• Non ci sono risultati.

La cultura dell’abitare in Giappone

Nel documento Regionalismo Critico - Il caso giapponese (pagine 99-120)

ro, fu talmente potente da permanere intatta nel corso degli ultimi settecento anni: “eliminare l’inessenziale”. Questa idea ha comportato l’inizio di una ricerca della bellezza nelle cose semplici e umili, nel percepire l’eternità nella fragilità e nella transitorietà dei mate- riali naturali.

Il primo contributo archeologicamente rinvenuto ai fini della definizione dell’abitazione tradizione giap- ponese è risalente al periodo Yayoi, dove si iniziarono a costruire le abitazioni su un piano leggermente rial- zato dal suolo formato da assi di legno. Questo piano, detto takayuka, era sopraelevato e definiva un’area destinata a funzioni religiose.

Successivamente, nel periodo Heian, si iniziò ad applicare la stessa soluzione in ambito residenziale, cominciando a sviluppare il vocabolario costruttivo degli elementi lineari, come pilastro e trave, e quello delle superfici verticali e orizzontali, il così detto stile

shinden. Fu proprio in questa fase che ebbe origine

una piattaforma sopraelevata lungo il perimetro, uno spazio intermedio tra l’interno e l’esterno, che pren- derà successivamente il nome di engawa.

Con questo semplice vocabolario di elementi costitu- tivi si procedette alla costruzione del Tempio di Ise. Come noterà secoli dopo Kenzo Tange, questa strut- tura è allo stesso tempo il prototipo dell’architettura giapponese del passato e del presente. Infatti questo tempio costituisce l’archetipo per tutti gli architetti del sol levante, che, consapevolmente o no, si trove- ranno a misurarsi con esso. Il Tempio di Ise fu costru- ito dalla figlia dell’Imperatore Shujin attorno al 680 d.C. ed era dedicato alla divinità Amaterasu, madre del Giappone, e al suo interno vi si custodiva uno specchio sacro.

Il tempio racchiude il linguaggio vernacolare giappo- nese, una sintassi costruttiva estremamente consape- vole del luogo in cui sorge, derivata maggiormente dall’applicazione di concetti culturali piuttosto che

1. takakuya

2. engawa

1

di un’espressione spontanea. Inoltre il tempio ha un ruolo dinamico chiave. Infatti ogni venti anni circa esso viene smontato e ricostruito in un altro luogo, e questa operazione ha comportato nel corso degli anni la modifica di alcune operazioni esecutive e al raffi- narsi della stessa tecnica. A questo proposito si cita un passaggio di Hojoki nel tredicesimo secolo:

“Incessantemente il fiume scorre, l’acqua non è mai la stessa e non sta ferma un momento. Anche così si comporta l’uomo con la sua dimora.”2

Nel corso dei secoli successivi i carpentieri giap- ponesi fissarono il sistema costruttivo modulare di campate lignee; gli edifici, di qualsiasi destinazione d’uso, sarebbero stati composti con ripetizioni di questa tecnica. Il metodo di costruzione tradizionale prevedeva la disposizione di un peristilio di colonne lignee, hashira, secondo intervalli regolari scanditi da travi orizzontali, dodai, sulle quali poggiavano le travi formanti il solaio, ashigigatame, e le travi di gronda. La struttura del tetto era generalmente composta da travi lignee non trattate, sormontate da una rete di arcarecci, quindi vi erano doghe lignee o piastrelle di terracotta fissate con miscele di fango e paglia. La tecnica si contraddistingueva per una struttura di copertura visivamente massiccia, oltreché pesante, disposta sopra una griglia di pilastri esili al cui interno si organizzava la disposizione interna.

Questo sistema modulare era caratterizzato da un forte senso dell’economicità della realizzazione e dalla praticità della sua esecuzione, e lo si poteva vedere utilizzato in edifici con destinazioni d’uso differenti e appositamente di proprietari con ruoli sociali diversi. Il modulo generalmente era misurato con l’unità ken, 6 piedi, circa 180 cm, e dal diciassettesimo secolo, numerosi documenti testimoniano che la sezione dei pilastri dipendeva direttamente dalla distanza tra que-

ste. Successivamente alla produzione standardizzata dei materiali costruttivi, questa dipendenza si perse, e le misure divennero fisse.

Differentemente da quanto si possa pensare, il tata-

mi non ha costituito in passato il modulo generatore

della configurazione spaziale planimetrica delle case tradizionali giapponesi. Il tatami per molti secoli ha subito molte variazioni regionali seguendo il variare della distanza tra i pilastri, da cui dipendeva. In alcu- ne regioni questa veniva misurata come intercolum- nio, altre volte come distanza tra gli estremi.

Nello stesso momento in cui in Europa Leonardo Da Vinci3 ricercava nelle proporzioni del corpo umano

per scaturirne dei moduli da applicare in architettura, in Giappone si andò fissando sui 90x180cm il ret- tangolo tatami, che si pensò adeguato per il riposo di una persona sdraiata. E da questo si andò procedendo per giustapposizione nella determinazione degli spazi, come le porte (fusama) di altezza 180cm, con struttu- re che oscillavano tra 1/10 e 1/5 del di 90cm.

La concezione dello spazio interno non si basa sulla necessità di protezione da parte dei fenomeni esterni, bensì mira ad integrarsi col contesto naturale. I mo- naci buddisti del periodo Muromachi e Momoyama hanno articolato così profondamente quest’idea che l’intera società giapponese ne ha assorbito la filosofia. Nello stesso momento in cui nel mondo occidentale la cultura dell’abitare procedeva per addizione, imma- gazzinando oggetti nei salotti, i monaci zen gettavano via dalle loro case gli arredi. Il risultato è una spazio polivalente, personalizzabile in base alla funzione da svolgere in ore diverse del giorno. Successivamente, dal periodo Edo fino al periodo Showa, importanti ed influenti personaggi politici giapponesi continuaro- no a promuovere la cultura del tè, e, proprio grazie a questo endorsement, essa si rafforzò nella visione socia- le, affermandosi come tratto identitario nazionale. I progettisti giapponesi tradizionalmente concepisco- 3

no l’edificio procedendo dall’interno verso l’esterno. La volumetria esterna è il risultato di un’organizza- zione spaziale planimetrica, senza che debba essere costretta in simmetrie monumentali, tanto che Bruno Taut, formatosi alla Bauhaus, ribadisce come l’ar- chitettura giapponese fosse sempre stata moderna, si pensi alle due celebri citazioni “la forma segue la funzione”4 e “less is more”5, e di come la struttura tra-

dizionale giapponese, concepita modularmene e con componenti ‘prefabbricate’, sia assonante con le idee portate avanti dai modernisti.6

Il tokonoma, l’engawa, o la progettazione dei giardini sono certamente elementi costitutivi derivanti dalla cultura del tè che hanno avuto luce nelle residenze nobiliari. La via del tè, chanoyu, durante il periodo Muromachi, fu un fenomeno accolto e sviluppato, data la sua sofisticata struttura, prevalentemente dalla classe aristocratica. Sebbene l’arte del tè si sia diffusa nella cerchia nobiliare, la sviluppo della residenza di questi, in funzione della cerimonia, ebbe una riper- cussione fondamentale nella fenomenologia della tipologia residenziale in generale.

Le case giapponesi, misurate in tatami, sono spesso al- lusioni alla pienezza del vuoto. Secondo Karl Lowith: “Il vuoto porta nella casa l’eco dello sfondo metafisico che in Giappone risuona ovunque e che gli ambienti che la compongono sono riflessi più o meno pallidi del luogo deputato alla celebrazione del vuoto, la sukiya.”7

Possiamo apprezzare la migliore espressione artistica del vuoto nella sukiyaki, la stanza del tè, e nella sua contestualizzazione architettonica, definita come

sukiya-style. Fino al quindicesimo secolo essa era una

stanza della casa, ma successivamente divenne un padiglione distaccato dal volume principale e rag- giungibile attraverso un percorso di pietre incastonate

4. Toyohara Chikanobu, Cerimonia del tè, 1882, Tokyo.

nel giardino, detto roji. Comminandovi si richiede la massima attenzione all’esperienza. Dentro la stanza non vi sono decorazioni, solo il tokonoma, i pilastri e i tatami.

“La cerimonia si svolge in silenzio. Il silenzio è inter- rotto solo dal rumore dell’acqua che bolle nel bricco sul focolare che ricorda l’eco di una cascata attutita dalle nubi, di un mare lontano che si frange contro gli scogli, un temporale attraverso una foresta di bam- boo, il sussurro dei pini su qualche lontana collina..”8

(K. Okakura, 1906)

Lo stile dello spazio interno della sukuya diventa stile dello spazio interno della mente. La leggenda vuole che in una sukuya, della dimensione di cinque tatami, come prescrive una sutra di Vikramaditya, lo stesso accolse il santo Manju e ottantaquatromila discepoli. Questo per indicare la non esistenza dello spazio per i veri illuminati, che hanno completato i passaggi per l’autoilluminazione, di cui il primo è il roji, il sentieri di pietre che porta alla sukuya.

Fondamentale diventa il principio del Mono no aware: la bellezza inusuale che si percepisce più che i senti- menti diventano sensibili, in empatia con la natura. La natura non è solo uno sfondo, un paesaggio, ma è un’importante elemento integrato nel mondo spiri- tuale. Le case tradizionali giapponesi infatti ricerca- no sempre una relazione speciale con la natura. La ragione delle pareti scorrevoli e quella dell’engawa, la veranda esterna, è proprio quella di poter creare continuità tra gli ambienti, come sottolinea Antonin Raymond, che giunse in Giappone insieme a Frank Lloyd Wright:

“La casa giapponese è sorprendentemente libera. Nelle notti d’inverno ci si può escludere dal mondo chiudendosi dentro una scatola partita in stanze, 6

7 7. roji

mentre in estate si può aprire ogni divisione e permet- tere gentilmente al vento di passarci attraverso.”9

Ne Il libro d’ombra di Tanizaki10 si impara invece

come la civiltà giapponese sia una composizione di mezzi toni e vuoti spaziali che non devono essere riempiti con cose materiali, ma interpretati come un’espressione artistica che ha lo scopo di elevare la relazione tra le persone e la natura.

All’estero risulta molto apprezzato il tetto delle abitazioni tradizionali, specialmente per il modo in cui riesce a combinare forme curvilinee e ortogonali. In generale le tipologie di copertura possono esse- re distinte in tre categorie: kirizuma (il tetto con il timpano), shichu (il tetto a padiglione), e irimoya, una combinazione delle due precedenti. Generalmente, in ciascuna delle tre tipologie si può trovare una gronda molto sporgente, che attribuisce un senso di stabilità al volume, e permette, anche nei giorni di pioggia estivi, di tenere gli shoji aperti.

Dal punto di vista sociale la famiglia rappresentava l’unità di misura della popolazione, allo stesso modo in cui le abitazioni private, distaccate l’una dall’altra, costituivano un’unità urbana. Si prestava attenzione all’orientamento della casa con un modello ideale di riferimento che corrispondeva alle costellazioni: a est un ruscello (dove secondo gli astrologi c’era il drago verde), a sud un ruscello (fenice), a ovest una grande strada (la tigre bianca) e a nord una collina (tarta- ruga). I quattro animali corrispondono ai quattro animali guardiani del Buddismo.

- Hashira

Se Le Corbusier aveva definito la storia dell’architet- tura europea come la sfida faticosa nei confronti del tema della finestra11, quella giapponese si potrebbe

riassumere come quella verso il pilastro. Nell’architet- tura contemporanea giapponese il pilastro è rimasto probabilmente uno dei simboli più forti di radica- mento alla storia. Nei casi in cui si incontra una fila di pilastri allineati a distanze equivalenti, si incombe in una disposizione detta yorishiro, che deriva diretta- mente dalle tipologia templari shintoiste.

La sfida principale nei confronti di questo tema è stata quella di comporre in modo ortogonale degli elementi lignei. Con hashira si definisce il generico corpo ligneo verticale, che abbia funzione portante, come un pilastro, o non, come un palo. Inizialmente si registrava una smussatura piuttosto marcata, circa un quinto del diametro del pilastro, mentre successi- 4.2 Gli elementi morfologici

vamente la smussatura venne ridotta a un decimo. Da fulcro e motivo di individuazione di uno spazio, si pensi alle colonne sacre dei templi primitivi, la colonna ha rivestito nel corso della storia un percorso di caratterizzazione che ha portato alla definizione di canoni diversi a seconda della logica costruttiva o della funzione simbolica.

Tra le varie tipologie di colonne si includono i tooshi-

bashira, che si estendono fino all’altezza di due piani, i kudabashira che sono costruiti direttamente uno sopra

l’altro tramite un incastro, ma sono separati strut- turalmente dal solaio intermedio, gli Hottatebashira che sono impostati direttamente nel terreno senza pietre di base, i pilastri angolari invece, sumibashira, si costruiscono più alti degli altri a seconda del grado di curvatura verso l’alto sulla grondaia. A volte pilastri sono stati eretti con una leggera inclinazione verso l’interno, uchikorobi, per una questione di stabilità, una tecnica importata dalla Cina. Le colonne sono

anche denominati in base alla loro collocazione: pila- stri quadrati che sostengono la pensilina che porta alla veranda di un edificio templare sono chiamati bashira

kouhai, mentre le colonne che circondano il santuario

interno di un tempio sono chiamati naijinbashira, il pilastro centrale in una pagoda è chiamato shinbashi-

ra.

- Fusama, Shoji

Il principale elemento di partizione era una carta opaca montata su un telaio in legno, detto fusama, che supporta soltanto il peso proprio e non funziona come un setto. La traccia a terra è superficiale, mentre quella superiore è più profonda, così da permettere di sfilare la porta e oliare il binario.

Dove si richiede una separazione solida, non rimuovi- bile, si utilizzo principalmente pannelli lignei di bam- boo, che, dopo esser fissati direttamente alle colonne, venivano coperti con uno strato sottile di intonaco. Il più classico di questi elementi di partizione è lo shoji, che, a differenza dei fusama, presenta il foglio di carta su un lato solo, lasciando su un lato la trama reticolare lignea a vista. Per questa ragione è infatti applicato maggiormente all’esterno, con la funzione principale di aprire l’interno della casa e farlo comu- nicare direttamente con il paesaggio.

Si pensi ai mesi di giugno, quando le piogge si fanno quotidiane ma la temperatura resta gentile, lasciando gli shoji aperti, si può apprezzare la natura dall’in- terno della propria abitazione come uno spettacolo cinematografico.

3. shoji 2. fusama

2

- Tatami

Il tatami vede la sua nascita durante il periodo Nara. Durante il periodo Heian questi erano destinati ai nobili, privilegio poi successivamente esteso anche ai samurai. Durante il periodo Muromachi venne- ro iniziati ad utilizzare per coprire il pavimento, e successivamente furono letteralmente prescritti da Se no Rikyu per la cerimonia del tè. Si contraddistingue per essere un pannello rettangolare con paglia di riso intrecciata e pressata, di spessore variabile fino a 6 cm, mentre la sua estensione è variabile in funzione della regione giapponese dove si è diffuso, ma la più comune, odiernamente ritenuta quella di riferimento, è quella di 90x180 cm, ritenuta la dimensione ideale per il riposo di un uomo sdraiato.

Negli ultimi secoli il tatami ha sostituito la distanza tra le travi come dimensionamento degli ambienti, ed è diventato l’unità di misura per l’estensione in pianta degli spazi. Generalmente i margini sono orlati con una fettuccia di lino o cotone, di colore scuro, che lo distanzia da una struttura lignea incrociata.

Sul tatami si richiede di camminare scalzi, e si svolgo- no le principali mansioni domestiche, come dormire, cucinare e meditare.

La disposizione e il numero dei tatami cambia in funzione dello spazio che si vuole indicare.

- Il tokonoma

Letteralmente: alcova. Si tratta di un’alcova inserita in una stanza tatami. Ci sono varie teorie circa l’origine della nicchia, potrebbe essere nata in origine come un angolo per dormire, di ampiezza sufficiente per sdraiarsi. Successivamente il pavimento della nicchia è stato sopraelevato con un gradino ed è stato per

4. tokonoma

breve tempo ampliato alla dimensione di due tatami, per poi tornare ad un tatami soltanto, diventando il luogo dove accogliere un ospite di alto rango. Dal periodo Kamakura fino alla seconda parte del periodo Muromachi, la nicchia aveva un pavimento sopraele- vato diverso. Prima della fine del periodo Kamakura, un ritratto buddista fu appeso al muro, e quello fu l’episodio chiave nella definizione del tokonoma. Al contempo si cominciarono a disporvi vasi di fiori, incensieri e candelieri, tre elementi importanti per il buddismo. Nel periodo Muromachi divenne di uso comune appendere un cartiglio con un’iscrizione calligrafica di un monaco Zen, insieme ad un vaso di fiori incensieri. I pittogrammi restano tutt’oggi l’og- getto più frequentemente custodito nel tokonoma. Nel periodo Momoyama, l’alcova ha preso la sua forma definitiva, tutt’oggi così disegnata, ed ha iniziato ad essere utilizzato principalmente per la visualizzazione di oggetti d’arte preziosi.

La dimensione e la disposizione della nicchia varia in base ai gusti diversificati dei maestri del tè. Un vec- chio manoscritto sulla cerimonia del tè, per esempio, parla di 180 cm in lunghezza. A volte le varie tipolo- gie di tokonoma hanno preso il nome dal maestro del tè che li ha progettati.

- L’engawa

Gli spazi interni delle abitazioni tradizionali Giap- ponesi sono collegati all’esterno da delle verande, o corridoi aperti, detti engawa, che svolgono la funzione di fondere lo spazio interno con l’esterno.

L’engawa è stato usato per molteplici funzioni. Cor- rendo attorno alla casa ha assunto anche la funzio- ne di corridoio esterno tra le stanze, come luogo di

benvenuto per gli ospiti, una zona di preparazione per gli ikebana. Inoltre esso svolge anche il ruolo di ven- tilazione per l’intero volume. Questo spazio grigio si può considerare al contempo appartenente allo spazio interno come a quello esterno, per questo è caratteriz- zato, anche nella sua etimologia, dalla parola giappo- nese en, che indica un luogo appartenente contempo- raneamente ai due spazi. Infatti la traduzione letterale della parola en vuol dire margine.

Una delle principali caratteristiche dell’abitazione giapponese è quella della forte comunicazione che si instaura con lo spazio esterno.

Dal punto di vista sociale l’engawa rappresenta una zona neutra, sulla quale non vi sono applicate regole gerarchiche di utilizzo. Questo luogo specifico ha acquisito col passare del tempo il ruolo di elemento chiave nella cultura dell’abitare giapponese.

Nella cultura occidentale non esiste uno spazio con le stesse caratteristiche, se non il balcone, che però è privo di quei valori culturali che l’engawa custodisce. In seguito all’importazione del modello abitativo europeo, lo spazio dell’engawa è andato scomparendo. La sua origine si ritrova nei templi shintoisti.

- Giardini

I giardini hanno un carattere visuale più che esperien- ziale. Mentre nel giardino occidentale si è invitati ad entrarvi, e quindi rappresenta un luogo in cui si svol- gono le attività umane, in quello giapponese si è invi- tati a svolgere il ruolo di spettatori, e la sua funzione è semplicemente quella di intrattenimento visivo. Nel relazionarsi al suo contesto emerge che la natura urbanistica del giardino zen è intesa come un locus

amoenus, un luogo di decompressione dello stress

temporali, e l’efficacia trascendentale del giardino è proporzionale al caos che lo circonda; più il contesto è rumoroso più si può apprezzare il silenzio della pietra. Ma la contrapposizione più importante che il giardi- no lega con l’esterno è quella con la sua postazione di contemplazione ideale, ovvero l’interno dell’edificio a cui il giardino appartiene, e questa relazione vive nel cambio di luce il suo episodio più significativo: mentre la luce naturale permea ogni superficie dello spazio esterno, l’interno resta perduto nelle ombre. Rende più chiaro questo concetto un passo di Juni- chiko Tanizaki:

“V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accet- tare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegnia- mo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuole mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra.”12

La natura fluisce con disposizioni asimmetriche, garantendo rapporti a due mai uguali, che determi-

Nel documento Regionalismo Critico - Il caso giapponese (pagine 99-120)