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Cultore della materia di Diritto del lavoro Università degli Studi Roma Tre

Nel documento federalismi.it Fascicolo n. 2/2021 (pagine 197-200)

Abstract [It]: La blockchain può contribuire a combattere lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Il progetto

Agrochain descritto in questo paper contribuisce a farlo, tracciando all’interno di una particolare filiera agroalimentare i contratti di lavoro degli operai agricoli.

Abstract [En]: Blockchain can help combat the exploitation of labor in agriculture. The Agrochain project

described in this paper helps to do so, tracing the employment contracts of agricultural workers within an agri-food chain.

Sommario: 1. Introduzione. 2. Oggetto della ricerca. 3. Il settore agricolo e il sistema agroalimentare. 3.1. La filiera

sostenibile. 4. L’antico fenomeno del c.d. “Caporalato”. 5. Due sistemi di negoziazione collettiva. 6. La tecnologia Agrochain. 6.1. Il progetto Agrochain. 6.2. La realizzazione del progetto. 7. Riflessioni conclusive.

1. Introduzione

La c.d. “blockchain” (tradotto, “catena di blocchi”) è una tecnologia impiegata all’interno di molte filiere produttive, tra cui quella agroalimentare, dove viene utilizzata soprattutto per la tracciabilità dei prodotti e per la sicurezza alimentare.

Tale tecnologia non è solo un modo per portare sulle tavole un prodotto sano e sicuro, ma può essere anche uno strumento utile per contrastare lo sfruttamento lavorativo, soprattutto della manodopera migrante1.

Al fine di prevenire tale condotta illegale, dalla fine del 2019 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) sta sperimentando ad Hong Kong un sistema chiamato “IRIS-SAFER”2 che permette di monitorare la gestione dei lavoratori provenienti da Paesi terzi da parte delle agenzie di collocamento dell’ex-colonia britannica. La trasparenza, la visibilità e la sicurezza dei dati presenti su questa piattaforma permette, da un lato, di insegnare agli intermediari gli “standard di reclutamento etici globali”, dall’altro, la

* Articolo sottoposto a referaggio.

1 V. C. SPINELLI, Immigrazione e mercato del lavoro: lo sfruttamento dei migranti economici – focus sul lavoro agricolo, in Rivista del

Diritto della Sicurezza Sociale, n.1/2020.

possibilità di verificare costantemente i progressi e, dunque, l’impegno di tale agenzie nel rispetto dei citati standard.

Secondo quanto affermato dall’OIM, tale sperimentazione sta andando nella giusta direzione e la

blockchain potrebbe aiutare davvero la lotta allo sfruttamento della manodopera, soprattutto, in quel

particolare contesto del Sud-Est asiatico, crocevia di migrazioni economiche di molti Paesi, anche appartenenti a continenti diversi.

La blockchain potrebbe essere, tuttavia, utilizzata anche per contrastare lo sfruttamento della manodopera in Italia, dove tale utilizzazione illecita possiede altre caratteristiche, nascondendosi dietro filiere produttive molto complesse e apparentemente sostenibili. È questo il caso del progetto Agrochain.

2. Oggetto della ricerca

L’obiettivo di questo paper3 è quello di raccontare lo sviluppo e le caratteristiche di Agrochain4 (§ 6) ma prima di entrare nel vivo di questa applicazione di blockchain, si deve necessariamente delineare il contesto in cui essa dovrebbe operare. Si descriverà, pertanto, il settore agricolo e il suo collegamento con il più complesso sistema agroalimentare (§ 3), evidenziando soprattutto i problemi che affliggono il mercato del lavoro agricolo (§§ 4 e 5).

3. Il settore agricolo e il sistema agroalimentare

Oggigiorno non bisogna più considerare il settore primario come un comparto a sé stante, nonostante al suo interno esista un caleidoscopio di attività: dall’allevamento, all’acquacoltura, dalla coltivazione alla floricultura, per giungere persino alla creazione di pubblic good. Il settore agricolo è, oramai, parte integrante di un sistema più grande e più complesso che include anche l’industria alimentare e della trasformazione, nonché la GDO: sostanzialmente, il settore primario sta diventando un vero e proprio settore manifatturiero5. I beni agricoli percorrono, invero, un lungo processo produttivo – rectius, la filiera – diviso in fasi (generalmente individuate in coltivazione, intermediazione, trasformazione, distribuzione e vendita) e diversificato per ogni macro-gruppo di beni agricoli del suolo, del mare e dei differenti capi di bestiame.

Nel contesto agroalimentare, ogni attore che vi partecipa ha un peso economico in base alla sua dimensione e alla sua fetta di mercato che possiede, traducendosi, a sua volta, in potere contrattuale nei 3 Questo paper è stato selezionato per partecipare alla call per giovani studiosi “Blockchain e Tecnologie basata su registri

distribuiti (DLT)” indetta nel mese di luglio 2020 dall’Associazione LABChain.

4 La realizzazione di questo paper si è basata su un’intervista semi-strutturata effettuata agli ideatori di Agrochain, i dott.ri Roberto Lunazzi e Matteo Trevisan che si ringraziano per la loro disponibilità.

confronti dei propri fornitori. Le imprese del settore agricolo – ossia della prima fase della filiera – sono i soggetti che possiedono minor potere rispetto agli altri della food supply chain, avendo in media una ridotta dimensione aziendale e una scarsa propensione ad organizzarsi: nonostante siano trascorsi più di 50 anni dal primo intervento dell’Ue per ristabilire un equilibrio all’interno della filiera agroalimentare6, ancora oggi l’associazionismo dei produttori agricoli ha difficoltà a decollare. All’estremità opposta, sono presenti la GDO e l’industria alimentare che, al contrario, dispongono di un forte potere economico e contrattuale talmente incisivo che sostanzialmente decidono in modo unilaterale il prezzo dei prodotti che poi acquistano dagli imprenditori agronomi. Questi ultimi, infatti, si definiscono dalla letteratura economica

price taker.

In un quadro simile, dove le produzioni agronome sono inficiate anche dalle condizioni meteorologiche (molte produzioni sono ancora en plein air), è chiaro come l’imprenditore agricolo, per riuscire a sopravvivere, debba risparmiare sull’unico costo facilmente riducibile: il costo del lavoro. È proprio lì che nasce lo sfruttamento della manodopera in agricoltura: ricavi troppo esigui o persino nulli – derivanti soprattutto da prezzi non gestiti da chi effettivamente produce, lavora e sopporta i costi maggiori per tutta la “catena del valore” – portano a colpire l’“anello” più debole: i lavoratori della terra.

3.1. La filiera sostenibile

Diversamente dal tipo di filiera agroalimentare appena accennato, una food supply chain sostenibile è una “catena del valore” che rispetta tre diverse dimensioni: ambientale, sociale ed economica. Tale sostenibilità ha un costo che, tuttavia, si scarica facilmente sul prezzo finale del prodotto venduto: la produzione di un bene agricolo trasformato che (i) rispetta i diritti dei lavoratori, (ii) non danneggia l’ambiente naturale e (iii) crea profitti per tutti gli stakeholder della filiera in base ai costi sostenuti, è un prodotto che ha un forte appeal tra i consumatori, nonostante il prezzo più alto rispetto alla media. Molte filiere italiane – anche quelle più strutturare – tentano di applicare questi tre principi ma alcune volte falliscono7. La “catena del valore” è talmente lunga e composta da molti partecipanti che il soggetto finale (di solito la GDO) non riesce sempre a controllare – o non è in grado di farlo – tutte le parti che compongono la filiera. Nonostante l’adozione in questo ultimi venti anni, di strumenti regolatori – quali i codici etici, codici di condotta, disciplinari, etc. – facenti capo alla Corporate social responsability, ciò non ha sempre prodotto i risultati sperati, stante anche la loro dubbia efficacia giuridica nei confronti di tutti gli

stakeholder della filiera8. Episodi – anche – di grave sfruttamento della manodopera sono il frutto dello

6 Grazie al Reg. del Consiglio n. 159 del 25 ottobre 1966, che ha istituito l’Organizzazione dei produttori ortofrutticoli.

7 V. https://www.terrelibere.org/filiere/

8 Cfr. E. RIGHINI, Il ruolo della responsabilità sociale d’impresa nelle filiere agroalimentari italiane, in P. CAMPANELLA (a cura di), Vite sottocosto, Roma, 2018, pp. 413-415.

squilibrio di cui si accennava supra e della presenza, sempre più marcata, nell’agroindustria di organizzazioni criminali, anche di stampo mafioso.

4. L’antico fenomeno del c.d. “Caporalato”

Uno dei più importanti problemi che affliggono il mercato del lavoro agricolo è il c.d “Caporalato”, un fenomeno che nasce nei primi anni del ‘900 grazie alle prime grandi bonifiche e all’affermazione delle colture cerealicole in luogo della pastorizia. Si rendono, così, disponibili nuovi terreni da coltivare ma, allo stesso tempo, si ha la necessità di ingente manodopera da organizzare e trasportare, dal momento che i campi sono distanti dagli insediamenti umani. È in tal modo nasce la figura del caporale ed il fenomeno ad esso collegato.

Il Caporalato contemporaneo è diverso rispetto ai primi anni del XX secolo ed è mutato a causa della trasformazione del sistema agricolo e alle migrazioni economiche.

Oggi questo fenomeno supplisce, invero, alle carenze di un mercato del lavoro agricolo nel quale non esiste un’intermediazione efficace ed efficiente – a parte alcuni soggetti privati che offrono il Contratto di somministrazione di lavoro e l’attività dei Centri per l’impiego – in un contesto in cui, molte volte, si ha una necessità improvvisa ed abbondante di manodopera, soprattutto, low skilled. Il caporale riesce a portare sui campi una tale quantità di forza lavoro e ad una velocità che le strutture pubbliche e private non riescono a star al passo di questi soggetti: se riuscissero a farlo, avrebbero comunque il problema del trasporto, anch’esso risolto dal caporale in mancanza di una rete di trasporto pubblico ad hoc.

La forza del caporale non deriva solo dalle carenze dello Stato e dalla difficile attività dei privati – le aziende medio-grandi che possono sopportare i costi di una lecita intermediazione privata sono poco diffuse – ma anche dalla presenza sul territorio italiano di immigrati economici che, per sopravvivere, accettano qualsiasi offerta di lavoro. Queste persone vivono in veri e proprio “ghetti”, creatisi spontaneamente ai margini delle zone ad alta intensità produttiva agricola. Questi “inferni moderni”, a loro volta, hanno creato tra gli abitanti una forte dipendenza verso il caporale di riferimento: i ghetti sono distanti dalla città, privi di servizi e il caporale è l’unica fonte di salvezza perché diventa un collegamento con la possibilità di lavoro e la città più vicina.

La mancanza di una efficiente ed efficace intermediazione pubblica e privata, l’irrisolta situazione dei ghetti, il difficile trasporto della manodopera sui campi attraverso canali pubblici, nonché i prezzi troppo bassi pagati agli imprenditori agricoli della filiera portano allo sfruttamento dei lavoratori ai limiti della violazione dei diritti umani.

Nel documento federalismi.it Fascicolo n. 2/2021 (pagine 197-200)

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