• Non ci sono risultati.

Di questo mutamento la sperimentazione fu un fattore decisivo: ma cosa s’intese allora e in seguito per sperimentazione?

Come ha scritto Marcello Dei, nel tempo il termine acquisì significati plurimi, «in modo e misura sufficienti da offrire al filologo buoni spazi d’indagine»118. Secondo i fautori della

tesi dell’«ostruzionismo della maggioranza», poi, il termine venne utilizzato dai governi democristiani come strumento tattico per rinviare le riforme, facendo intanto pure bella figura in campo internazionale119.

In realtà, a ben vedere, il termine rimase sempre in bilico nella sua applicazione tra una concezione più o meno scientifica, che la voleva allora «modalità della ricerca educativa» tesa a «fornire indicazioni utili al trasferimento ed alla generalizzazione delle soluzioni»,

116 Ragazzini et al., Rimuovere gli ostacoli, cit., p. 17.

117 M. Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola secondaria superiore negli ultimi trent’anni, in S. Soldani,

G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea. II. Una società di massa, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 87-128.

118 Ivi, p. 122.

119 M. Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, Scandicci, La Nuova

Italia, 1986, p. XVI-XVII: «Come si fa, d’altro canto, a rifiutare in modo esplicito la sperimentazione? Non si può: si farebbe troppo brutta figura, anche nei confronti internazionali. Per aggirare la difficoltà basta allora far finta di sperimentare, facendo diventare tutto sperimentale [...]. Ovviamente, se tutto diviene sperimentazione, nulla cambia, e regna perciò sovrana l’improvvisazione»

51

ed un suo utilizzo come «strumento giuridico per derogare alla rigidità degli ordinamenti e per legittimare la libertà didattica rispetto alle prassi consolidate», rispecchiando in questo modo le esigenze più disparate espresse dal multiforme territorio italiano120. La

sperimentazione fu in effetti uno strumento che si prestò contemporaneamente alle esigenze di diverse forze e soggetti: a cominciare da quel fronte composito che vide in essa un mezzo per arrivare ad una più radicale trasformazione della società (con o senza riforma) e ad un pieno recupero delle diverse “periferie” del paese; mentre per altri fu una modalità con cui il centro del sistema scolastico – il ministero e la sua struttura amministrativa – tentò in un primo momento di rinnovare gradualmente la scuola e, successivamente, di governare l’effervescenza di una periferia in subbuglio che, in attesa della riforma, rischiava di gettare quel sistema nel caos. Nei fatti fu quindi una «idea polivalente» con cui testare nuove procedure didattiche e nuove forme organizzative dell’istruzione, ma che più spesso finì per essere utilizzato come breccia per modificare struttura e funzionamento della scuola, rinnovandola dove possibile in assenza di una vera e propria riforma121.

Per quanto, generalizzando, possiamo dire che la sperimentazione fosse considerata per tutti gli anni Settanta uno strumento per arrivare alla riforma della scuola e che solo successivamente, in assenza di riforme “generali”, acquisisse il significato principale di “innovazione” o “rinnovamento”, i due poli del concetto innervarono tutto il processo sperimentale, facendone uno specchio della tensione che caratterizzò i rapporti centro- periferia del paese nel suo impetuoso e ineguale processo di modernizzazione. Nel corso degli anni Ottanta, come vedremo, la sperimentazione divenne anche una modalità con cui rispondere alle crescenti richieste di una società forse sempre più frammentata, ma anche sempre più intenta a chiedere alla scuola di risolvere i molteplici problemi che l’attanagliavano, scolastici o non.

A riprova di ciò, è dalla stessa documentazione che emergono le ambiguità che caratterizzano l’utilizzo del termine sperimentazione da parte delle autorità competenti, dal quale peraltro traspare anche una sua declinazione politica: se gli istituti e gli operatori scolastici coinvolti nelle sperimentazioni furono spesso negli anni accusati di

120 Falanga, I modi della ricerca educativa, cit., p. 18.

121La sperimentazione finì quindi per indicare «una situazione scolastica in cui l’insegnamento si

atteggiava in forme, modalità o strutture difformi dalla tradizione» e per «introdurre surrettiziamente modificazioni strutturali e di funzionamento alla scuola»: Ragazzini et al.,

52

pressapochismo e faciloneria - legandosi alle polemiche, giuste o sbagliate, sulla questione della “professionalità” e della presunta “ideologizzazione” del corpo docente - anche il Ministero e l’intera Amministrazione scolastica non brillarono certo per chiarezza e capacità di guida.

Le difficoltà dell’Amministrazione, d’altronde, rendono conto della complessità di un processo sperimentale tanto contraddittorio e stratificato. Si deve tenere presente infatti che, fin dagli anni Sessanta, ogni tentativo di rinnovare la scuola secondaria superiore – dal punto di vista didattico, curricolare e ordinamentale - era passato per via sperimentale, come fu sottolineato in una pubblicazione della Direzione generale dell’istruzione classica, scientifica e magistrale del 1984122: anche in polemica con lo spirito riformista

che aveva animato il decennio precedente, la Direzione volle ricordare come la sperimentazione nelle scuole superiori risalisse almeno all’istituzione della media unica del ‘62 che convinse la stessa Direzione, nel clima di speranze creato dal Centro-sinistra, ad avviare i primi corsi pilota per l’insegnamento di alcune discipline di cui era avvertiva l’estrema inadeguatezza, in primis quelle scientifiche123. Quell’esperienza durò fino al 1970

e i corsi di aggiornamento dei docenti continuarono fino al 1973: a quella data essi riguardavano ben 3.900 classi pilota (per più di 117 mila studenti), dislocate in tutte le regioni proporzionalmente alla densità scolastica124. Una parte di quei docenti seppe fare

tesoro dell’esperienza nel momento di confrontarsi con la contestazione. La professoressa toscana Mirena Stanghellini Bernardini, ad esempio, ha raccontato l’importanza che essi ebbero nella sua formazione professionale: formazione poi spesa all’indomani del Sessantotto per avviare insieme ad alcuni colleghi una sperimentazione didattica e di ordinamento nel suo istituto, il Magistrale “Lorenzini” di Pescia, nel

122 Ministero della Pubblica Istruzione, L’istruzione classica scientifica e magistrale in Italia, monografico

di «Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione», 30, 1984.

123 Ivi, pp. 137-8. Secondo Ersilia Oricchio, che diresse l’Ufficio di Aggiornamento Insegnanti e

Metodologie (AIM) del Ministero della Pubblica Istruzione, «La carenza qualitativa dell’insegnamento scientifico nelle scuole secondarie, ancor più evidente ove si consideri l’elevato livello raggiunto sul piano degli studi e della ricerca, aveva posto in evidenza, negli anni intorno al ‘60, un problema ineludibile […] una sperimentazione di insegnamenti scientifici più aggiornati, sia nei metodi sia nei contenuti»: E. Oricchio, Aggiornamento e sperimentazione nella scuola liceale, «Annali della Pubblica Istruzione», 1-2, gennaio-aprile 1974, p. 112.

53

pistoiese125. La Bernardini ha ripercorso le tappe di questo percorso in occasione di un

convegno tenutosi nell’istituto il 5 dicembre 2007:

nel novembre del 1970 un gruppo di insegnanti di alcune città italiane [N.d.r. tra cui lei], che si erano cimentati dal 1962-63 nei “corsi pilota” per sperimentare nuovi metodi di insegnamento delle discipline scientifiche, si incontrarono a Cesenatico con un gruppo di docenti di discipline umanistiche per discutere e programmare un rinnovamento dei contenuti e dei metodi di tutte le discipline, programmando e progettando esperienze da condurre poi nei singoli istituti.

L’incontro, promosso dall’ufficio di Aggiornamento Insegnanti e Metodi (AIM) del ministero, vide la partecipazione

di ispettori centrali (Dalmasso, Beer, Piromalli, Santoro, Orlandini), presidi di istituti con classi pilota (Modestino del classico di Ferrara, Mollia dello scientifico di Rimini, Gianbattista Salinari del 22° liceo scientifico di Roma, Abbadessa dello Scientifico Righi di Bologna), oltre a molti docenti universitari e naturalmente insegnanti disponibili a fare sperimentazione. [Risale ad allora] l’inizio dell’attività sperimentale nel nostro Istituto.126

Anche i provvedimenti urgenti del ‘69, dall’esame di maturità alla quinquennalizzazione degli istituti magistrali e professionali, furono avviati in forma sperimentale127.

Tralasciando l’epopea dell’esame di Stato e la questione dei professionali, soffermiamoci invece sul ramo magistrale: un settore dell’istruzione da tempo al centro delle polemiche per il peso esercitato dall’iniziativa privata - principalmente cattolica - e che della sperimentazione fece una strategia volta a rinnovarne la veste (almeno in superficie) ed evitarne la soppressione. L’anno aggiuntivo previsto per ottenere l’accesso all’università, ad esempio, si diffuse molto rapidamente: se nell’a.s. 1970-71 i 354 corsi avviati riguardarono poco meno di 9 mila allievi (in realtà, principalmente allieve), nel 1985 poterono accedere all’università quasi 20 mila maturati magistrali che avevano seguito i 763 corsi avviati in quell’anno128.

125 Le parole della professoressa e il racconto della sperimentazione del “Lorenzini” sono

riportate sul sito dell’istituto: http://www.istitutolorenzinipescia.it/sito/2010/12/2-la-stagione- delle-sperimentazioni-1974-2010/ (url consultato il 7 giugno 2019).

126 Ivi.

127 Con enormi polemiche che, da allora, non si sono mai spente, e costituiscono tutt’oggi uno

dei principali nodi di critica della corrente storiografica, diciamo così, “gentiliana”.

54

Se poi ci spostiamo sul versante dell’istruzione tecnica, constatiamo che fin dagli anni Sessanta alcuni curricoli furono rinnovati per aggiornare o introdurre nuove figure professionali, rese necessarie e non più rinviabili dall’evoluzione tecnologica nella produzione129: così risulta da un documento conservato nel fondo dell’IRRSAE molisano

sullo stato delle sperimentazioni del settore nell’a.s. 1980-81, che conteggia tra esse non solo quelle avviate con i bienni unitari e, successivamente, con i decreti delegati, ma anche gli istituti appositamente scelti per introdurre le prime sezioni di informatica con i relativi programmi per «programmatore elaboratore dati»130.

Rimane poi impossibile mappare quel processo sperimentale spontaneo “a macchia di leopardo” che, fra anni Sessanta e Settanta, diffuse nuove metodologie - della pedagogia attiva e non solo - nelle pratiche didattiche quotidiane. Decisamente più forte (e più studiato) nella scuola dell’obbligo131, esso non risparmiò del tutto neanche la secondaria,

pur con tutte le sfumature ideologiche che talvolta lo caratterizzarono. I mutamenti nell’approccio alla professione di insegnante di scuola superiore, però, furono ancor più frammentari. Ad esempio, non potendo contare su un’associazione specifica come il Movimento di Cooperazione Educativa, essi passarono attraverso molti canali: dalle reti di amicizia e militanza alle associazioni professionali (l’Uciim, ad esempio) e sindacali; dagli Irrsae alle Regioni. Inoltre, il ricambio generazionale del corpo docente secondario, consumatosi un decennio più tardi, comportò certamente un diverso approccio alla professione nel quotidiano, legato però forse più ai generali mutamenti dei rapporti tra

129 Fin dalla piccola liberalizzazione degli accessi universitari per i tecnici del 1961 si fece più forte

la necessità di potenziare l’insegnamento scientifico e di introdurre i primi rudimenti di quella che sarebbe diventata Informatica, poi formalizzata nel 1981: si veda la presentazione a firma del direttore generale dell’istruzione tecnica, Emanuele Caruso, a Una nuova metodologia nella formazione

tecnica, «Studi e documenti degli Annali della P.I.», 29, 1984, pp. VII-XI.

130 Direzione Generale Istruzione tecnica, Lista istituti tecnici con iniziative sperimentali in Italia a.s.

1980-1981, ASI-IRRE, Molise, b. “Progetti sperimentali, comunicazioni, circolari (1980-1982)”.

Dal documento risultano attive all’epoca 145 sperimentazioni, di cui 77 al Nord (57 nel Nord- Ovest e le restanti nel Nord Est), 38 al Centro e solo una trentina nel Mezzogiorno, confermando il forte squilibrio geografico del processo sperimentale.

131 Si veda, ad esempio, il recente progetto di ricerca dell’Istituto Indire, “Memorie magistrali”,

che raccoglie testimonianze orali dirette alla documentazione cartacea del proprio archivio: le informazioni e i relativi link sono reperibili su http://www.indire.it/progetto/memorie- magistrali/. Cfr. M. Falanga, I modi della ricerca educativa nella scuola primaria, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 16-20.

55

generazioni che caratterizzarono il post-Sessantotto: un campo di ricerca questo ancora tutto da esplorare132.

Nella temperie degli anni Settanta, comunque, anche nelle superiori cominciarono ad emergere forme di sperimentazione: sia nella didattica – nuove modalità di rapporto tra docenti e studenti e il rinnovamento dei programmi – che nell’organizzazione e nella struttura ordinamentale. Si trattò di un processo non lineare, in cui spinte “dal basso” e azione ministeriale si intersecarono fino a diventare talvolta indistinguibili. In questo processo giocarono un ruolo elementi culturali locali di più lungo periodo e la diversa capacità degli istituti scolastici di costruirsi nel corso del tempo una propria identità, capace di tessere rapporti con le istituzioni presenti sul territorio e con la rete di iniziative spontanee sorte per mano di genitori, studenti e, talvolta, dell’intera comunità locale. Il Sessantotto, in questo senso, agì da detonatore, riuscendo a coinvolgere un fronte vasto di operatori scolastici e amministratori locali.

In una fase iniziale, precedente ai decreti delegati, i primi timidi tentativi di sperimentazione si mossero con difficoltà tra le maglie strette della contestazione e del confronto con lo Stato, nella mancanza totale di norme in materia. Le esperienze partirono grazie all’iniziativa di alcuni sparuti presidi e professori, che tentarono di rispondere in modo costruttivo alle sollecitazioni che arrivavano dal movimento studentesco.

Generalmente, nei pochi lavori che affrontano l’argomento, la figura del corpo docente secondario di fronte alla contestazione è tratteggiata in modo abbastanza impietoso. La tentazione di utilizzare in maniera quasi totalizzante la categoria della contrapposizione generazionale per inquadrare il rapporto tra contestatori e professori nella scuola, dipingendo questi ultimi come le “vestali della classe media”, non rende giustizia della vasta gamma di reazioni che attraversarono il corpo docente in quegli anni: la necessità

132 Oltre al classico lavoro di Santoni Rugiu, Il professore nella scuola italiana dall’Ottocento a oggi,

Roma-Bari, Laterza, 2011 (ed. or. 1959), si veda per un tentativo in tal senso C. Crivellari, I precari

di ieri: i giovani supplenti nella scuola degli anni Settanta-Ottanta, in L. Bellina, A. Boschiero, A. Casellato

(a cura di), Quando la scuola si accende. Innovazione didattica e trasformazione sociale negli anni Sessanta e

Settanta, «Venetica», 2, 2012, pp. 245-72. Sulla questione della formazione e dell’aggiornamento

docente nell’Italia repubblicana ha provato a gettare uno sguardo Pietro Causarano nel suo intervento (Storia della formazione e dell’aggiornamento nell’Italia repubblicana) al Convegno Professionale SISSCO su “La formazione degli insegnanti e la professione docente” (Perugia, 9- 11 maggio 2002): la relazione è scaricabile all’indirizzo http://www.sissco.it/articoli/la-storia- contemporanea-nelle-scuole-superiori-1345/la-formazione-degli-insegnanti-e-la-professione- docente-1417/.

56

di rivedere la funzione docente, superando le aporie tra la missione educativa della professione e gli aspetti del proprio lavoro che lo rendono paragonabile a qualunque altro funzionario dello Stato, fu un bisogno più avvertito di quel che si creda e non solo nella scuola dell’obbligo. Lo dimostrò ad esempio lo scontro tra la professoressa Margherita Marmiroli e il preside del liceo del Cremasco in cui essa insegnava, creatosi con lo scoppio della contestazione e giunto sulle cronache nazionali nel 1972. La contestazione, infatti, aveva giocato un ruolo cruciale nel rendere evidente la crisi della funzione docente tradizionale di fronte ai mutamenti della società contemporanea: una crisi che, come ebbe a dire la stessa Marmiroli in uno scambio con il preside Bonomi, mettendo spesso in conflitto «l’aspetto educativo e l’aspetto burocratico» della professione insegnante, rendeva necessario «salvare il primo senza preoccuparsi eccessivamente del secondo» per risolvere la maggior parte delle questioni che pendevano allora sulla scuola133.

Allo stesso modo, anche una certa immagine stereotipata delle nuove leve di docenti che, appena usciti dalle università occupate, cominciarono ad entrare in massa nella scuola con l’intenzione di gettare al vento tutta la tradizione scolastica precedente sembra eccessiva: per quanto non mancassero casi del genere, quel che sembra emergere in maniera preponderante è semmai una distanza sociale e culturale con la generazione di insegnanti precedente.

In questa fase furono avviati anche i primi timidi tentativi di sperimentazione di struttura e ordinamento, attraverso l’introduzione dei bienni unitari sperimentali (i BUS), che andavano ad intaccare la struttura a canne d’organo nei primi anni delle scuole superiori. Tali esperienze sorsero direttamente per iniziativa ministeriale, o da spinte autonome interne agli istituti, ma sempre attraverso difficili “mediazioni” politiche con il Ministero della Pubblica Istruzione: mediazioni in cui risultarono centrali figure come quella di Giovanni Gozzer (almeno fino alle sue dimissioni dall’Ufficio Studi e programmazione)134; di Aldo Visalberghi, che da tempo prestava la sua competenza di

133 Chiama et al., Chi insegna a chi?, cit., p. 145 e sgg.

134 Come i primi quattro bienni unitari di Aosta, Milano, Roma e Rovereto, promossi con l’arrivo

di Misasi a Trastevere: in generale, le decisioni sul tema furono prese in quel periodo dall’Ufficio Studi e programmazione diretto da Gozzer. Su questo tema e, in generale, sul dibattito sulla secondaria tra anni Sessanta e le conclusioni della commissione Biasini si veda il sempre ottimo G. Gozzer, Rapporto sulla secondaria, Roma, Coines, 1973. Con le dimissioni di Gozzer e il subentro di Paolo Prodi alla guida dell’Ufficio Studi e Programmazione del ministero nel ‘72, il compito di supervisionare le proposte di sperimentazione passò al Comitato tecnico per la sperimentazione, organo costituito con D.M. 11 ottobre 1971: esso prevedeva la presenza degli stessi direttori generali dell’istruzione liceale e tecnica, proprio per l’opportunità che, di fronte alla normativa

57

pedagogista alla battaglia politica per la riforma della scuola disegnata a Frascati135; o

anche di Marino Raicich, primo firmatario del progetto di legge comunista che, nel ‘72, aprì la strada al dibattito parlamentare sulla riforma della scuola136. L’archivio del deputato

comunista ad esempio, figura centrale per le politiche scolastiche del partito tra 1968 e 1978, rende conto dei rapporti da lui intessuti con numerosi istituti superiori d’Italia, intenzionati a mettere in atto le indicazioni di Frascati e della Commissione Biasini137:

dalle carte emergono chiaramente le difficoltà incontrate dagli operatori scolastici e dai presidi nel rapportarsi al Ministero della P.I. in mancanza di una normativa che regolasse la sperimentazione, e la conseguente necessità di affidarsi a figure prestigiose in campo politico e/o educativo per “aggirare” gli ostacoli burocratici che si frapponevano all’attuazione dei loro progetti. Come accadde ad esempio nell’iniziativa avviata già nell.a.s. 1971-72 dalla Società Umanitaria di Milano, volta a sperimentare una tipologia di istituto tecnico-professionale ad alto contenuto culturale.

La Società aveva alle spalle una lunga tradizione di sostegno ai ceti popolari e alla loro educazione, cominciata come ente morale nel 1893. In un secolo di storia si era resa protagonista di numerose iniziative all’insegna del motto «anticipare, sperimentare, risolvere» che l’avevano resa un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale: un laboratorio di arditezze sociali, come si autodefinisce in una recente pubblicazione, che aveva spaziato «dalla Casa di Lavoro alle scuole d’arti e mestieri, dagli interventi a favore dei migranti alle case operaie, dalle Case dei bambini agli uffici di collocamento, dal

vigente le condizioni di approvazione dei progetti esaminati, «fossero direttamente interessati i servizi amministrativi direzionali ai quali i singoli istituti facevano capo». Ivi, pp. 154-5.

135 Per uno sguardo sul ruolo di Visalberghi per la pedagogia italiana si guardi il volume collettaneo

curato da G. Cives, M. Corda Costa, M. Fattori e N. Siciliani De Cumis, Evaluation. Studi in onore

di Aldo Visalberghi, Caltanissetta, Sciascia, 2002; cfr. M. Morandi, La storia. Nodi teorici e fattuali di un problema pedagogico, in M. Ferrari, M. Morandi, M. Falanga, Valutazione scolastica. Il concetto, la storia, la norma, Brescia, La Scuola, 2018, pp. 73 e sgg. Sul rapporto tra ricerca e impegno civile si

veda S. Cicatelli, Scuola come ricerca e impegno civile, «La cultura», 2, 2003, pp. 329-336.

136 I primi due sembrano ad esempio essere legati all’avvio delle sperimentazioni nell’area

milanese.

137 Le carte in questione sono contenute in quattro buste conservate presso l’Archivio Marino

Raicich, donato dallo stesso all’Università di Siena nel maggio del 1996. Le buste, segnate con l’etichetta Sperimentazione, aggiornamento, reclutamento insegnanti, fanno parte della serie II Attività

politica, sottoserie “Politica culturale” (d’ora in avanti AMR IIa), bb. 17, 18, 19 e 20: significativo

che tali buste conservino, oltre alle carte sulle suddette sperimentazioni, numeroso materiale sulla Legge 382 (poi DPR 616 del 24 luglio 1977) che chiude il processo di regionalizzazione, segnalando la correlazione tra i due processi nel sentire del deputato comunista.

58

Teatro del Popolo alle biblioteche popolari»138. La sua ricca esperienza nella formazione

professionale e culturale dei ceti popolari - nonostante un passato recente non privo di difficoltà anche per l’esplodere della contestazione nel Sessantotto139 - ne facevano un

soggetto ideale per mandare avanti una delle prime esperienze sperimentali sviluppate nel paese in campo tecnico-professionale.

Anche il dibattito su questo specifico ramo dell’istruzione era iniziato prima della contestazione. Fin dai tempi della “piccola” liberalizzazione degli accessi universitari nel 1961, in effetti, era sorta l’esigenza di rivedere tale percorso per adeguarlo agli sviluppi intervenuti nel mondo della produzione e al suo bisogno di figure professionali dotate di una cultura generale ampia, capace di adattarsi al veloce progresso tecnologico e ai conseguenti mutamenti del mercato del lavoro senza per questo continuare a moltiplicare