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Gli anni definiti da Hobsbawm come «Età dell’oro» corrisposero ad un periodo di forte crescita anche nel campo dell’istruzione: i processi di sviluppo economico e sociale innescati allora, infatti, contribuirono ad una forte espansione della scolarizzazione che, almeno nei paesi occidentali, raggiunse un carattere di massa sia nella scuola dell’obbligo che nel grado secondario, provocando un mutamento dei suoi stessi fini.

A partire dagli anni Cinquanta, infatti, cominciò a diffondersi in Europa un modello di scuola che ambì ad eliminare i condizionamenti sociali che influenzano i risultati scolastici degli studenti, auspicando al contempo un aumento generale dei livelli di istruzione come precondizione per affrontare i cambiamenti repentini della società contemporanea e la crescita dei ceti medi e impiegatizi: istruzione capace di educare cittadini partecipi e attivi delle democrazie affermatesi nel dopoguerra.

In Italia tale processo fu più impetuoso rispetto ad altri paesi europei, come conseguenza dei più bassi livelli di scolarizzazione iniziali ma anche della velocità con cui, tra anni Sessanta e Settanta, tale scarto fu almeno in parte colmato92.

Sotto la spinta di questi processi l’attenzione verso il mondo della scuola nel continente e nel nostro paese crebbe costantemente. Un fronte vasto e trasversale di opinionisti e forze politiche si convinse allora della necessità di riformare in maniera organica e incisiva le strutture formative del paese nel momento in cui questo si apprestava ad entrare, pur tra molti squilibri e contraddizioni, nel consesso delle nazioni industriali.

Negli anni che il sociologo dell’educazione Phillip Brown ha indicato come “seconda ondata” di sistemi scolastici93 e che Antonio Cobalti ha identificato come il modello

92 In Italia la «crescita impressionante» della scolarizzazione nel decennio 1964-1974 portò gli

alunni della scuola elementare a 5 milioni (+12,4%), quelli delle medie a 2 milioni e mezzo (+50,2%) e quelli delle superiori a 1 milione e 700 mila (+96,8%); i tassi di scolarità nella scuola superiore passarono dal 10% del censimento del ‘51 a più del 50% di quello del ‘71: S. Santamaita,

Storia della scuola. Dalla scuola al sistema formativo, Milano, Mondadori, 2000, pp. 154-60.

93 P. Brown, The ‘Third Wave’: Education and the Ideology of Parentocracy, «British Journal of Sociology

of Education», 1, marzo 1990, pp. 65-85. Cfr. S. Brint, Scuola e società, Bologna, Il Mulino, 2007 (ed. originale 2005).

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educativo di riferimento dell’Età dell’oro e dell’epoca del «nazionalismo economico»94,

sembrò che la scuola comprensiva fosse l’’ipotesi migliore per rispondere ai bisogni di società investite da profondi processi di modernizzazione: una scuola, cioè, capace di superare le diseguaglianze sociali di partenza e il suo ruolo tradizionalmente selettivo, a favore di un ruolo orientativo e di un’idea di istruzione come «cemento sociale»95.

La scuola comprensiva prevedeva una nuova struttura curricolare basata su un asse culturale comune che fungesse da ossatura per una formazione completa di tutti gli studenti e l’organizzazione di percorsi integrativi flessibili in base alle scelte individuali degli alunni, nella convinzione che il progresso socio-economico non si sarebbe arrestato se abbinato allo sviluppo di istituzioni formative capaci di accompagnare ogni giovane, attraverso un diverso rapporto educativo, alla scoperta delle proprie attitudini e del proprio ruolo nella società.

In questo modello, iscritto nel paradigma keinesiano (e kelseniano)96, allo Stato spettava

il compito di “guidare” i processi di sviluppo attraverso una seria programmazione in grado di intervenire sugli squilibri da essi indotti: un’attenta politica di riforme “organiche” e “globali”, di cui paesi come l’Inghilterra, Svezia, Olanda e Belgio furono precursori, influenzando in parte il dibattito sulle politiche scolastiche degli altri paesi97.

Nonostante che “orientamento” e “flessibilità” rimanessero i tratti caratteristici della scuola “comprensiva” (insieme all’obiettivo di aumentare i tassi di scolarità) esistono marcate differenze tra i vari paesi nella sua attuazione concreta: allora, come oggi, parlare

94 Si veda il quarto paragrafo del primo capitolo di A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, Bologna,

Il Mulino, 2006, pp. 55-7.

95 R. Aldrich, D. Dean, P. Gordon, Education and Policy in England in the Twentieth Century, London,

Routledge, 1991, p. 102.

96 Il periodo che Cobalti definisce di «nazionalismo economico» corrisponde per Fulvio De

Giorgi all’inizio del dispiegarsi di una nuova fase nei paradigmi del potere caratterizzato dall’«interdipendenza»: se «il bipolarismo mondiale dei due blocchi e della guerra fredda» rappresentava «l’ultimo stadio dell’indipendenza», caratterizzato da «individualismo sociale» e «politeismo postulatorio» (la «vera forma della scolarizzazione occidentale»), «già negli anni ‘60 l’esigenza di un ordine globale nel segno dell’interdipendenza, oltre la guerra fredda, si rende evidente». F. De Giorgi, L’istruzione per tutti: storia della scuola come bene comune, Brescia, La Scuola, 2010, pp. 11-20.

97 B. Henkens, The Rise and Decline of Comprehensive Education: Key Factors in the History of Reformed

Secondary Education in Belgium, 1969–1989, «Paedagogica Historica. international Journal of History

of Education», 1-2, 2006, pp. 193-209; D. Limond, Miss Joyce Lang, Kidbrooke and ‘The Great

Comprehensives Debate’: 1965–2005, «History of Education», 3, Maggio 2007, 339-52; T. Haydn, The strange death of the comprehensive school in England and Wales, 1965–2002, «Research Papers in

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di “modello comprensivo” significa dire cose molto differenti a seconda che esso sia applicato in un sistema scolastico più o meno accentrato, rivolto alla scuola dell’obbligo o all’intero periodo dell’adolescenza, fase dai molteplici e complessi bisogni non sempre conciliabili con la natura anche funzionale che inevitabilmente tale istituzione ricopre. E ancora, dipende dalla formazione e dai singoli percorsi degli insegnanti chiamati ad attuare tale tipologia di scuola, al loro grado di adesione ad un orizzonte comune all’intera comunità in cui ogni istituto si trova inserito e all’impegno organizzativo e finanziario profuso dalle istituzioni centrali e periferiche chiamate ad attuarlo. Questi aspetti non sono secondari, ed invitano ad usare con cautela gli approcci di ricerca comparativi che pur sono indispensabili per comprendere l’estensione e la portata di processi che travalicano largamente i confini nazionali. Ogni confronto, infatti, dovrebbe essere fatto partendo da una conoscenza concreta e non formale dei diversi sistemi scolastici, in modo da poter separare il grano dal loglio.

Il nostro paese si presenta, ad esempio, come un caso specifico nel quadro delle nazioni che hanno tentato di costituire un modello scolastico comprensivo.

Da un lato, esso fu tra i primi ad avviare riforme in tal senso già nei primi anni Sessanta, con la media unica del 1962. Sul livello successivo, d’altronde, gravava ancora la forte ipoteca “gentiliana” che pervadeva le strutture scolastiche e lo stesso corpo docente: un vero e proprio «mito» della riforma, che percorre tutta la storia della scuola italiana nel Novecento, entrando in crisi nell’ultimo decennio del «secolo breve», nel quadro della crisi dello Stato.98

L’esplodere del Sessantotto e l’inizio della stagione dei movimenti collettivi, però, spostò sempre più l’attenzione verso i gradi superiori dell’istruzione, come dimostrano i provvedimenti urgenti con cui nel 1969 furono modificati l’esame di maturità e liberalizzati gli accessi all’Università - previa “quinquennalizzazione” dei percorsi secondari brevi come gli istituti magistrali e professionali -, cominciando al contempo l’elaborazione di un modello di istruzione secondaria superiore decisamente “aperto” dal

98 «A fronte di una politica scolastica dei piccoli passi, che procede in genere a suon di decreti e

circolari, la riforma Gentile ha continuato a incarnare anche dopo il crollo del fascismo il mito dell’intervento organico, in grado di modellare lo Stato e la società attraverso la scuola. Accanto alla riforma realizzata, progressivamente svuotata fino a sopravvivere a sé stessa, c’è stata anche un’altra riforma: quella rincorsa invano, che non ha mai potuto eludere il confronto con il modello gentiliano»: M. Galfré, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Roma, Carocci, 2017, p. 26. Sulla crisi dello Stato nel quadro europeo si veda T. Judt, Postwar. Europa 1945-2005, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 523 e sgg.

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punto di vista formale rispetto alla maggioranza dei paesi occidentali99. L’emergere della

contestazione e della partecipazione studentesca si era cioè sovrapposto al paradigma che ho sopra descritto: il dibattito sulle politiche scolastiche ne uscì profondamente mutato dovunque, con esiti diversi che rispecchiarono in un certo senso le diverse modalità con cui tale contestazione si manifestò nella scuola nelle diverse nazioni.

Dal 1970, quindi, il dibattito sulla scuola superiore acquisì sempre più spazio all’interno della generale centralità assunta dalla scuola e dai movimenti studenteschi nel discorso pubblico tra anni Sessanta e Settanta. Un dibattito in cui si riflessero questioni più generali del decennio, legate al mito politico della riforma organica e del suo ruolo come strumento di governo in grado di plasmare e direzionare la società negli anni della «Età dell’oro». Quel dibattito si innestò poi sul processo di regionalizzazione avviato nel 1970: processo che traeva origine dalla necessità di rivedere i rapporti tra Stato e autonomie locali in anni in cui forte si faceva la domanda di partecipazione proveniente dai territori e la necessità di attuare fino in fondo il dettame costituzionale.

In Italia, le estese agitazioni che colpirono gli istituti superiori - in particolare quelle dell’anno scolastico 1968-69 - impressero un’accelerazione al dibattito sulla riforma di quello specifico settore. Una delle particolarità del Sessantotto italiano infatti fu l’ampia partecipazione degli studenti medi alla contestazione, soprattutto negli istituti tecnici e professionali: partecipazione che, pur soggetta anch’essa al clima di radicalizzazione dei movimenti che seguì l’autunno caldo e piazza Fontana nel ‘69, non cessò almeno fino alla metà degli anni Settanta di identificare nella scuola il terreno principale su cui agire per intervenire sulla società nel suo complesso, contribuendo a creare un fronte riformatore trasversale alle culture politiche di appartenenza100.

La forza e velocità con cui, almeno tra anni Sessanta e primi anni Settanta, sembrò affermarsi un’idea così radicale di scuola secondaria unitaria può essere quindi una cartina di tornasole per leggere l’impeto dei processi di scolarizzazione di massa, effetto non

99 Cfr. Brint, Scuola e società, cit., pp. 107 e sgg.

100 S. Mobiglia, La scuola: l’onda lunga della contestazione, in P.P. Poggio (a cura di), Sessantotto: l’evento

e la storia, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 1989, pp. 211-29. Al di là dei giudizi ancora aperti

sulla stagione dei movimenti e le sue conseguenze sulla stagione delle riforme, sia quelle portate in fondo che quelle “mancate”, mi trovo d’accordo con Ricuperati quando scrive che «a sovraccaricare di responsabilità il movimento degli studenti […] c’è anche il rischio di non cogliere oggi [...] come la contestazione, smascherando certi limiti del riformismo, lo costringesse ad elaborazioni più complesse»: Ricuperati, La politica scolastica, cit., p. 758.

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secondario della «grande trasformazione» che investì il paese dopo la «ricostruzione»101:

la velocità con cui nuove fasce di popolazione sempre più ampie cominciarono ad affollare le aule scolastiche del paese, dai gradi più bassi a quelli più alti del sistema scolastico italiano, costrinse anche chi meno interesse aveva riposto nella scuola ad una radicale rielaborazione dei propri modelli interpretativi per comprendere il ruolo e la centralità da essa assunta nei processi di mutamento culturali e materiali del paese. Ma fu anche un chiaro segnale del peso che ebbe nella storia della scuola e del Sessantotto italiano la contestazione studentesca di quello specifico settore scolastico: essa riguardò infatti «decine e decine di scuole diverse, licei, tecnici, magistrali, professionali, dagli istituti più prestigiosi ai più modesti, nelle metropoli, nei capoluoghi e nelle cittadine di provincia, fino alla periferia più estrema»102. Il «susseguirsi di proteste, richieste, scioperi,

vertenze, occupazioni, diversi non solo da città a città, ma addirittura da scuola a scuola» mostra l’esistenza di «un calderone in cui ribolle un po’ di tutto, riformismo e contestazione globale, diritto allo studio e rifiuto della scuola, che si alternano, si intrecciano e si contraddicono»: un calderone da cui emerse la critica all’autoritarismo scolastico e didattico della scuola, attraverso la richiesta del diritto di assemblea e la volontà di sperimentare «contenuti e metodi nuovi, insieme alla richiesta di uguali opportunità per chi esce dai licei e per chi invece dai tecnici e dai professionali»; ma anche la protesta contro i disservizi ormai strutturali della scuola, aggravata dall’aumento considerevole degli iscritti, e il ridursi degli sbocchi professionali. Di questo crogiuolo, il cui unico tratto in comune sembra essere un «rabbioso e gioioso protagonismo giovanile», fu conseguenza anche un utilizzo diverso dello spazio scolastico: le polemiche sorte sui giornaletti scolastici, di cui fu emblema il caso della «Zanzara», e l’emergere delle prime autogestioni e occupazioni nelle scuole superiori segnalano prima di tutto la volontà di far sentire la propria voce nell’ambiente scolastico, di poterlo considerare proprio. Se a partire dalla seconda metà degli anni Settanta questo rapporto tra gli studenti contestatori e spazio scolastico cominciò a mutare, esso non scomparve: nel corso degli anni Ottanta si ripresentò in modo carsico, portando a domandarsi quanto delle richieste e dei provvedimenti assunti nel corso degli anni Settanta siano davvero penetrati nella scuola italiana negli anni successivi.

101 C. F. Casula, L’Italia dopo la grande trasformazione. Trent’anni di analisi CENSIS (1966-1996),

Roma, Carocci, 1999.

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Se, quindi, il Sessantotto estese il suo effetto sul campo educativo e sulle politiche correlate in tutta Europa (e oltre)103, il peso specifico assunto dagli studenti medi nel ‘68

italiano può spiegare almeno in parte la radicalità del modello comprensivo che venne costruito in Italia. La contestazione nella scuola, infatti, intercettò altre forze presenti nel corpo politico e sociale italiano dell’epoca, creando una pressione maggiore nel ridefinire l’intera struttura della scuola secondaria superiore: inoltre, va forse rivalutato il ruolo giocato dalla fase del centro-sinistra nel liberare alcune energie nella scuola e nel “predisporre” almeno una parte del corpo docente alla necessità di riformare l’istruzione in Italia104.

Nessun altro paese infatti, con l’eccezione forse della Svezia, pensò mai di estendere la comprensività all’intero percorso preuniversitario, come sembrarono invece indicare i più importanti documenti ufficiali prodotti nel periodo e come emerse nel progetto di riforma che fu avanzato a più riprese dal Pci nel corso del decennio, o in quello presentato nel 1975 dal Psi105.

Partendo dalla necessità quantomeno di rivedere l’impianto gentiliano della scuola secondaria italiana, le diverse analisi condotte negli anni seguenti sulla situazione

103 Si veda perlomeno il caso uruguagio, che presenta alcune interessanti affinità con le

caratteristiche assunte dal Sessantotto in Italia - a cominciare dalla periodizzazione, dal rapporto con la violenza politica e dal ruolo degli studenti medi – nonostante gli esiti, drammaticamente diversi: V. Markarian, El 68 uruguayo: el movimiento estudiantil entre molotovs y música beat, Universidad Nacional de Quilmes Editorial, 2012. Per l’impatto del Sessantotto sull’Europa e sulle politiche comunitarie si veda invece S. Paoli, Il sogno di Erasmo. La questione educativa nel processo di integrazione

europea, Milano, Franco Angeli, 2014.

104 Non tutti i docenti accolsero con chiusura la contestazione nelle superiori: e non si trattò per

forza di insegnanti giovani, come dimostrano le inchieste promosse all’epoca sulla repressione dei docenti più vicini al movimento studentesco che contraddistinse soprattutto il biennio 1970- 1972. Cfr. A. Chiama et al. (a cura di), Chi insegna a chi? Cronache della repressione nella scuola, Torino, Einaudi, 1972 e G. Calabria, G. Monti, La pelle dei professori. Per una tipologia della repressione nella

scuola, Milano, Feltrinelli, 1972. Per un’analisi più puntuale del confronto tra docenti e studenti si

rimanda a Galfré, La scuola è il nostro Vietnam, cit. Sulla politica scolastica del centro-sinistra è stato scritto molto (in negativo) dalla storiografia repubblicana: cfr. Crainz, Il paese mancato, cit.; ad un giudizio più positivo, che evita di cadere nel «parallelo ellittico» di giudicare quella fase storica in base al confronto tra riforme annunciate e riforme “mancate”, giunge Daria Gabusi in La svolta

democratica nell’istruzione italiana. Luigi Gui e la politica scolastica del centro-sinistra, Brescia, La scuola,

2010.

105 A guardare le esperienze degli altri paesi, ad esclusione del sistema scolastico statunitense, per

scuola secondaria comprensiva si intese di solito il primo ciclo - l’equivalente della nostra scuola media - e, tutt’al più, il biennio iniziale della secondaria superiore: ma a tutt’oggi, i sistemi scolastici di Germania, Austria e Svizzera – giusto per rimanere in Europa - mantengono una struttura differenziata precoce dei percorsi formativi, senza peraltro perderci in termini di risultati nei confronti internazionali. Brint, Scuola e società, cit., pp. 65-87.

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scolastica sembrarono progressivamente convergere verso un intervento decisamente radicale. Partendo da una visione profondamente rinnovata delle problematiche aperte dalla scolarizzazione di massa, ci si propose di cambiare in maniera profonda le strutture e il significato stesso dell’istruzione secondaria superiore: una scuola nata e sviluppata per

selezionare e canalizzare gli studenti. Seppur con sfumature molto diverse, le scelte e i

desideri delle varie parti politiche sembrarono convergere invece su un’idea di scuola

onnicomprensiva e unitaria nella struttura e democratica nella sua gestione: un modello di scuola

aperta non solo a docenti, studenti e famiglie ma, più in generale, a tutte le componenti sociali della comunità in cui si trovava ad operare. Una scuola quindi intesa come comunità

educante: capace di creare una sinergia tra gli attori della scuola e l’ambiente esterno e di

rispondere, grazie alla continua sperimentazione e al superamento del dualismo tra cultura professionale e intellettuale, alle esigenze di una società in veloce cambiamento e al bisogno di partecipazione civile emerso in quegli anni.

Tale modello di secondaria superiore fu elaborato in un importante convegno che si svolse nel maggio del 1970 a Frascati, nella sede del Centro europeo dell’educazione (Cede)106. Le sue conclusioni furono il frutto di un dibattito molto ricco, di un confronto

che coinvolse moltissimi nomi importanti della cultura pedagogica e in generale del mondo della scuola107. L’idea di scuola prospettata in quell’occasione, da attuare in tempi

lunghi attraverso dieci punti generali d’intervento, condizionò tutto il dibattito successivo e può essere considerata uno dei modelli più radicali elaborati in Europa durante l’ondata

106 Centro Europeo Educazione (a cura di), Nuovi indirizzi dell’istruzione secondaria superiore. Atti del

convegno di esperti convocato dal governo italiano in collaborazione con l’OCSE-CERI: Frascati, Villa Falconieri, 4-8 maggio 1970, Roma, Tipografia laziale, 1970. Il Ceri, organo semi-autonomo creato

nel 1968 e facente capo al Direttorato Educazione dell’Ocse, di cui rappresenta una delle principali divisioni, attualmente ha sede a Parigi: il suo scopo è sviluppare programmi indipendenti finanziati dai Paesi membri e da altre Organizzazioni ed è internazionalmente riconosciuto come uno degli organi pionieri nell’ambito della ricerca in campo educativo, come si può leggere nel sito dell’ente. Sulla nascita del Ceri e sugli interessi di grandi aziende – come la Shell Petroleum – nella sua creazione cfr. S. Paoli, Il sogno di Erasmo. La questione educativa nel processo

di integrazione europea, Milano, Franco Angeli, pp. 82-3.

107 Dai vecchi protagonisti del dibattito e delle politiche scolastiche dei primi anni Sessanta –

come Tristano Codignola, Aldo Visalberghi, Lamberto Borghi, Giuseppe Chiarante e Giovanni Gozzer – a nuove figure, primo fra tutti Marino Raicich, in forze all’ufficio scuola del Pci insieme a Chiarante proprio dall’inizio della V legislatura (giugno 1968). Tra i partecipanti italiani, oltre al professor Visalberghi - che l’aveva fortemente voluto ed organizzato - e ad uno stuolo di esperti provenienti da diversi paesi europei, furono presenti numerosi protagonisti delle battaglie e dei dibattiti scolastici di quasi un decennio, in rappresentanza di tutte le maggiori culture politiche: da Giovanni Gozzer e suo fratello Vittorio ad Antonio Santoni Rugiu e Vittorio Telmon, da Mario Reguzzoni a Mario Alighiero Manacorda, da Giuseppe De Rita a Salvatore Valitutti, oltre a Tristano Codignola.

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comprensiva: ne furono espressione a livello istituzionale i lavori e i risultati dell’apposita commissione ministeriale chiamata a tradurlo in pratica, guidata dall’allora sottosegretario all’istruzione Oddo Biasini, da cui prese il nome108, e i diversi progetti di riforma

presentati dall’intero arco politico nel biennio ‘75 e ‘77. Ne furono esempio soprattutto i Decreti delegati del 1974, quel «complicato episodio della vita politica e scolastica italiana» che costituì nei fatti l’unico gruppo di provvedimenti preso in vista della riforma109 e

quindi, nel bene o nel male, un evento dal valore periodizzante per la storia della scuola italiana110: attraverso «una legge elegante che concepiva la scuola come una comunità che

interagisse con la più vasta comunità sociale», il pacchetto di provvedimenti introdusse una serie di nuovi organi di governo della scuola che affiancò (senza sostituire) la