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Con il declino dei movimenti collettivi, però, andavano a cadere buona parte delle motivazioni che avevano giustificato l’avvicinamento del Pci al governo, oltre a quella particolare tensione ideale che aveva sostenuto più o meno unito il fronte progressista fino ad allora sul tema della riforma della scuola.

La fine dei governi di solidarietà nazionale e della VII legislatura trascinò con sé il testo di riforma passato al Senato nel settembre del 1978: declinava così quel mito della riforma che aveva segnato la storia della scuola italiana nel corso del Novecento249. Soprattutto,

sembrò d’un colpo svanire quella particolare tensione che, pur tra alterne fortune, aveva orientato il dibattito sulla secondaria nel corso degli anni Settanta. Al di là dei richiami al bisogno di non abbandonare la strada fin lì intrapresa - a detta degli osservatori una necessità improrogabile - l’alba del nuovo decennio rappresentò uno snodo importante, e non solo per il dibattito sulla scuola.

Nella crisi politica, sociale, ed economica vissuta dal paese con il passaggio di decennio, il fronte trasversale che aveva fin lì sostenuto la via di riforma impostata nel corso degli

247 Galfré, Tutti a scuola, cit., p. 268.

248 G. Gozzer, Chi governa la scuola?, «Il Tempo», 13 settembre 1978.

249 Cfr. la lettura di Angelo Semeraro, Il mito della riforma. La parabola laica nella storia educativa della

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anni Settanta in Parlamento andò in pezzi, in un processo che tuttavia non fu netto né vissuto da tutte le forze nello stesso modo.

Ad accentuare la frammentazione contribuirono diversi processi in atto, interni ed esterni al sistema paese: processi che le riviste di settore registrano e che grazie a loro siamo in grado di seguire, almeno per grandi linee.

Innanzitutto, i mutati equilibri politici di fine decennio, segnati dalla fine dei governi di solidarietà nazionale e dall’avvicinamento del nuovo Psi di Craxi all’area di governo. In tale frangente, il Partito comunista rimase isolato: la decisione di continuare a portare avanti da soli il tema della riforma organica, ribadendo le responsabilità della Dc e della sua tattica dell’«ostruzionismo della maggioranza», riflessero forse in campo scolastico difficoltà culturali e politiche più generali di fronte alle trasformazioni in atto. Esse si tradussero nella perdita di un punto di forza dimostrato dal partito nel decennio precedente: la sua capacità, cioè, di «rappresentare […] istanze economiche e sociali diffuse ma sacrificate da uno sviluppo squilibrato»250. Al contrario, l’area socialista sembrò

approfittare in positivo del riposizionamento politico e tattico avviato a partire dalla seconda metà degli anni Settanta dagli intellettuali vicini al partito. Essi mostrarono infatti di riuscire a cogliere meglio di altri il mutamento in atto nel dibattito sull’istruzione d’Oltralpe, riflettendo d’altronde le intenzioni del segretario Bettino Craxi di porsi come nuovo referente per la socialdemocrazia europea251.

I democristiani, da parte loro, oltre alla difficoltà di individuare una nuova possibile centralità nel quadro politico che andò delineandosi con il ritorno all’opposizione del Pci, furono investiti dai mutamenti più generali che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, attraversavano il mondo cattolico: ne risultò un nuovo assetto dei rapporti di potere interni tra le diverse correnti del partito, in cui giocò un ruolo non secondario il nuovo corso del Vaticano voluto da Giovanni Paolo II252. L’inizio del processo che porterà alla

250 Giovagnoli, Cattolici e politica, cit., p. 190.

251 Colarizi, Gervasoni, La cruna dell’ago, cit., pp. 85 e sgg.

252 Cfr. A. Giovagnoli, La crisi della centralità democristiana, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G.

Quagliarello, Gli anni Ottanta come storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 65 e sgg.; Id.,

Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana, in S. Colarizi, A. Giovagnoli, P.

Pombeni (a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, Vol. III, Istituzioni e politica, Roma, Carocci, 2014, pp. 185-204.

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revisione del Concordato riportò in auge la questione del rapporto tra pubblico e privato che in Italia era sempre rimasta appannaggio del mondo cattolico.

In quegli anni uscirono poi di scena molti protagonisti del dibattito e delle politiche scolastiche del decennio appena concluso: con conseguenze sul piano politico ma anche editoriale. Si prenda ad esempio «Scuola e città». La rivista aveva ricoperto un ruolo di primo piano nel dibattito sulla riforma e in generale sulla scuola tra anni Sessanta e Settanta: non solo per lo spirito che ne animava la storia e la redazione di allora, ma anche per il ruolo di Tristano Codignola, proprietario della casa editrice che pubblicava il periodico, La Nuova Italia, e per vent’anni responsabile delle politiche scolastiche del Psi253.

Come tutta la sinistra lombardiana, Codignola soffrì il mutamento di indirizzo politico promosso dal nuovo segretario del partito e, dopo aver concluso la sua personale battaglia sulla scuola media, si allontanò progressivamente dal Psi, lasciando il posto a Luciano Benadusi, esponente di quella sinistra cattolica che transitò allora nel Psi per seguire il progetto di Craxi254. Tralasciando il confronto tra le due figure, diverse dal punto di vista

generazionale come nell’impianto culturale, in questo passaggio di testimone fu la rivista a perdere qualcosa: la sua capacità cioè di essere al tempo stesso un’ottima rivista specializzata, ma anche la “tribuna politica” prima del centro-sinistra prima e poi del fronte riformatore degli anni Settanta255. In parte, questo ruolo fu ricoperto da «Scuola

democratica», rivista nata negli anni Sessanta e che acquisì sempre maggiore risonanza a partire dalla fine del decennio successivo, anche grazie alla collaborazione di Benadusi256.

253 Proprio per questo, «Scuola e città» rappresenta un’ottima fonte per seguire l’evolversi delle

politiche scolastiche socialiste negli anni del centro-sinistra e per tutti gli anni Settanta.

254 Colarizi, Gervasoni, La cruna dell’ago, cit., p. 99.

255 Per la storia della casa editrice fondata da Ernesto Codignola si veda: A. Piccioni, Una casa

editrice tra società, cultura e scuola. La Nuova Italia, 1926-1986, Firenze, La Nuova Italia, 1986.

D’altronde, è la stessa casa editrice a mostrare, in linea con tutta la Toscana, i mutati equilibri del mondo editoriale italiano nel corso del decennio: se nel 1951 Firenze e la Toscana si collocavano al secondo posto in Italia per copie pubblicate, piazzandosi dietro la Lombardia, nel 1986 essa era scesa in quinta posizione. P. L. Ballini, M. Degl’Innocenti, M. G. Rossi (a cura di), Il tempo

della Regione. La Toscana, Firenze, Giunti, 2005, pp. 61-2.

256 Benadusi era tra i promotori di «Scuola democratica», rivista nata nel 1978 con la

collaborazione del Centro di Iniziativa e di Ricerca sul Sistema Educativo e Scientifico (Cirses): essa acquisì subito spazi importanti all’interno del panorama delle riviste di settore e un certo prestigio anche a livello internazionale negli anni seguenti.

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Con il rimpasto generale degli inizi della VIII legislatura lasciò i banchi della Camera anche Marino Raicich. L’area comunista rimase orfana di una figura assai importante del dibattito e delle politiche sulla scuola negli anni Settanta, proprio nel momento in cui il partito venne a trovarsi politicamente isolato tra le ambizioni craxiane e i mutati equilibri della Dc.

In questa situazione, il fronte riformatore che aveva legato comunisti, socialisti e alcuni spezzoni della sinistra democristiana per tutti gli anni Settanta - e che aveva contribuito in maniera decisiva a perseguire la linea di Frascati e della Commissione Biasini – si sfilacciò fino a disperdersi.

Ma anche il quadro internazionale ed europeo stava mutando sensibilmente nel passaggio di decennio. Dopo il periodo della “distensione”, una serie di eventi riaccese la tensione tra i due blocchi, riportando a galla le inquietudini della Guerra fredda257. L’elezione di

Margaret Thatcher alla guida della Gran Bretagna (1979) e la prima presidenza Reagan negli Stati Uniti (1981) segnarono una discontinuità nella sostanza delle politiche poste in essere e nelle forme della comunicazione rispetto al decennio appena concluso, con ripercussioni significative su tutta l’Europa. Dopo anni di fiducia e rinnovato sforzo per costruire politiche comunitarie condivise, anche in campo formativo, cominciò a serpeggiare un certo «europessimismo» tra i governi degli Stati membri, e in quello inglese in particolare258. Proprio il settore formativo, d’altronde, viveva ormai da anni e in tutto

il mondo una crisi di cui non si riusciva ancora a trovare il bandolo259. In tale contesto,

vennero meno tutte le premesse che avevano giustificato le politiche statali, educative e non. Le prime crepe, lo abbiamo visto, erano d’altronde già visibili a metà anni Settanta. Iniziò allora un periodo grave e contraddittorio, certo, ma anche particolarmente “fluido”, in cui si aprirono spazi per ridefinire le forme della governance politica, sociale ed

257 L’invasione dell’Afghanistan prima, e poi, in successione, la rivoluzione khomeinista,

Solidarnosc in Polonia e la questione degli euromissili, tra il 1979 e 1983, segnarono un nuovo raffreddamento dei rapporti tra Urss e Usa e comportarono nuove inquietudini nelle società occidentali già provate dagli effetti della crisi economica. Per un inquadramento generale su tale fase si veda F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto, Torino, Einaudi, 2009, pp. 266 e sgg. Per l’impatto di tali eventi sul panorama politico italiano, si confronti invece S. Pons, Guerra

fredda e “seconda modernizzazione”, in S. Pons, A. Ricucci, F. Romero (a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, Vol. I Fine della guerra fredda e globalizzazione, Roma, Carocci, 2014, pp. 38-

9.

258 P. Cacace, G. Mammarella, Storia politica dell’Unione europea: 1926-2013, Roma-Bari, Laterza,

2013 (nuova ed. riv. e aggiornata), pp. 185-7.

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economica260: l’inizio di un processo di riconcettualizzazione dello Stato e delle sue

funzioni in cui, probabilmente, siamo ancora immersi261. Tale processo, nella generale

affermazione di modelli di Stato “leggero” e di politiche economiche neoliberiste, acquisì in realtà caratteristiche (e tempistiche) peculiari all’interno dei singoli contesti nazionali, di cui dobbiamo tenere conto per comprendere meglio alcune dinamiche politiche e socioculturali degli anni Ottanta262.

Sicuramente una tale cornice contribuì ad approfondire quel “senso” di crisi e “riflusso” che pervase ogni aspetto della vita civile italiana tra ‘78 e ‘82, e che abbracciò tutte le istituzioni, finendo per investire anche il sistema scolastico: esso sembrò allora incapace di assolvere ai più elementari compiti di formazione alla cittadinanza democratica e a una professionalizzazione finalizzata al mondo del lavoro.

Nel primo governo Cossiga che aprì la VIII legislatura salì al dicastero di Trastevere proprio quel Salvatore Valitutti che aveva più volte chiaramente espresso quanto considerasse «assurda» l’idea stessa di una riforma organica, tanto più se nella direzione intrapresa negli ultimi dieci anni263. Poco contò che il sostituto di Spadolini alla Minerva

fosse «un ministro di transizione in un governo di transizione», come ebbe a definirlo nel gennaio del 1980 Lucio Lombardo Radice, rivelando tutta l’irritazione e la preoccupazione del partito comunista per il nuovo quadro politico uscito dalle elezioni del giugno precedente. Era chiaro che nella scelta di un «ministro gentiliano e licealista» andava colto un segnale: il vento era cambiato e la riforma della scuola era in grave

260 Per queste tematiche si veda: T. Judt, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano,

Mondadori, 2007. Secondo Federico Romero, divenne allora «chiaramente percepibile quanto lo scenario internazionale fosse divenuto mobile e mutevole, con un inedito mix di potenziali tensioni (che esigevano cautela) ma anche di opportunità per un paese come l’Italia che voleva lasciarsi alle spalle la condizione di minorità patita in precedenza»: F. Romero, L’Italia nelle

trasformazioni internazionali di fine Novecento, cit., p. 25.

261 Galfré, Tutti a scuola, cit., p. 25.

262 Paolo Capuzzo, ad esempio, suggerisce di considerare il decennio come un periodo di

«significativa ridefinizione» dell’assetto politico e culturale del continente, «dopo la periodizzante crisi degli anni Settanta»: una ridefinizione che avrebbe acquisito tratti peculiari nei diversi paesi, per ragioni pregresse e per le diverse culture politiche impegnate a ricostruire un nuovo ordine politico ed egemonico: Capuzzo (a cura di), Gli anni Ottanta in Europa, cit., pp. 697 e sgg.

263 Sulle sue posizioni all’indomani di Frascati, ad esempio, si veda G. M. Bertin, S. Valitutti, A.

Visalberghi, La scuola secondaria superiore in Italia, Roma, Armando, 1971. Per il punto di vista dello stesso Valitutti sul suo operato e sulla situazione della scuola italiana nel passaggio di decennio si veda S. Valitutti, Otto mesi alla Minerva e quattro mesi dopo. Esperienze e riflessioni di un ministro, Roma, Armando, 1980.

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pericolo per la riorganizzazione delle «correnti restauratrici e conservatrici» che, negli anni precedenti, si erano già opposte alla linea di riforma fino a quel momento egemone264.

Sembra allora forse un grido disperato più che una reale speranza il titolo dell’editoriale che aprì il numero di marzo di «Scuola e città»: «né assurda, né impossibile», la riforma della scuola superiore andava invece portata a termine subito, per risolvere un problema «troppo incancrenito» perché ci si potesse «accontentare di mezze misure»265. Il testo già

discusso, pur con le sue pecche, poteva essere considerato un buon punto di partenza in direzione di una riforma certo «difficile», ma in grado di collocare il paese «all’avanguardia nel contesto europeo»266. Si era da poco chiuso il XIV Congresso nazionale della Dc, che

sancì per l’appunto la fine di ogni possibilità di nuovo accordo con il Pci267. Gli ostacoli

erano quelli di sempre: una situazione politica «contrassegnata da equilibri instabili e sostanziali divergenze sia fra i partiti, sia fra le correnti interne alla D.C.» che, ancora una volta, giustificava l’abbandono della riforma in discussione.

Anche Benedetto Vertecchi si scagliò contro Valitutti. A suo dire, il ministro aveva «inondato quotidiani e periodici fin dal suo insediamento» con richiami generici ad una «pretesa “serietà” da recuperare con qualche giro di vite al termine della scuola secondaria»268. Il pedagogista umbro era preoccupato per il generale abbandono «di gran

parte di quei principi che nella passata legislatura sembravano essere stati acquisiti da un ampio schieramento di forze politiche», e che già il progetto in discussione non aveva recepito: innanzitutto, si doveva tornare ad impostare un biennio chiaramente

264 L. Lombardo Radice, Una riforma che non può attendere, «Scuola e città», 1, gennaio 1980, pp. 1-

2.

265 Redazione di Scuola e città, Né assurda, né impossibile, «»Scuola e città», 3, marzo 1980, p. 97-

100.

266 Ivi. Secondo la redazione le polemiche su una generalizzata «licealizzazione» individuate nel

testo in discussione erano ingiustificate, viste le diverse aree di indirizzo individuate. Rimanevano invece aperti il problema del biennio, che avrebbe dovuto funzionare come «un congegno efficace di prima (e non irreversibile) determinazione di indirizzo» anche per chi non avesse proseguito gli studi - e a cui la formula 1+3+1 non poteva dare risposta – e quello di una definizione più chiara del concetto di pre-professionalizzazione, del resto richiesto da tutti. Di tutt’altro avviso Dino Pieraccioni, che ribadì il pericolo in atto l’anno successivo: D. Pieraccioni, Non licealizzare la

secondaria, «Tuttoscuola», 112-113, gennaio 1981, p. 15.

267 Fu in quell’occasione, infatti, che il Congresso votò il famoso “Preambolo” elaborato da

Donat-Cattin, Forlani e Piccoli con cui fu esclusa ogni possibilità di ritorno al governo con i comunisti: Cfr. A. Giovagnoli, La crisi della centralità democristiana, in Colarizi et al. (a cura di), Gli

anni Ottanta come storia, cit, pp. 65-102.

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orientativo, abbandonando la formula 1+3+1 che era stato il frutto di discussioni dal «tono bizantino»; andava poi ripresa la discussione sul nuovo asse culturale comune della secondaria - e cioè la questione del rapporto tra area comune e area d’indirizzo - visto che il testo lasciava la questione aperta; inoltre, egli si dichiarava favorevole all’introduzione dell’unità didattica, innovazione comparsa nel progetto di riforma socialista del ‘75. Non andava abbassata la guardia: «quanto non è definito dal Parlamento – avvertiva il pedagogista - rientra nella delega al governo, o diviene un territorio aperto alle scorrerie dell’apparato amministrativo»269.

Valitutti non rimase molto al Ministero della Pubblica Istruzione. I risultati del XIV congresso democristiano aprirono la strada al primo governo di Arnaldo Forlani, dopo la breve parentesi del secondo governo Cossiga e il rapidissimo passaggio a Trastevere di Adolfo Sarti dell’estate del 1980: il carosello dei governi continuava, e con loro quello dei ministri dell’istruzione. L’ultimo arrivato, Guido Bodrato, richiamò l’esigenza di un approfondimento delle questioni irrisolte, come ad esempio la questione del reclutamento dei docenti e della riforma degli organi collegiali. Allo stesso tempo, egli ribadì l’intenzione del governo di procedere rapidamente sulla strada della riforma in modo da arrestare il «processo di accentuato degrado» delle scuole superiori270: l’azione

del governo avrebbe dovuto utilizzare «un approccio ispirato a concretezza e gradualità degli interventi» per superare la crisi evidente della scuola271.

Rimase però in sospeso il nodo centrale della discussione, quello che già aveva tenuto in scacco la riforma per tutta la seconda metà degli anni Settanta: la questione della valenza professionale della secondaria. L’aggravarsi della crisi economica rese particolarmente urgente una soluzione della faccenda che comunque il vecchio testo – ed era opinione condivisa – non era riuscito del tutto a dirimere. Proprio per questo il pedagogista Giovanni Maria Bertin rilanciò nel novembre del 1979 l’invito a un serio dibattito sul tema della professionalità nella scuola superiore. La discussione, ospitata sulle pagine di «Scuola e città», volle richiamare l’attenzione sulla necessità di chiarire una volta per tutte

269 Ivi, p. 113.

270 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, VIII legislatura, Commissione VIII Istruzione e Belle

Arti, seduta del 20 novembre 1980.

271 Intervento dell’on. Beniamino Brocca durante la discussione che seguì la comunicazione di

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la valenza da dare al termine, in modo da risolvere le controversie sul concetto di unitarietà che, fin da Frascati, avevano ostacolato il processo di riforma272.

Non erano pochi, d’altronde, coloro che consideravano tale concezione «ormai archeologica», senza «corrispondente in nessun paese straniero»273: un modello con cui

nascondere quel processo di “licealizzazione” indiscriminata che stava rovinando la scuola superiore e che causava la generale “disaffezione” al lavoro che a molti sembrava caratterizzare le nuove generazioni.

Ne erano convinti anche gli imprenditori e, in generale, i rappresentanti di quel mondo produttivo con cui la scuola avrebbe dovuto creare un più proficuo rapporto274. D’altro

canto, le associazioni professionali degli insegnanti richiamarono l’attenzione sulla necessità di estendere il tema della professionalità al corpo docente e alla sua formazione. L’iter di riforma non andava abbandonato, ma doveva essere accompagnato da politiche atte a intervenire sul materiale “umano” presente nel sistema275. La questione della

professionalità docente, in particolare nella scuola secondaria, era un problema complesso perché incrociava la questione della sua formazione iniziale (e quindi dell’università e della sua riforma) e quello delle politiche attuate per l’immissione in ruolo

272 G. M. Bertin, La valenza professionale nella scuola secondaria superiore, «Scuola e città», 11, novembre

1979. Il primo a rispondere fu Lucio Lombardo Radice, con l’articolo già citato del gennaio 1980: seguirono poi nel numero di marzo gli interventi di Egle Becchi e Franco Giorgi (La valenza

professionale nella secondaria superiore) e quello sovracitato di Vertecchi.

273 D. Pieraccioni, Non licealizzare la secondaria, «Tuttoscuola», 112-113, 7-21 gennaio 1981, p. 15. 274 Si espresse ad esempio in questi termini - se non ancora più funesti e apocalittici - anche

Confindustria, ad un convegno promosso a Venezia dalla Fondazione Cini nell’aprile del 1980: «l’assistenzialismo, il garantismo, il freno alla mobilità, il conformismo culturale, l’appiattimento dei meriti» degli anni precedenti avevano alimentato, a parer loro, «un dissenso sistematico nei confronti dei valori della società industriale»; i giovani, pur condividendo il modello della società del benessere, erano indotti da scuole «sedi di trasmissione di stereotipi ideologici» a rifiutare «i sistemi produttivi che lo rendono possibile». Secondo Confindustria, quindi, si doveva subito operare per un potenziamento dell’asse scientifico, una distinzione funzionale tra scuola e formazione professionale, la valorizzazione della professionalità nell’impresa e l’inserimento di quest’ultima nel sistema formativo regionale: in questo modo, si pensava, i giovani avrebbero riapprezzato il lavoro umile e manuale. B. Vertecchi, “Una scuola per la società industriale”. Note in

margine a un convegno, «Scuola e città», 6-7, giugno-luglio 1980, pp. 310-311.

275 L. La Malfa, La FNISM: “innanzitutto la professionalità”, «Tuttoscuola», 112-113, 7-21 gennaio

1981, p. 27;,Gli insegnanti cattolici fanno il punto sulla politica scolastica, «Tuttoscuola», 115, 18 febbraio 1981, pp. 10-12; Già nel 1980, però, il Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti (Cidi)