• Non ci sono risultati.

È forse paradossale che, all’apice della sua forza elettorale, il Pci perdesse quei rapporti costruttivi con i movimenti sociali e studenteschi che, in un certo modo, avevano contraddistinto la fase centrale della contestazione e che avevano informato di sé il progetto di riforma presentato da Raicich in Parlamento nel gennaio del ‘72. D’altronde, la storiografia sull’Italia repubblicana si è interrogata a lungo su questi temi, a cominciare da Crainz che individua nel biennio in questione il “tornante” di un paese mancato proprio nel momento in cui più forti sembrarono i segnali del suo risveglio civile, nonché i frutti in chiave riformista in termini di diritti sociali acquisiti205. Ma il problema rimane ancora

aperto.

Resta il fatto che le prime elezioni degli organi collegiali rappresentano un po’ l’apice di una intensa partecipazione della popolazione e dell’opinione pubblica alla vita e alle sorti della scuola; ma le speranze riposte in loro furono subito disilluse e già dall’anno successivo si cominciò a registrare un progressivo calo della partecipazione dei genitori e degli studenti.

Tra i tanti commentatori che registrarono e si interrogarono fin da subito sul fenomeno c’era anche la rivista «Tuttoscuola», nata nel 1975 proprio allo scopo di fornire supporto a docenti, studenti e genitori nella scuola degli organi collegiali. Come specificò il direttore Alfredo Vinciguerra nell’editoriale del primo numero, la rivista voleva essere, infatti,

uno strumento di informazione, di riflessione e di stimolo a proseguire nell’iniziativa intrapresa. Dunque un giornale per gli insegnanti, i genitori e gli studenti, innanzitutto. Ma anche per chi, comunque, crede nella scuola206

Già nel secondo numero, però, un articolo di Marco Pillon commentava amaramente i primi dati sull’affluenza per le nuove elezioni, che registravano un primo calo di

204 Tassinari, Mostardini (a cura di), I bienni sperimentali in Toscana, Firenze, Le Monnier, 1976, pp.

7-10.

205 Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 419-37, e in generale tutto il capitolo XII. 206 «Tuttoscuola», 1, 2 dicembre 1975, p. 5.

85

partecipazione nei genitori207. A gennaio, di fronte a risultati finali ancor più deludenti, la

redazione intervistò Ethel Porzio Serravalle, della commissione nazionale scuola del partito repubblicano, che notava quanto tale calo riguardasse in primis i consigli di classe, giudicati «a torto troppo “tecnici”»208.

La disaffezione agli organi collegiali dei genitori continuò poi fino alla fine del decennio, tanto che, nel febbraio del 1981, il collaboratore di «Tuttoscuola» (e provveditore) Enzo Martinelli poteva chiedersi se ciò non fosse in fondo un segno dei tempi e conseguenza del «debole costume partecipativo del nostro popolo in tutte le diverse istanze istituzionali»: gli faceva eco Carlo Santonocito ad aprile, sottolineando come, con gli organi collegiali, non si fosse realizzata una «integrazione reciproca» tra docenti e genitori ma piuttosto «una stramba conflittualità, tale da paralizzare a volte la vita scolastica e da essere una delle cause di quella crisi della partecipazione ormai universalmente riconosciuta»209.

Inoltre, la seconda metà degli anni Settanta rappresentano un tornante anche per la questione giovanile, specchio della crisi generale del paese. Dal ‘75, l’emergere di esperienze come i circoli del proletariato giovanile e il fenomeno dell’autonomia diffusa segnalarono la presenza di trasformazioni in atto un po’ ovunque ma, soprattutto, nelle maggiori metropoli che rendevano il clima sociale inquieto: «l’irruzione di nuovi codici espressivi, l’occlusione dei canali di ascolto e di mediazione fra gli attori pubblici» sullo sfondo della crisi dei gruppi della sinistra extraparlamentare, segnalavano l’emergere nei giovani di alcuni caratteri che avrebbero acquisito piena visibilità soltanto con il movimento del Settantasette210. D’altronde,

207 M. Pillon, Io voto, tu voti, papà ha un po’ di disaffezione, ivi, 2, 17 dicembre 1975, pp. 12-4. 208 E. Porzio Serravalle, Chi ha paura dei consigli di classe?, ivi, 3, 7 gennaio 1976, p. 57.

209 E. Martinelli, Qui si partecipa poco e male, ivi, 4 febbraio 1981, p. 7 e C. Santonocito, I contrasti

genitori-docenti uccidono la partecipazione, ivi, 118, 1° aprile 1981, p. 10. Santonocito non si riferiva a

scontri politici e ideologici - che pure erano pane quotidiano nella scuola italiana della seconda metà dei ‘70 – ma ad un episodio successo in una scuola media del milanese, in cui i genitori di un alunno, in contrasto con il consiglio di classe, portarono il caso al TAR.

210 Come ha scritto Andrea Tanturli, è «il più generale clima sociale a trasmettere un'inquietudine

di fondo, l'irruzione di nuovi codici espressivi, l'occlusione dei canali di ascolto e di mediazione fra gli attori pubblici», come mostra la crisi nei rapporti tra l’«estrema sinistra» sorta sulla scia del Sessantotto e dell’Autunno caldo e la nuova soggettività giovanile della seconda metà degli anni Settanta. Secondo la sua lettura, «che la crisi dell'estrema sinistra epigona del Sessantotto non sia soltanto politica, ma anche antropologica, che al di fuori del suo contenitore plurale inizi a tracimare una nuova soggettività, estranea e conflittuale al tempo stesso, lo si percepisce ben

86

che la crisi dell’estrema sinistra epigona del Sessantotto non sia soltanto politica, ma anche antropologica, che al di fuori del suo contenitore plurale inizi a tracimare una nuova soggettività, estranea e conflittuale al tempo stesso, lo si percepisce ben prima che l’anno solare ‘77 dia a tutto questo un canone e una denominazione.211

In questo quadro, anche il rapporto dei giovani contestatori con la scuola sembrò mutare: per quanto manchino ancora studi specifici sull’argomento, è innegabile come le mobilitazioni giovanili della seconda metà del decennio e il movimento del Settantasette in particolare abbiano «un rapporto meno diretto con la scuola», perdendo del tutto quelle istanze riformistiche che, in parte, erano riusciti a mantenere fino ad allora212. Le energie

giovanili si riversarono invece verso la città e il più ampio ambiente sociale, come dimostra l’esperienza dei circoli, che testimonia «l’ambivalenza delle pulsioni del mondo giovanile, fra vocazione autodistruttiva e generoso impegno sociale», e l’accento posto su nuovi bisogni di natura culturale prima che materiale, di cui fu esempio la

particolare declinazione del format delle autoriduzioni in precedenza sperimentato su tariffe e affitti. Nel mirino della volontà di riappropriazione dei giovani dell’ultrasinistra ci finisce tutto ciò che è superfluo e culturale: concerti di cantautori come spettacoli cinematografici di prima visione, ma anche ristoranti di lusso e capi di abbigliamento. Difficile scindere la spontaneità dall’organizzazione, la violenza dalla creatività.213

La critica totale alle istituzioni e alla irriformabilità della società che caratterizzò allora i movimenti giovanili spinse la scuola ai margini dei propri orizzonti. Ciò non significò però per loro abbandonarne gli spazi fisici, che divennero uno dei tanti terreni di scontro

prima che l'anno solare '77 dia a tutto questo un canone e una denominazione»: A. Tanturli, Prima

linea. L’altra lotta armata (1974-1981), Roma, DeriveApprodi, 2018, pp. 100 e sgg.

211 «Mettere in continuità il Settantasette e la fase precedente, fra ‘74 e ‘76, caratterizzata

dall’incubazione del compromesso storico e dalla crisi dei gruppi extraparlamentari consente anche di contestualizzare la nascita del movimento, che, in caso contrario, sembra originarsi dal nulla. Altri tasselli troverebbero così una collocazione meno artificiosa, penso in particolar modo all’aperto conflitto con la sinistra storica e al ruolo interno alla contestazione dell’autonomia, ma anche alla critica aspra, a cui non è estranea la temperie femminista, dei modelli di militanza tradizionali»: ivi, p. 150.

212 Galfré, Tutti a scuola, cit., pp. 268-72. Come ha scritto Falciola, citando una ricerca del Censis

del ’77, «il concetto di scolarità come strumento promozionale» o di trasformazione della realtà era allora «decisamente decaduto», a causa delle condizioni del mercato del lavoro: «la divaricazione tra aspettative e realizzazioni concrete cresceva proporzionalmente al prolungamento della scolarità e acuiva sia l’intensità dei fenomeni di “squilibrio di status” sia la sensazione che le gratificazioni venissero differite a un futuro imprecisato». L. Falciola, Il

movimento del 1977 in Italia, Roma, Carocci, 2015, pp. 27-30.

87

in cui si espresse la conflittualità sociale delle metropoli. Appaiono quindi molto ottimistiche certe interpretazioni che, oggi, tendono a sottolineare la capacità della scuola italiana di rimanere in qualche modo immune dagli «esiti nefasti che segneranno la frattura psico-politica della rivoluzione del Sessantotto»214: se ciò può valere per la scuola

dell’obbligo, le scuole superiori vissero purtroppo sulla propria pelle le contraddizioni di quegli anni e la spirale innescata dallo scontro tra repressione dello Stato e lotta armata che caratterizzò la fine del decennio215.

In questo quadro, anche la sperimentazione venne tacciata di fomentare lo scontro ideologico e sociale. A metà anni Settanta, infatti, si moltiplicarono le voci ministeriali su l’esistenza di una «sperimentazione selvaggia» nella scuola. Non è chiara l’origine dell’espressione, ma da allora divenne una sorta di tautologia da utilizzare nei confronti della sperimentazione autonoma ogni qualvolta essa non rispondeva ai desideri dell’amministrazione scolastica.

Nell’immaginario pubblico, la parola “selvaggia” venne però associata alle immagini di violenza che giornali e media offrivano della scuola, in una fase in cui essa sembrava perdere la sua funzione educativa. Tra le poesie di Pietro Bonora, trevigiano del ‘43 e all’epoca docente di lettere nelle scuole secondarie, ce n’è una che ricorda questi momenti,

Il maestro216. Il testo rappresenta in qualche modo un manifesto di chi, nella generazione

passata per l’università tra i Sessanta e i Settanta, «aveva scelto di stare dalla parte degli allievi». Due strofe ricordano la sperimentazione e la percezione che la circondò in quegli anni contraddittori:

Dapprima i tentativi / per prove ed errori / alla ricerca di nuovi sentieri, / a volte selvaggia la sperimentazione / per rottura di schemi collaudati / e di maschere cristallizzate, / per proposta di parole belle e buone, / per verifica anche con accesi confronti di iniziative e di scelte; / tentativi sempre molto rischiosi / per la sopravvivenza / della coerenza e fedeltà. […] La paura di sedicenti genitori / l’invidia di maestri impotenti / gli sguardi distorti da pulsioni rimosse / alle porte bussano di politicanti, / dai seggi vischiosi ma traballanti / galeotti e

214 M. Attinà, Il Sessantotto tra mito e realtà, mistica ed illusione, strategia della tensione e riformismo scolastico,

in Il ‘68 “pedagogico”, cit., p. 67.

215 Si vedano ad esempio le pagine dedicate all’argomento da Nicola D’Amico, che per quanto

caratterizzate da uno stile “tragico” che poco si addice allo storico, rendono conto di come la scuola superiore non sia rimasta uno spazio neutrale alla conflittualità sociale dell’epoca: D’Amico, Storia e storie della scuola cit., pp. 573-4.

88

malfatti, / bussano a scatenare la macchina / devastante / contro l’indifesa fiducia / nel dialogo e nella ragione, / nella forza della verità.

Le posizioni iniziarono a polarizzarsi sempre di più, distorcendo la visuale dei problemi e contribuendo ad inasprire un dibattito che, anche nei suoi momenti più aspri, era stato condotto fino ad allora su un piano di confronto. Si pensi ad esempio alle scelte editoriali della piccola ma combattiva Armando di Roma, che aveva accolto tra i suoi collaboratori anche Giovanni Gozzer, dopo le sue dimissioni dall’Ufficio studi e programmazione del Ministero nel 1972217.

Oltre a pubblicare mensilmente un bollettino di informazioni particolarmente critico con il ministero, a partire dal 1975 l’Armando curò la pubblicazione di opere al vetriolo contro «la scuola di massa dello sfascio» e i suoi “miti” negativi: da don Milani ai «“sociologi- stronca-tutto”, tipo Umberto Eco»; senza dimenticare «i Dario Fo “dell’antipolizia”» e «gli stessi sindacati del picchettaggio e degli scioperi selvaggi»218. Sul banco degli imputati

finirono quelle esperienze che abbiamo visto rientrare nella normativa dell’art. 2 del DPR 419/74: quei tentativi di rinnovare contenuti e metodi della didattica, considerati a torto o a ragione estremamente ideologizzati, che i docenti – delle superiori ma, soprattutto, della scuola dell’obbligo - stavano portando avanti senza possibilità di un reale controllo ministeriale. Ma essa si estese per contagio alla sperimentazione in generale e al più ampio dibattito in corso sulla riforma della scuola. Proprio la collana avviata dalla Armando nel ‘75, significativamente denominata Controcampo, riassume le idee di quella parte del paese che, allora, si opponeva alla linea di riforma della scuola portata avanti e, più in generale, alle prospettive di compromesso storico che si profilavano all’orizzonte. Quella collana sarebbe durata un decennio, collezionando un centinaio di titoli che riassumono «tutta la resistente, e assolutamente minoritaria, cultura dell’opposizione alla resa incondizionata» a tale epoca, come ebbe a dire Gozzer in un’intervista del 1997. In quelli che egli chiama gli «anni Armando», la sede dell’editore romano divenne «sì un porto di mare, ma nel quale si incontravano i migliori cervelli non arresisi al clima

217 L’intervista del 1997 di Paolo Tessadri è ora riproposta in Q. Antonelli, R. G. Arcaini (a cura

di), Giovanni Gozzer a 100 anni dalla nascita. Atti del seminario di studi (Trento, 3 dicembre 2015), Trento, Provincia autonoma di Trento, 2016, pp. 87-173.

218 Sono le parole dell’editore che introducono G. Asaro Mazzola, La scuola della resa.

Controdizionario, Roma, Armando, 1978. Rientrano in questo periodo altre pubblicazioni

dell’editore come E. Fiorentini, Scuola addio! lettera ai genitori delegati (1975), L. Lami, La scuola del

89

sinistreggiante e alla cultura della rinuncia mascherata da compromesso, più o meno storico». Da lì partiva

una mitragliata di critiche all’operato del ministero che era un implacabile specchio del malaffare ministeriale e governativo di quegli anni in balia di un sindacalismo politicizzato, cui le leggi assembleari- consiliari del ‘73 e lo statuto Brodolini avevano dato poteri sostanzialmente istituzionali. E nella critica a quel mix di potere e cedimento, l’editoria armandiana non era indulgente. […] Bene o male proseguivamo, anche se appartati rispetto alla cultura dominante e irrespirabile (come facessero a non accorgersi della mefiticità quelli che ne scopersero le devastazioni dopo il Muro e quelli che ancora non l’hanno scoperta, non mi è dato capire) la nostra battaglia per una scuola “giusta e seria”. E in questo Armando era un grande combattente di prima linea. In quegli stessi anni il dibattito politico sulla scuola era dominato dalla mai conclusa riforma dell’istruzione secondaria, in cui si alternavano progettualità parlamentari a flusso continuo, inchieste, audizioni, sperimentazioni selvagge alla Bufalotta (mai nome fu più appropriato di quello che diede battesimo allo squinternato brandello di liceo autogestito che dal centro di Roma si trascinò in periferia, “occupando” una specie di topaia). Pubblicammo da Armando, a quattro mani con l’ex ministro Valitutti, altra colonna dell’editoria della Gensola, un libro di durissima critica alla progettata riforma (La riforma assurda, 1982). Con la firma di Valitutti un vero schiaffo a quella progettazione insensata, con cui ci si intestardiva a costruire una scuola secondaria “unitaria ad opzioni” (l’unità era la fissazione del PCI, le opzioni erano la finzione con cui la DC intendeva salvarsi l’anima).219

Il riferimento alla sperimentazione Bufalotta è indicativo: si trattava di una delle esperienze a cui aveva fatto riferimento Malfatti nel già citato intervento in commissione del febbraio ‘75. L’esperienza del Liceo unitario sperimentale della Bufalotta, alias Liceo di via Panzini, oggi Liceo Aristofane, è ancora tutta da scrivere220. L’appoggio dei genitori

degli alunni delle sezioni sperimentali è comprovato dall’esistenza di un Consiglio inter- comitati scuola famiglia unitario, costituitosi nel luglio del 1973 insieme alle sperimentazioni del liceo Giulio Cesare e del XXII Liceo di Roma «per coordinare l’azione dei genitori e degli alunni a sostegno della sperimentazione pratica della Riforma

219 Antonelli, Arcaini (a cura di), Giovanni Gozzer a 100 anni dalla nascita, cit., pp. 159 e sgg. 220 Nell’archivio Raicich è conservato un fascicolo sull’origine e lo sviluppo di questa

sperimentazione, nata allo scopo di applicare i metodi didattici della Montessori anche nella scuola superiore: il fascicolo, Progetto di quinquennio unitario sperimentale del Liceo ginnasio statale

sperimentale di Via Panzini/via della Colonia Agricola, è conservato in AMR, IIa 19. Sull’esperienza,

oltre alle notizie reperibili sul sito della scuola (https://www.liceoaristofane.edu.it/la-storia/), esiste un blog (https://liceosperimentale.weebly.com/il-lus.html) e, addirittura, una voce su wikipedia.

90

della Scuola Media Superiore»221. Insieme all’ITSOS dell’Umanitaria e a quello istituito

dalla Provincia di Parma nel ‘74, queste quattro esperienze vennero utilizzate da Malfatti per mettere in risalto i costi e l’abnorme piano orario settimanale della sperimentazione autonoma, più che la sua presunta ideologizzazione222.

Al liceo Panzini, ad esempio, le dieci ore settimanali di materie opzionali ed elettive si articolavano su 48 insegnamenti (per un totale di 209 ore settimanali d’insegnamento): essi si sviluppavano «in un ventaglio amplissimo che va dal corso monografico sull’Irlanda all’astronomia, da Lutero al corso monografico su Petrolini, dalla genetica alla serigrafia, dalla meteorologia a Carlo Marx, dal corso sul Meridione all’elettronica»223

L’eccessivo carico settimanale del tempo pieno, oltre a non soddisfare ragazzi costretti a rimanere negli spazi scolastici anche cinquanta ore, comportava un innalzamento innaturale dei costi per la rigidità delle divisioni delle cattedre, che costringevano gli istituti a richiedere un gran numero di docenti per coprire le materie comuni, opzionali ed elettive. Un collaboratore della «Gazzetta di Parma», A. S., attaccò per questi motivi l’ITSOS locale: più insegnanti che alunni ai bienni unici sperimentali, titolava un suo articolo del 21 marzo 1975, e due giorni dopo rincarava la dose segnalando i milioni spesi per un’esperienza che non stava dando «alcun risultato didattico». Nel mirino finivano i bienni unitari in generale:

questi – scriveva nel primo articolo - avrebbero dovuto servire per facilitare l’avvio della riforma della scuola superiore. Ma poiché la riforma è in corso di attuazione, ed in essa di esperimenti non se ne parla nemmeno, o lo si fa in modo assolutamente diverso, si ha l’impressione che questi “bienni” altro non siano che un magnifico castello sulle nuvole224

Del resto, la questione del costo dei docenti era stata segnalata al gabinetto di Malfatti già al momento del suo insediamento a Trastevere nel luglio del ‘73. Il consigliere ministeriale aggiunto Giovanni Rappazzo lo aveva sottolineato nella sua relazione sulla sperimentazione in corso a Milano, nel biennio istituito dalla Provincia. L’esperienza, in

221 Comunicazione costituzione “Consiglio inter-comitati scuola famiglia unitario” comitati del

Liceo Unitario di via Panzini (“Aristofane”), “Liceo XXII” e “Liceo Giulio Cesare”, 16 luglio 1973, in AMR, IIa, 20.

222 Malfatti, Appunti sulle sperimentazioni in atto, cit. 223 Ivi.

224 A.S., Più insegnanti che alunni ai bienni unici sperimentali, «Gazzetta di Parma», 21 marzo 1975; Id.,

91

effetti, coinvolgeva 26 docenti (per 95 alunni totali), e il suo costo, che all’inizio ricadeva in parte sull’ente provinciale e in parte sugli insegnanti distaccati tramite i “comandi”, finì per essere tutto «a carico dello Stato»225.

Già nel ‘71 il provveditore agli studi di Milano, Alberto Leo, aveva sentito l’esigenza di inviare una minuta al ministero per «prospettare tutta una serie di questioni dalla risoluzione delle quali dipendeva», a suo avviso, «il corretto funzionamento - almeno per quanto riguarda l’aspetto amministrativo contabile - della sperimentazione in oggetto»226.

Sembrano quindi questi i reali motivi alla base dei conflitti tra istituti sperimentali e ministero, più che l’eccessivo ideologismo o i risultati didattici delle esperienze in atto. Gli istituti sperimentali, da parte loro, un po’ si ritrovarono nella mischia e un po’ ne furono parte attiva, ma mostrarono spesso una naturale tendenza a “preservarsi” dai tentativi di chiusura del ministero. Talvolta, le speranze riposte nella sperimentazione - o, molto più spesso, le paure per la perdita di valore del titolo di studio – spinsero i genitori ad unirsi a studenti e docenti nel formare un fronte unico: e questo non solo a Parma o negli istituti romani.

È quello che successe ad esempio anche al Liceo di Borgo, a cui ho fatto cenno prima. L’amministrazione comunale di Borgo si era resa conto che un liceo scientifico non era stata la scelta migliore per i bisogni della popolazione scolastica locale. Il crescere dei «disagi» intorno alla secondaria superiore, non ultimi gli effetti della disoccupazione intellettuale che colpiva un numero sempre più alto di giovani diplomati nel paese così come nel Mugello, «stimolava la presa di coscienza» e la sensibilità della comunità sull’inadeguatezza della vecchia struttura scolastica: cominciò allora la «ricerca di una alternativa al vecchio modo di studiare e di insegnare» da cui nacque «la proposta della costituzione a Borgo S. Lorenzo di un biennio sperimentale»227.

Per l’avvio dell’esperienza fu indispensabile però anche la pressione esercitata di un’opinione pubblica divenuta negli anni particolarmente attenta al tema scolastico,