto per la campagna politica del 1982, «governare il cambiamento» - per quanto strumentale alle strategie politiche del segretario socialista, ben rappresenta tale intenzione303. Anche Silvio Pons riconosce al Psi una

capacità di rinnovamento maggiore rispetto a democristiani e comunisti: Craxi, cioè, rappresenterebbe «la figura chiave di un’epoca che lega l’enfasi sulla leadership e sulla decisione politica con le nuove interdipendenze tendenti a mettere fuori gioco ovunque, anche se non sempre nella stessa misura, le politiche regolative e le forme di negoziazione sociale del passato»304. Al di là delle interpretazioni specifiche, che potrebbero beneficiare

in futuro di studi più approfonditi sulle alternative allora possibili, appare chiara la consapevolezza degli osservatori coevi di essere di fronte ad una svolta d’epoca: essa, però, venne letta tutta entro la categoria della “crisi”, annebbiando i giudizi e rendendo opache le strategie di risposta alle sollecitazioni provenienti dal sistema scolastico. Sfogliando i numeri di «Scuola e città», certe inquietudini emergono in effetti fin dal 1980, quando ancora la questione del testo di riforma in discussione era formalmente considerata prioritaria. Laporta ad esempio, intervenendo sulla questione dopo la caduta dei governi di solidarietà nazionale, richiamò l’attenzione sullo stato delle trasformazioni che stavano avvenendo nella secondaria305. La crisi attraversata dalla scuola, frutto di una

«sindrome da deficit»306, non era solo italiana e non riguardava solo la scuola. Per questo

302 L’«eurocomunismo» di Berlinguer è messo a tema da Silvio Pons nell’opera Berlinguer e la fine

del comunismo, Torino, Einaudi, 2014.

303 “Governare il cambiamento” fu per l’appunto il motto della conferenza programmatica del

Psi che si svolse a Rimini tra marzo ed aprile del 1982: Partito Socialista Italiano – Ufficio Programma, Governare il cambiamento: dal progetto di Torino, 1978 al programma de Rimini, 1982. Per

un’Italia che cambia le proposte del nuovo PSI, Rotostilgraf, 1982. Cfr. Colarizi, Gervasoni, La cruna dell’ago, cit., pp. 155 e sgg.

304 S. Pons, Guerra fredda e “seconda modernizzazione”, in Pons et al. (a cura di), L’Italia contemporanea

dagli anni Ottanta a oggi, Vol. I, cit., pp. 40 e sgg.

305 R. Laporta, La riforma e il suo metodo, «Scuola e città», 1, gennaio 1980, pp. 2-7.

306 Rifacendosi alle tesi del sociologo dell’educazione Ivor Morrish, Laporta distingueva due

diverse dinamiche di trasformazione dei sistemi educativi: quelle sorte da esigenze «creative», originata da «una crescita organica generata dalla medesima istituzione nel suo divenire, da una sua ansia, o almeno da una propensione a ricercare, al di là delle realizzazioni conseguite, altre possibilità di sviluppo della persona e della società»; oppure – ed è il caso italiano – quelle sorte

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il progetto di riforma risultava più che altro «il prodotto di uno sforzo di riduzione di un deficit di equilibrio nello sviluppo sociale», che richiedeva di ridefinire «i caratteri dell’attualità». Si dovevano rendere coscienti gli insegnanti e la società tutta «delle condizioni oggettive dell’economia, del mercato del lavoro, e le esigenze di formazione morale, civile, sociale» necessarie a superare la crisi in atto: il progetto di riforma, da sé, non avrebbe potuto garantire di trovare le risposte «a tutte le oscure, complesse, molteplici e forse contraddittorie richieste espresse dalla sua crisi e dalla crisi sociale che la coinvolge». Per questo, pur ribadendo la necessità di non fermare il lavoro sul testo di riforma, Laporta rimarcò la necessità che i «centri decisionali» da cui essa dipendeva superassero la «immaturità metodologica» che avevano fin lì mostrato e che si era rivelata il maggior ostacolo al processo di trasformazione della scuola tanto da render vano l’impegno e la generosità comunque dimostrati dagli operatori scolastici. Insomma, la strada della riforma si trovava adesso a un bivio obbligato: «razionalizzare anche a costo di sacrificare certi obiettivi di perequazione – si chiedeva Paolo Filippini – ovvero assicurare il massimo di democrazia pur con qualche perdita di razionalità ed efficienza?»307. Forse era arrivata l’ora di ammettere che la scuola non poteva farsi carico

di tutte le ingiustizie della società. Rinunciare completamente ad un discorso sulla meritocrazia in nome del fine di un’uguaglianza irraggiungibile se limitata al solo campo scolastico avrebbe fatto comunque il gioco della conservazione, legando solo a «fattori extrascolastici […] la sorte sociale di ciascuno»: d’altronde, continuava Filippini in un eccesso francamente inspiegabile di ottimismo, fra i meccanismi della riproduzione delle classi egemoni la scuola si era rivelata «quello meno automatico e anzi, se resa pienamente conforme alla sua finalità istituzionale, che è la formazione e la selezione delle capacità, può servire, in misura anche notevole, al ricambio delle classi dirigenti, alla mobilità sociale»308.

La crisi economica, lo si era capito, nascondeva anche importanti processi di ristrutturazione produttiva e gli effetti dell’internazionalizzazione dell’economia. Una sfida a cui sarebbe conseguita una «severissima competizione mondiale», scrisse Roberto Giannarelli su «Tuttoscuola», e che trovò un paese in colpevole ritardo anche per colpa

quando l’istituzione si rende conto di «non esser più espressione legittima» di una società «radicalmente cambiata a sua insaputa» e dai tentativi «di rimettersi in pari» con essa.

307 P. Filippini, Democrazia e razionalità nella riforma della scuola secondaria superiore, «Scuola e città», 4,

aprile 1981, pp. 160-75.

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di un sistema scolastico inadeguato: la scuola superiore in particolare, attraversata com’era da una «piena e lunghissima crisi di trasformazione» che coinvolgeva in primis il settore tecnico-professionale, rendeva arduo affrontare la sfida economica globale309.

Preoccupazioni simili attraversavano d’altronde lo stesso corpo docente, sempre più cosciente del «progressivo divergere fra la qualità della domanda di professionalità del mondo del lavoro» e le caratteristiche formative dell’istruzione tecnica e professionale310.

Allo stesso tempo, gli insegnanti continuavano a mostrare alcune resistenze al cambiamento. Secondo Gino Martinoli, la più importante di esse era una certa ostilità a considerare la scuola come un’impresa, nel timore che «dietro la proposta di una gestione ed amministrazione razionale delle risorse» si nascondesse «il proposito di privatizzare la Scuola, di destinarla solamente ai figli di élite danarose»: a suo parere invece, questa strada avrebbe permesso di elaborare «un modello ideale, in un certo senso, di un consorzio, di una collettività efficiente, con fini abbastanza chiari, cui i giovani che escono potranno ispirarsi per il resto della vita», permettendo di superare quelle manifestazioni «di indifferenza, se non di vero e proprio disinteresse» che affioravano ormai da parte di genitori, rappresentanti del mondo produttivo e dagli stessi studenti «nei confronti dei problemi scolastici in genere»311.

Nel frattempo, i partiti ripresentarono alla Camera i propri progetti e il comitato ristretto della Commissione istruzione riprese quindi a lavorare ad un testo unificato. In quei mesi, segnati da numerosi casi di corruzione che minarono la già pessima credibilità del sistema dei partiti, emerse anche lo scandalo della P2: la caduta del governo Forlani che esso provocò avrebbe aperto la strada al primo governo della Repubblica presieduto da un laico, il repubblicano Giovanni Spadolini, in un estremo tentativo di «moralizzazione della politica», fortemente sostenuta dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini312.

309 R. Giannarelli, La scuola di fronte alla sfida economica, «Tuttoscuola», 143, 19 maggio 1982, p. 23. 310 Così il preside dell’Istituto Tecnico Industriale “Olivetti” di Ivrea, Giancarlo Menis, in

occasione di un convegno organizzato in collaborazione con l’Assessorato all’Istruzione della Provincia di Torino e il comune nel maggio del 1982: G. Martinoli, Scuola come impresa?, «Scuola e città», 4, aprile 1982, pp. 170.

311 Ivi, p. 171-5.

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Al di là dei giudizi storici sulle possibilità di successo di una tale scelta, fu durante i due brevi governi di Spadolini che si succedettero tra il giugno del 1981 e il dicembre 1982 che il dibattito sulla riforma della secondaria superiore riprese vigore. Incise probabilmente l’avvertita necessità di ricostruire un senso civico in una società che sembrava aver perso la bussola anche per colpa di una scuola incapace a rinnovarsi. Proprio «Scuola e città», commentando lo scandalo della P2 e il fatto che una compagine governativa fosse caduta per la prima volta «per ragioni morali», volle sottolineare le responsabilità di un sistema scolastico che si era mostrato incapace di formare veramente alla democrazia: il «mal governo» era in fondo il frutto di una «mala scuola»313.

La discussione sul nuovo testo unificato elaborato dal comitato ristretto della Commissione istruzione riprese tra novembre e dicembre: rispetto al testo del ‘78 venne reintrodotto il biennio comune, rimarcandone il carattere orientativo, e fu snellita la configurazione delle «aree di professionalità» a cui avrebbero dovuto fare riferimento i diversi indirizzi314. Il nuovo testo sembrò avviarsi verso un veloce iter di approvazione,

senza incontrare all’apparenza grosse difficoltà. Tanto che, nell’estate, passò al Senato «per la seconda volta dopo quattro anni» l’ultima vera occasione per «una riforma generale delle superiori»315. In realtà, però, le questioni di fondo erano rimaste inevase: il tema della

professionalità nella secondaria continuò a non soddisfare nessuno, anche se per motivi differenti; d’altronde, il testo escludeva una soluzione della questione della formazione professionale e della conseguente collocazione degli istituti professionali, demandata ad altra legge apposita.

In questo contesto, il dibattito vivace che pur ne conseguì mostrò quanto fossero divaricate le posizioni e le priorità. Basti pensare che in un numero monografico di «Scuola democratica» sul tema del progetto di riforma uscito alla fine del 1982, sia Giovanni Gozzer che Marcello Vigli criticarono aspramente l’impostazione del testo,

313 Redazione di Scuola e città, La società diseducante, «Scuola e città», 6-7, giugno-luglio 1981, p.

241-2. Il mese successivo sulla stessa rivista Piero Angela, Giacomo Cives, Tullio De Mauro e Massimo Tomassini si chiesero quali competenze dovesse fornire la scuola per costruire una società realmente democratica: P. Angela, G. Cives, T. De Mauro, M. Tomassini, Competenze

necessarie per un futuro democratico, «Scuola e città», 8, agosto 1981, pp. 333-8.

314 D. Pieraccioni, Qualcosa si muove per la secondaria superiore, «Tuttoscuola», 134-135, 6-20

gennaio 1982, p. 23.

315 L. Benadusi, Riforma della secondaria: le ragioni del consenso e del dissenso, «Scuola democratica», 3-4,

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partendo però da due posizioni speculari316. Non erano i soli: di certe divaricazioni diede

conto, ad esempio, anche un convegno promosso dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale (Cnpds)317 che si svolse a Milano il 22 marzo del 1982 e in cui è possibile

osservare un “campionario” di opinioni sufficientemente vario e qualitativamente alto318.

In quella occasione, gli esperti e gli operatori della scuola presenti risultarono divisi su tutto: professionalità o orientamento; insegnamento religioso (non confessionale) o educazione civica; programmazione decentrata o razionalizzazione degli interventi dall’alto. I convenuti risultarono infine concordi esclusivamente nel denunciare i limiti del progetto in discussione, che mancava ancora una volta di definire in forma compiuta il tema della professionalità e del nuovo asse culturale, prospettando una «sorta di tecnicizzazione dei licei e di licealizzazione degli istituti tecnici»: una soluzione che in fondo non poteva soddisfare chi era preoccupato per la questione dei rapporti con il mondo del lavoro, ma neanche quanti sottolinearono il valore orientativo e di formazione del cittadino che avrebbe dovuto avere la nuova superiore319. Si aggiungano a questi

problemi gli effetti sempre più gravi della recessione: lo stesso ministro Bodrato, intervistato nel giugno di quell’anno per fare il punto sul sistema formativo, richiamò

316 G. Gozzer, Riforma della secondaria: traguardo o tappa?, e M. Vigli, La riforma che non riforma,

entrambi in «Scuola democratica», 3-4, luglio-dicembre 1982, pp. 17-24 e pp. 29-33. Il primo mise in luce come il testo si discostasse in realtà molto dal «disegno onnicomprensivo di matrice egalitaristica» di Frascati e della Commissione Biasini (aspetto per lui positivo)

317 Il CNPDS, si può leggere nel sito dell’ente, fu costituito nel 1948 dal magistrato Adolfo Beria

di Argentine al fine di studiare la prevenzione sociale. Nel passaggio di decennio esso rappresentò uno di quei “canali” attraverso cui il dibattito nazionale si aprì alle tematiche presenti nel più ampio contesto europeo e internazionale, dalle questioni legate al crescente disagio sociale nelle metropoli a quelle della formazione e dei suoi collegamenti con il mondo del lavoro.

318 Al convegno erano presenti come relatori molti docenti dell’Università Cattolica (Norberto

Galli, Giuseppe Vico e Felice Crema) e di altri atenei (Riccardo Massa e Andrea Daziano da Milano, Vittorio Telmon e Giovanni Maria Bertin da Bologna), rappresentanti istituzionali (Francesco Casati per il governo, Luciano Corradini come presidente dell’Irrsae lombardo e Clementina Longoni in rappresentanza della Regione) e di enti privati interessati alla scuola e alla formazione (Giorgio Franchi per il Cisem e Riccardo Bauer come rappresentante dell’Umanitaria).R. Massa, Il progetto di riforma della scuola secondaria superiore, «Scuola e città», 11, novembre 1982, pp. 505-7.

319 Ivi. Cfr. anche D. Rei, Professionalità e riforma della secondaria, in «Scuola viva», inserto di

«Tuttoscuola», 137, 17 febbraio 1982, p. 20. Sulla varietà di posizioni riscontrabile sul tema si veda anche la serie di interventi delle diverse parti politiche, dei sindacati, delle associazioni del mondo della scuola e degli studenti sul nuovo testo di riforma, riportate in Secondaria superiore: la

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l’attenzione sulla difficoltà di impostare una seria politica riformista in un momento in cui i lacci della borsa pubblica si stavano inesorabilmente stringendo320.

Diventa allora forse più facile capire le dichiarazioni con cui il responsabile delle politiche scolastiche del Psi, Luciano Benadusi, annunciava un profondo cambiamento di rotta del partito rispetto alle prospettive di riforma degli anni Settanta. Noi socialisti non crediamo più

alle riforme palingenetiche, dichiarò in un’intervista rilasciata a «Tuttoscuola» nel luglio del

1982321: una certa rigidità di impostazione della sociologia funzionalista aveva creato a

parer suo un «atteggiamento massimalista», alla base di una riforma che voleva essere «globale» e quindi «palingenetica», rischiando di vanificarla nel tentativo di metterla in pratica. Secondo Benadusi, le difficoltà incontrate nel portare avanti l’iter parlamentare dei progetti di riforma stavano lì a dimostrare l’impossibilità di perseguire una strategia di riforma organica: ma questo non significava né abbandonare il progetto di legge in discussione, imprescindibile per rinnovare un’istituzione impostata ancora sulla riforma Gentile, né rinunciare a trovare altre strade di intervento. Piuttosto, precisava, era opportuno che le diverse forze politiche abbandonassero «un certo facilismo o ottimismo riformista […] tipico degli anni ‘60 e ‘70, non trascurando il rischio che una riforma mal congegnata si riveli poi inutile o addirittura dannosa»322: la riforma complessiva andava

certo fatta, ma il problema alla base della crisi a «carattere planetario» delle istituzioni scolastiche non era tanto quello dell’efficienza - in realtà ben più grave in altri settori della pubblica amministrazione – quanto quello di «una crescente indeterminazione della loro funzione sociale», che apriva la strada «a settori politici e sociali di orientamento conservatore».

La sua idea, in linea con il motto «governare il cambiamento» fatto proprio allora dal Psi craxiano, fu considerata da parte comunista un segnale della scelta di Craxi di

320 Bodrato: “avremo meno soldi bisognerà spenderli meglio”, intervista tratta da «Italia ‘82 – Rapporto di

primavera», inserto di «Tuttoscuola», 145, 16 giugno 1982, pp. 9-11. L’anno successivo, dopo essersi insediato, il primo governo Craxi denunciò i livelli insostenibili ormai raggiunti dal debito pubblico, che rendevano impossibili le riforme con spesa: cominciava allora l’epoca dei “tagli” all’istruzione. A. Vinciguerra, I soldi non sono tutto, «Tuttoscuola», 172, 5 ottobre 1983, p. 5. Risulta oggi abbastanza ironico pensare che quel debito pubblico, già così alto, sarebbe quasi raddoppiato negli anni a seguire.

321 R.T., “Noi socialisti non crediamo più alle riforme palingenetiche”, «Tuttoscuola», 146-147, 7-21 luglio

1982, pp. 11-2.

322 Benadusi, La riforma della secondaria, cit., pp. 4 e sgg. Del resto, «la relativa impervietà della

scuola, e della stessa amministrazione scolastica, a una regia riformistica di tipo politico» era un dato che accomunò l’esperienza italiana a quella degli altri paesi europei.

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abbandonare la via riformista fin lì portata comunque avanti dai due partiti della sinistra. Certo, soprattutto gli anni successivi dimostrarono in parte la fondatezza di quelle paure del Pci: ciò nonostante non si può non rilevare come, di fronte alla sostanziale immobilità delle posizioni comuniste, l’analisi e la soluzione prospettate da Benadusi risultassero più convincenti, per lo meno per il loro tono pragmatico. Al mito della «scuola levatrice della mobilità sociale, del progresso economico e del consenso democratico» sorto nel dopoguerra, e «all’antimito (o mito di segno rovesciato) di stampo post-sessantottesco» che lo aveva seguito e che considerava la scuola esclusivamente come strumento di egemonia delle classi dominanti

è subentrato negli ultimi anni qualcosa d’altro. È subentrata una sorta di incertezza e di scetticismo sul ruolo della scuola, una certa sensazione di inutilità sia in una prospettiva di sviluppo che in una di conservazione [...], o almeno di inefficienza (costi troppo elevati per risultati incerti e limitati), che in una situazione di scarsa disponibilità di risorse significa retrocessione nell’ordine di priorità dei parlamenti e dei governi.

Per farvi fronte, era necessaria una «riforma-programmazione di carattere processuale, diacronico, sperimentale», che, partendo «da un’analisi degli obiettivi concreti e non ideologicamente predeterminati» si muovesse lungo più direttrici323. Era necessario,

quindi,

abbandonare ogni sorta di formalismo dogmatico e di misurarsi in modo aperto con il problema della costruzione di una scuola che sia bensì unitaria senza essere uniforme, cioè che riconosca al suo interno il pluralismo socioculturale, non imbalsamandolo così com’è, ma