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Regionalismo Critico - Il caso giapponese

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Academic year: 2021

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introduzione

La permanenza dell’identità

pag 10

1

Il contesto culturale della teoria del Regionalismo Critico

di Kenneth Frampton

pag 17

1.1 Kenneth Frampton, tra storia e critica 1.2 La civiltà universale

1.3 Dalla scala locale alla scala globale 1.4 La natura restringente del modello epocale 1.5 Tra informazione ed esperienza

1.6 Tra raum e spatium in extensio 1.7 Dopo la rivoluzione digitale

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2

Gli elementi costitutivi: i cinque punti della teoria del Regionalismo Critico

pag 45

2.1 La teoria di Kenneth Frampton e i cinque punti 2.2 L’approccio artigianale

2.3 La dialettica topologica 2.4 La poetica tettonica 2.5 La sensibilità verso la natura 2.6 L’esperienza tattile

3

Lo spazio e l’estetica

dell’architettura giapponese

pag 75

3.1 Riassunto della storia dell’architettura giapponese 3.2 La continuità del Ma

+ Intervista al Prof. Gunter Nitschke 3.3 L’estetica del Wabi-Sabi

(4)

4

La cultura dell’abitare in Giappone

pag 100

4.1 La fenomenologia dell’abitazione tradizionale 4.2 Gli elementi morfologici

4.3 La Villa Imperiale Katsura

5

Il caso paradigmatico: il Regionalismo Critico di Tadao Ando

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6

Il Regionalismo Critico nel contesto giapponese: atlante tematico

pag 135

6.1 L’approccio artigianale

6.1.1 Yoshiji Takehara - House No.101 6.1.2 Kengo Kuma - Prostho Museum

+ intervista a Kengo Kuma

6.1.3 Tezuka Architects - Asahi Kindergarten + intervista a Takaharu Tezuka 6.1.4 Tadao Ando - Chiesa della luce 6.1.5 Satoshi Okada - House U 6.2 La dialettica topologica 6.2.1 Kengo Kuma - Water/Cherry 6.2.2 Sanaa - Grace Farms

6.2.3 Hiroshi Nakamura - Ribbon Chapel 6.2.4 Yoshio Taniguchi - Suzuki Museum 6.2.5 Sou Fujimoto - House NA 6.3 La poetica tettonica

6.3.1 Waro Kishi - House in Nipponbashi + Intervista a Waro Kishi

6.3.2 Sanaa - Teshima Art Museum 6.3.3 Toyo Ito - Tama Art University Library

6.3.4 Hiroshi Naito - Botanical Museum 6.3.5 Shigeru Ban - Nine Bridges Club 6.4 La sensibilità verso la natura 6.4.1 Takeshi Hosaka - Daylight House 6.4.2 Hiroshi Sambuichi - Inujima Art Project 6.4.3 Junya Ishigami - KAIT

6.4.4 Coelecanth Architects - Kanazawa. 6.4.5 Riken Yamamoto - H. Fire Station 6.5 L’esperienza tattile

6.5.1 Satoru Hirota Architects - Tsunyuji 6.5.2 Apollo Architects - Grigio 6.5.3 Tadao Ando - Tempio dell’Acqua 6.5.4 Satoshi Okada - House in Mt. Fuji 6.5.5 Sanaa - Luovre lens

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7

Il progetto pag 196

8

Conclusioni pag 205

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9

Bibliografia

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Il termine Regionalismo Critico viene introdotto per la prima volta da Alessandro Tzonis e Liane Lefaivre1 nel

1981. Successivamente Kenneth Frampton riprenderà questa espressione per denominare una sua teoria indipendente che si discosterà significativamente da quella precedente.

Questa tesi si prefigge l’obiettivo di indagare quei temi presenti all’interno della teoria enunciata dallo storico inglese, prima scandagliando i testi della sua produzione letteraria, poi svolgendo una ricerca di un caso specifico, quello del contesto giapponese, per concludere con un’applicazione attenta dei principi enunciati dalla teoria attraverso un’esperienza proget-tuale.

La prima parte della tesi si svolge come una tratta-zione trasversale agli scritti di Kenneth Frampton, il quale, attraverso i suoi libri e i numerosi saggi pubbli-cati, insieme ai contributi esposti nelle conferenze che è stato possibile reperire, delinea un paesaggio

narra-Introduzione

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tivo ove ricorrono alcuni temi sviluppati con conti-nuità nel corso di tutta la sua carriera, alcuni restando impermeabili allo scorrere del tempo, altri mutando conseguentemente ai cambiamenti della civiltà. Nel suo volume più celebre, quella Storia

dell’Architet-tura Moderna riconosciuta come il testo più studiato

al mondo nel campo della storiografia architettoni-ca, si può apprezzare un’esposizione distaccata delle vicende dello scorso secolo. Lo stesso non si può dire degli altri testi dell’autore, dove si evince una volontà critica nel promuovere una propria idea di architettu-ra, sempre esposta senza compromessi. Il testo cardi-ne da cui muovono i primi passi di questa tesi è il capitolo denominato Regionalismo Critico presente ne la Storia dell’Architettura Moderna2, dove, per la prima

volta, la teoria di Frampton può essere contestualiz-zata all’interno di una traiettoria storica e inizia ad avere, grazie alla diffusione del libro, una più ampia risonanza.

Nella prima parte di questa tesi si cerca di trattare la teoria del Regionalismo Critico, così come emerge dagli scritti di Frampton, con sensibilità rispetto al modificarsi di questa nel corso degli ultimi trenta anni, integrando con le riflessioni esterne condotte da altri autori in merito agli stessi argomenti.

Si comincia con un’esposizione del contesto culturale in cui il Regionalismo Critico è nato, enunciando le contingenze entro le quali Frampton si è mosso e sulle quali hanno posto radici le sue argomentazioni, dopo-diché, procedendo per addizione e cronologicamente, si vanno ad introdurre le nuove condizioni storiche e sociali che hanno determinato il mutarsi della teoria. Mentre questa prima parte della tesi si svolge su basi teoriche tratte dalle pubblicazioni, il proseguimento del percorso traccia traiettorie in terreni ancora par-zialmente inesplorati.

Nei confronti della teoria di Frampton è condotta un’operazione di lettura trasversale che ha portato alla distillazione dei cinque temi più significativi che

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di-venteranno, sia nella seconda parte di ricerca che nello svolgimento dell’applicazione progettuale, gli ambiti di riflessione centrale di tutta la tesi.

Questi cinque punti sono stati parzialmente indivi-duati e isolati da Frampton stesso nel corso delle sue pubblicazioni. Questa attenzione particolare, evinta dalla ridondanza con la quale l’autore ha trattato questi temi, ha portato a farli diventare, in alcuni casi, motivo di approfondimento isolato, quando sotto forma di articolo quando addirittura in volumi interi. Rispetto a questi cinque temi si svolgeranno le ana-lisi condotte nella parte di ricerca della tesi, quando utilizzandoli come strumento di riconoscimento di progetti e progettisti, quando come ambito di rifles-sione.

La seconda parte della tesi, infatti, si prefigge l’obietti-vo di analizzare il contesto giapponese, dove lo studio di questa declinazione particolare del Regionalismo Critico segue una metodologia dedotta da quella di Frampton.

Si è scelto di dedicare una prima parte all’esposizione delle vicende della storia dell’architettura giapponese al fine di comprendere come questo contesto cultura-le, e soprattutto il suo modello temporacultura-le, abbia signi-ficato per questa civiltà un’evoluzione così specifica da renderlo unico in tutto il mondo e degno di diventare un caso di studio per questa ricerca.

Lo studio si concentra poi nell’approfondimento di due temi che caratterizzano profondamente l’archi-tettura del sol levante, riconosciuti come due nuclei centrali dell’identità culturale giapponese, due veicoli che vanno a determinare una sorta di continuità tra l’architettura tradizionale e quella contemporanea. Il primo riguarda la concezione dello spazio, compre-sa sotto l’intraducibile parola Ma, rispetto alla quale ci si interroga prima sulle sfumature del suo significato poi sulla sua applicazione nel progetto architettonico. Il secondo è quello del Wabi-sabi, una particolare

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sen-sibilità maturata nella cultura giapponese nel campo dell’estetica, della quale si cerca di definire principi e ragioni.

Successivamente si analizza la cultura dell’abitare giapponese, studiando la particolare tipologia residen-ziale, dove si crede l’architettura abbia avuto modo di raggiungere le sue espressioni più alte, ripercorrendo la fenomenologia dell’abitazione tradizionale, per poi analizzarne la sintassi costruttiva, e infine sofferman-dosi sull’esempio paradigmatico della celebre Villa Katsura a Kyoto.

Al fine di introdurre la ricerca nel campo dell’archi-tettura contemporanea, la trattazione prosegue con lo studio specifico svolto da Kenneth Frampton su Tadao Ando3, considerato il maggior esponente del

Regionalismo Critico. Comprese le motivazioni che hanno portato Frampton ad individuare in Ando un esponente della teoria, la tesi impugna i cinque temi estrapolati precedentemente e si sofferma spe-cificamente su ciascuno di essi, individuando cinque opere appartenenti ad architetti giapponesi che hanno operato negli ultimi trenta anni, con attenzione alla pluralità dei contributi di questi casi studio, e, at-traverso l’analisi di questi progetti, si cerca di capire come questi architetti abbiano interpretato i cinque temi e se ci siano degli atteggiamenti comuni. La tesi si conclude con un esperienza progettuale. Il luogo di intervento è stato individuato in Giap-pone, nel contesto culturale studiato, e riguarda la tipologia residenziale, quella che lascia spazio alle riflessioni più profonde. A fronte dello studio svolto si aggiunge un ulteriore elemento, ovvero il fatto che sia elaborato da un progettista italiano. L’obiettivo diventa comprendere, quindi, quale possa essere il contributo che un architetto italiano, con alle spalle una formazione svolta nel contesto del Bel Paese, può apportare in un luogo con un’identità così forte e consolidata nel tempo come quella giapponese, in

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che termini si possa affrontare nell’ambito progettuale l’incontro tra due culture così specifiche e con storie così distanti.

Lo stesso Frampton nei suoi recenti contributi rispet-to al Regionalismo Critico descrive sempre più spesso progetti di architetti che operano fuori dal proprio contesto di appartenenza, personaggi che mostrano grande ragionevolezza nel far dialogare la propria sen-sibilità con le specificità del luogo di intervento. A fronte delle ricerche svolte, questa tesi, in conclu-sione, si pone principalmente una domanda: quale influenza può avere l’identità culturale, nello specifico campo dell’architettura, agli inizi del ventunesimo secolo?

Svolgendo questo studio sul Regionalismo Critico non si è voluto verificare se la teoria fosse ancora vali-da o meno, ma, attraverso gli strumenti che essa offre, ci si è posti l’obiettivo si capire in che modo l’identità permanga in un contesto culturale così mutevole come quello contemporaneo, quale sia la relazione che i progettisti contemporanei intraprendano con questa e come essa possa manifestarsi nell’architettura. La teoria come corrente o stile non è mai esistita, tanto che nessuno dei protagonisti indicati da Framp-ton si è mai dichiarato esplicitamente appartenente ad essa.

Lo scopo di questo studio non è comprendere quali siano gli insegnamenti che il Regionalismo Critico incarna come strategia storica, ma come essa abbia individuato quei temi sempiterni verso i quali il pro-gettista debba mostrare sensibilità ogni volta si trovi a costruire in un luogo e, con grande umiltà, ne voglia ascoltare le peculiarità.

L’identità, così come intesa in questa tesi, può essere considerata come progetto a lungo termine, un fattore mutevole, vivente, che determina specificità e manife-stazioni irripetibili, che permette di creare uno spazio nel quale ci si può riconoscere, se vi si appartiene, o se

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ne può rimanere affascinati se estranei, innescando un meccanismo che ci porta a conoscere maggiormente sé stessi e incuriosirsi degli altri, vedendo nella diversi-tà un luogo di incontro.

Avere la consapevolezza di fare parte di un processo culturale più ampio e saper attribuire significato alle proprie azioni costituisce un delicato compito ge-nerazionale in questo particolare momento storico. In un mondo dove il trionfo dell’oggetto conduce all’assenza di significati, dove la deumanizzazione del processo architettonico sta facendo diventare le per-sone incapaci di riconoscere e creare la bellezza, dove le logiche di profitto determinano, in molti casi, un principio di appiattimento culturale, si vuole cercare di capire quanto possa essere importante parlare di un approccio artigianale per perseguire un fattore di qualità, possedere un atteggiamento topologico che permetta di dialogare con il paesaggio, onde evitare di violentarlo con arroganza, di una poetica tettonica per raccontare la realtà e per rifuggire dalla tenta-zione velleitaria di mascherarla, della sensibilità nei confronti della natura per ascoltare i luoghi e usare le energie a disposizione con consapevolezza, e infine dell’esperienza tattile per riportare le persone a vivere l’architettura con il proprio corpo e non solo attraver-so gli occhi.

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1. A. Tzonis e L. Lefaivre sono due storici dell’architet- tura. Grazie a loro si parla per la prima volta di Re- gionalismo Critico in The grid and the pathway, 1981. 2. K. Frampton, Storia dell’Architettura Moderna, 1980. 3. Tadao Ando è un architetto giapponese attivo dagli anni Settanta. Per approfondimenti si rimanda alla monografia F. Dal Co, Tadao Ando, 2010.

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Kenneth Brian Frampton nasce a Londra nel 1930. Studia Architettura presso la Architectural Association School of Architecture di Londra, e, dopo una breve parentesi professionale come progettista, lavorando tra l’Inghilterra e Israele nello studio Douglas Stephen and Partners, si dedica all’insegnamento e alla ricerca trasferendosi a New York nel 1965.

Tra il 1966 e il 1961 insegna presso la Princeton Uni-versity, mentre dal 1972 diventa professore presso la Columbia University, dove tutt’ora ricopre la cattedra di Storia dell’Architettura Moderna.

Nel corso degli anni ha avuto modo di insegnare anche in altre università, tra cui il Royal College of Art di Londra, la ETH a Zurigo, il Berlage Institute ad Amsterdam, la EPFL a Losanna e l’Accademia di Architettura a Mendrisio.

Ha svolto il ruolo di curatore di riviste, tra le quali

Architectural Design (1965-68) e Oppositions (dal

1972).

1

Il contesto culturale della teoria

del Regionalismo Critico di Kenneth Frampton

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Dal 1972 diventa membro del The Institute for Architecture and Urban Studies a New York, che al tempo comprendeva come membri anche Peter Eisen-man, Manfredo Tafuri e Rem Koolhaas.

Frampton ha ricevuto dei dottorati onorari da par-te della Stockholm Royal Institupar-te of Technology (1991), da parte della University of Waterloo (1995), infine dalla California College of Arts and Crafts (1999).

La sua carriera di insegnante universitario è sempre stata affiancata a quella di scrittore, fino a renderlo rinomato come uno tra i più autorevoli critici di architettura degli ultimi decenni.

Attraverso la sua attività Frampton ha profondamente influenzato la cultura architettonica mondiale, spe-cialmente attraverso i suoi volumi che trattano la sto-ria e la teosto-ria dell’architettura. Si ricordano tra i più celebri: Modern architecture: a critical history (1980; trad. it. 1995), Modern architecture and critical present (1993) e Studies in tectonic culture (1995);

The evolution of 20th-century architecture: a synoptic account (2006).

Frampton è conosciuto soprattutto per l’elaborazio-ne della teoria del Regionalismo Critico, della quale inizia a pubblicare articoli dal 1983.

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“Il fenomeno della universalizzazione, se da una parte costituisce un avanzamento del genere umano, dall’altra corrisponde a una sorta di sottile distruzione non solo di culture tradizionali, il che potrebbe forse non costituire un errore irreparabile, ma anche di ciò che per il momento chiamerò il nucleo generatore di grandi civiltà e grande cultura, quel nucleo secondo il quale interpretiamo la vita, ciò che innanzi tutto chiamerò il nucleo etico e mitico del genere umano. Da qui sorge il conflitto. Abbiamo la sensazione che questa unica civiltà mondiale eserciti allo stesso tem-po una sorta di attrito o logoramento a danno delle risorse culturali che hanno creato le grandi civiltà del passato. Questa minaccia viene espressa, fra altri effetti di disturbo, dal diffondersi sotto i nostri occhi di una civiltà mediocre che è l’assurdo equivalente di ciò che ho appena chiamato cultura elementare. Ovunque nel mondo possiamo ritrovare lo stesso brutto film, le stesse slot machines, le stesse atrocità in 1.2 La civiltà universale

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plastica o alluminio, lo stesso linguaggio distorto dalla propaganda, ecc. Sembra che il genere umano, avvici-nandosi en masse a una elementare cultura di consu-mo, si sia fermato a un livello subculturale. Arriviamo così al problema cruciale prendendo in esame nazioni appena uscite da una condizione di sottosviluppo. Per proseguire sulla via del rinnovamento, è necessario disfarsi del vecchio passato culturale che ha costituito la raison d’ètre di una nazione?...Da qui il paradosso: da un lato, essa (la nazione) deve ancorarsi al suolo del suo passato, forgiare uno spirito nazionale e di-spiegare questa rivendicazione spirituale e culturale di fronte alla personalità del colonizzatore. Ma per poter far parte della civiltà moderna, è necessario allo stesso tempo partecipare alla razionalità scientifica,tecnica e politica,cosa che molto spesso richiede il puro e semplice abbandono di un intero passato culturale. E’ una realtà: qualsiasi cultura non può sostenere e assorbire lo shock della civiltà moderna. Qui sta il paradosso: come diventare moderni e fare ritorno alle origini: come far rivivere una vecchia civiltà assopita e prendere parte alla civiltà universale.

Nessuno può sapere cosa ne sarà della nostra civiltà quando avrà davvero incontrato civiltà diverse attra-verso mezzi che non siano quelli dello shock della conquista e della dominazione. La società di oggi è in un tunnel, al tramonto del dogmatismo e agli albori di dialoghi reali.””1

(P.Ricour, 1965)

Con questa citazione del filosofo francese Paul Ricour si apre il quinto capitolo della Storia dell’Architettura

Moderna scritta da Kenneth Frampton, intitolato

“Regionalismo Critico: architettura moderna e identi-tà culturale”.

Il paradosso enunciato da Ricouer è chiaro: se oggi viene ritenuta sempre più importante la consapevolez-za delle proprie radici e, in un certo senso, si cerca di

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trovare l’essenza di una cultura locale attingendo dalla propria identità culturale, il modo in cui poi questa si possa inserire in un mondo che procede verso la glo-balizzazione, fenomeno irreversibile avviato da tempo, è complesso e meritevole di una riflessione attenta. Da sempre l’uomo ha tratto ricchezza dall’incontro con le diversità. Solitamente questi scambi sono avve-nuti attraverso processi pseudo-bellici, con le colo-nizzazioni di civiltà, così dette più evolute, a danno di popoli militarmente più deboli. Oggi è sempre più difficile parlare di occupazioni militari in merito alla colonizzazione culturale, ma la leggerezza comuni-cativa su cui viaggia la globalizzazione permette alle differenti realtà regionali di avere consapevolezza degli stessi modelli internazionali di riferimento. Questo processo d’ingresso nella globalità è percepito dalle popolazioni come civilizzazione necessaria per far parte della modernità, ma allo stesso tempo si avver-te anche la necessità che il modello globale, quando la sua presenza diventa dominante, venga declinato localmente rispondendo a caratteristiche climatiche, geografiche e abitudinarie regionali.

La proposta di Ricour prende la forma di una media-zione molto semplice: le culture regionali dovrebbero declinarsi verso una cultura mondiale. Ricour sugge-risce di considerare la cultura regionale non come una istanza immutabile da tramandare, piuttosto come un concetto da coltivare nell’ottica della mutevolezza e il sostentamento di ogni cultura autentica sarà una conseguenza della responsabilità di generare forme vi-tali di provenienza locale, accettando però le influenze della scala globale.

Ecco che nella prima versione della teoria di Framp-ton si introduce il concetto di “retroguardia” in op-posizione a quello di “avanguardia”. L’autore sostiene che l’architettura possa svolgere una funzione critica a patto che assuma la forma di retroguardia, ovvero una cultura che si ponga equidistante dal mito del

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progresso dell’illuminismo, coma da un reazionario e irrealistico ritorno alle forme architettoniche del passato preindustriale. Una retroguardia critica che sappia distaccarsi dal vortice dell’ottimizzazione e dal nostalgico storicismo decorativo, poiché solo la retroguardia può coltivare una cultura che produca significati di identità, ricorrendo con sapienza alla tecnica universale.

Frampton specifica, inoltre, come non si debba dubi-tare che la mentalità regionalista sostenga le caratte-ristiche individuali e locali a discapito della ricerca di quelle globali2. Nel corso del tempo il regionalismo è

stato strumentalizzato, sia come forma di indipenden-za che come forindipenden-za di repressione reazionaria.

Ma il vero regionalismo, sostiene Frampton, ha un obiettivo fondamentale che è distante dalle sue stru-mentalizzazioni, ovvero rappresentare un ponte che ogni architettura umanistica del futuro debba attra-versare. La strategia principale del Regionalismo Cri-tico è infatti quella di mediare l’impatto della cultura universale con elementi derivati indirettamente dalle peculiarità di un luogo specifico, e questo funziona solo se c’è un livello alto di auto-consapevolezza. Proposte a favore di un’architettura a carattere regio-nale sono apparse regolarmente già dal diciassettesimo secolo. In queste trattazioni si rileva un comune di-scorso rispetto alla tecnologia emergente. Ma proprio la teoria del Regionalismo Critico, così come proposta da Frampton, accetta per la prima volta la tecnologia come portatrice di identità, nel caso in cui, ovvia-mente, resti al servizio di un progetto culturale in cui l’uomo ne costituisca il cuore. Le ambizioni portate dalla teoria negli anni Novanta assumevano un carat-tere progressista, che costituiva un antidoto rispetto alle regressive fantasie dello storicismo postmoderno e al linguaggio del decostruttivismo europeo.

A questo proposito risulta interessante questo passo di Ghirri:

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“E’ probabile che questo dipenda dal fatto che il territorio e il paesaggio sono diventati ormai luoghi anonimi, dove possiamo trovare tutto e di tutto, come in uno sterminato emporio del moderno, pieno di segni, segnali, insegne, gente, automobili e fabbricati, e ancora squarci di paesaggio, torri, palazzi, corti-li, giardini e che quindi il nostro sguardo, al primo approccio, renda questi luoghi come qualsiasi altra località occidentale. Stranamente ed è un fatto che mi ha sempre sorpreso, solo gli abitanti riconoscono a questi luoghi una loro particolarità e un carattere preciso, al quale non rinunciano, pur avendo la consa-pevolezza che il paese, la borgata, o la città più vicina a est o ovest, non importa, somigliano moltissimo ai luoghi in cui essi vivono.

E’ forse che li guardano come se leggessero il palmo della loro mano, sapendo che per scoprire qualcosa bisogna farlo con estrema attenzione, perché oltre alle linee principali che sono nette e chiare, ce ne sono tante altre, piccolissime che le intersecano e che nell’insieme ne determinano l’unicità.”

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Durante la seconda parte del Novecento abbiamo assistito a molteplici fenomeni che hanno modificato fortemente il contesto all’interno del quale l’architet-tura si muove.

L’evoluzione tecnologica ha proseguito voracemente la sua ascesa diventando materia di dibattito antropolo-gico, da tecnica a significato, e le idee, romanticamen-te inromanticamen-tese nell’Ottocento, come la scoperta e l’invenzio-ne, sembra abbiano perso il proprio fascino popolare. Da un punto di vista culturale stiamo vivendo un momento architettonico in cui tutto sembra già acca-duto, tutto pare possa etichettarsi come già affrontato in passato, semanticamente e formalmente, e ciò che viene proposto appare una soluzione manieristica o un gesto teso a contraddire il movimento moderno. Il mito dell’aviatore è andato estinguendosi e l’oppo-sto dicotomico del radicamento sul territorio è diven-tato il fenomeno dai moti migratori4. L’economia di

mercato ha seguito la logica del profitto, e il mito del 1.3 Dalla scala globale alla scala locale

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progresso ha portato con se la paura delle crisi econo-miche imprevedibili.

L’edilizia ha subito un processo di monopolizzazione che vede le grandi imprese muoversi a svantaggio delle piccole e l’affermarsi delle forme di finanziamento transcontinentali hanno stabilito nuove regole del gioco, dove la scala di intervento minima si è alzata verso opere con un impatto economico maggiore. Sia a livello locale che globale si possono trovare gli stessi problemi: corruzione, inquinamento, deforestazione, cementificazione non pianificata, suburbanizzazione. Il ruolo svolto dalle multinazionali è emblematico: l’industrializzazione dell’agricoltura e la modificazione genetica del cibo generano la scomparsa del commer-cio al dettaglio, mentre la massimizzazione del profit-to fine sé stessa causa l’incuranza della biodiversità. Alla luce di questi fattori concorrenti, le realtà locali, con prospettive di vita distanti delle macroeconomie, trovano sempre più grande difficoltà a sopravvivere. A questo proposito Jean Baudrillard scriveva alla metà degli anni Ottanta:

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“Non ci troviamo più in una fase di crescita: siamo in una condizione di eccesso. Viviamo in una società di escrescenze, a indicare ciò che si sviluppa incessan-temente senza essere misurabile in relazione ai suoi stessi obiettivi. La miscela sta sfuggendo di mano, incautamente priva di corrispondenza con i suoi stessi obiettivi, mentre il suo impatto si moltiplica e le cause si disintegrano […] Questa forma di sazietà non ha nulla a che fare con l’eccesso di cui parlava Bataille e che tutte le società sono riuscite a produrre e a di-struggere esaurendosi in forme inutili e dispendiose. Non sappiamo più come poter far uso di tutte le cose che abbiamo accumulato, non sappiamo nemmeno più a che cosa servono […] Ogni fattore di accele-razione e concentaccele-razione è come un fattore che ci avvicina al punto di inerzia..”

(J.Baudrillard,1986)5

Che sia per volontà o necessità, la politica nazionale di molti stati segue questa traiettoria. Si pensi alla recente decisione della Cina di spostare 250milioni di persone dalle zone rurali ai tessuti urbani ad alta densità, costituiti da condomini. L’idea è quella di formare una società a base consumistica sulla quale fondare l’espansione di un’economia interna competi-tiva con quella americana per produzione e consumo. Tutto questo con poca attenzione al formarsi di tes-suti urbani di bassa qualità. La proposta di Le Cor-busier di una ville radieuse6 non è mai risultata così

distante. Si pensi alla città istantanea di Dubai, basata sulla ricchezza a breve termine del petrolio, e di quali investimenti stia facendo per creare una nuova citta-dinanza la cui radice storica sia il soltanto un passato recentissimo.

Gli edifici contemporanei sono così condizionati dalla necessità di ottenere il massimo risultato con il mini-mo utilizzo di risorse economiche che la possibilità di delineare una forma significativa della città è

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diven-tato un compito arduo. Le restrizioni imposte dalla viabilità delle auto e la leggerezza della speculazione del suolo, soggiogano la progettazione alla logica della produzione, la fase di progettazione si riduce ad una fase di assemblaggio, semplice manipolazione di oggetti predeterminati

Si è inceppato qualcosa nella dialettica tra cultura e civilizzazione, e mentre fino alla prima metà del Novecento pareva esserci la possibilità di mantenere un senso della misura tra le due, adesso si osserva il risultato dei centri cittadini trasformati in perni metropolitani e la periferia, che preservava le attività del settore secondario e terziario, si presenta come un

burolandschaft7, un paesaggio da ufficio a pianta

libe-ra, la vittoria della civilizzazione obbligatoria su scala urbana. Oggi la civilizzazione tende a innestare un meccanismo che ha come domanda fondante “al fine di..”, che si è andato a sovrapporre al “per il bene di..”. Questa utilità, concepita come cuore del moto del progresso, che va a sostituire uno spirito civile di bene comune, genera prodotti edilizi privi di significato e distanti dalla dimensione umana.

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Se si osserva il ritmo del susseguirsi delle epoche architettoniche, si comprende come esso giochi un ruolo determinante sulla configurazione attuale della scena architettonica. Si può comprendere facilmente come esso abbia seguito un andamento molto simile a quello dell’evoluzione umana: si pensi alla direttrice biologica, di come l’uomo di Neanderthal sia diventa-to Homo Sapiens; si pensi alla direttrice antropologica, ovvero come tribù nomadi siano arrivate a costruire città organizzate; oppure la direttrice culturale, come l’espressione umana si sia evoluta nel tempo. Se si considera la globalità di queste direttrici e si prova a capire la velocità di questo processo evolutivo, si realizza che la cronologia degli eventi, due miliardi di anni per la vita, sei milioni di anni per l’ominide, cen-tomila anni per l’umanità, ha una natura restringente, e ogni segmento occupa un arco di tempo sempre più breve. La rivoluzione agricola, la rivoluzione scienti-fica, la rivoluzione industriale, la rivoluzione mecca-1.4 La natura restringente del modello epocale

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nica, poi quella elettronica e infine quella digitale, si susseguono con intervalli di diecimila anni, di quat-trocento anni, di centocinquanta anni, di venti anni, evidenziando un’ulteriore riduzione dei tempi dell’e-voluzione, un andamento asintotico verso il presente. La storia dell’architettura segue questo modello tem-porale. Dall’architettura Minoica a quella Moderna ogni periodo, così come definito nella storia dell’ar-chitettura tradizione, ha una durata di vita sempre più breve prima che venga superato. Oggi accade addirit-tura che all’interno della stessa generazione si possano vivere periodi diversi e storicamente definibili come antitetici, fino al punto che il cambiamento diventa un fenomeno istantaneo e quindi impercettibile. Questo andamento ha creato un disorientamento tale nel campo dell’architettura sfociato nella deter-minazione di due correnti di pensiero, opposte tra loro, che hanno cercato di dare risposta all’esigenza di determinarsi storicamente. Il primo filone ha deciso di recuperare dalla storia alcuni concetti appartenenti al mondo precedente all’avvento del movimento

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derno, ritornando ad utilizzare i linguaggi dell’archi-tettura neoclassica. Tra questi si possono annoverare l’Eclettismo e il cosiddetto movimento Postmoderno. Il secondo filone ha invece riposto la propria fede nella tecnologia, eleggendola a motore principale della propria architettura. Tra questi si possono annove-rare vari movimenti, dall’High-Tech all’architettura parametrica.

In merito a questi due filoni diventa fondamentale leggere quanto sostenuto dall’architetto olandese Aldo van Eyck:

“Gli architetti al giorno d’oggi sono patologicamente dipendenti dal cambiamento, considerandolo come un ostacolo a cui stare sempre dietro. Questo, io credo, è il perché essi tendano a separare il passato dal futuro, con il risultato di rendere il presente emozio-nalmente inaccessibile, senza dimensione temporale. Io disdegno una sentimentale e antiquaria attitudine verso il passato, tanto quanto disdegno quella senti-mentalmente tecnocratica verso il futuro. Entrambi sono fondati su una nozione statica del tempo, quindi cominciamo dal passato per cambiare e scoprire l’im-mutabile condizione dell’uomo.”

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Abrahm Moles una volta ha detto che i monumenti d’Europa saranno consumati dalle Kodak9.

La comunicazione e lo studio dell’architettura oggi si basano sulla velocità della fotografia e della sua riproduzione.

I media svolgono un ruolo ambivalente: da un lato permettono la diffusione delle informazioni a larga scala, dall’altro non hanno spesso la sensibilità critica di saper distinguere, e pertanto immagini con conte-nuti di valore diverso vengono proposte con la stessa modalità. Questo carenza di discernimento determina due fenomeni distinti, la disinformazione e la sovrain-formazione.

L’architettura come fenomeno mediatico vede la sua popolarità sociale concentrata nell’attenzione che viene riposta nelle archistar, ragione per la quale ogni città, secondo una logica politica ben precisa, cerca di possedere nel proprio perimetro urbano un’ope-ra firmata da una celebrità per poi utilizzarla come 1.5 Tra informazione ed esperienza

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catalizzatore turistico o come strumento di consenso, incurandosi spesso delle ragioni del progetto, della sua necessità e del luogo in cui viene eseguito. A questa dinamica si affianca la logica competitiva medievale del ‘chi ha la torre più alta’.

D’altro canto si assiste anche alla divulgazione nostal-gica per le immagini che provengono dal passato, di epoche mai vissute. Un secondo atteggiamento che ha preso piede grazie all’operato di alcuni media è quello del totale rifiuto dell’architettura Moderna, etichettata come profana e della glorificazione di quella prece-dente come modello di riferimento. Si assiste così ad operazioni di restauro prive di qualsiasi fondamento teorico, oppure alla realizzazione di veri e propri falsi

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storici. Si percepisce una forte perdita di popolarità sociale nei confronti dell’architettura, che si muove in concomitanza con un distacco progressivo delle opere costruite con i principi civile che identificano una comunità, al netto della sua estensione, che sia un villaggio o una metropoli. L’architettura, in questo modo, va perdendo il suo ruolo di incarnare un par-ticolare momento storico, ma va diventando un’opera d’arte scollegata dal contesto e dalle persone, perden-do la sua dimensione esperienziale e riducenperden-dosi a puro aspetto.

Ci si può accorgere che si procede nella direzione in cui l’immagine dell’architettura va sostituendosi all’architettura costruita, e si va perdendo la capacità di distinguere l’informazione dall’esperienza. Molti programmi televisivi declassano l’esperienza dell’ar-chitettura, facendole perdere alcune componenti fon-damentali, come ad esempio quella tattile. Il richiamo del genius loci viene escluso dalla riduzione dello spazio ad un unico punto di vista, quello prospettico dell’immagine istantanea, il cui culto ha l’ambizione di raccontare un’esperienza corporea. Ecco che va delineandosi una corrente dell’architettura che fa della scenografia dell’immagine la sua caratteristica vincen-te, dove la spettacolarità è strumento di persuasione nei confronti dei fruitori che non hanno più l’abitu-dine di toccare un muro, ma preferiscono guardarlo attraverso il filtro di uno smartphone.

Come fa notare saggiamente Jean Baudrillard nel suo libro Lo specchio della produzione10, la pratica culturale

oggigiorno va riducendo a simulacra l’atto edificato-rio.

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“Il contadino costruisce il suo tetto. Questo è un bel tetto, o uno brutto? Il contadino non lo sa, è un tetto, come lo costruiva suo padre, suo nonno, e il suo bisnonno.”11

(A. Loos, 1910)

La concezione che il contadino ha del suo tetto, così come l’ha maturata, giace aldilà di ogni giudizio este-tico che un architetto gli può dare, va oltre la codi-ficazione di uno stile o di un linguaggio locale come espressione ufficiale di un’identità.

Sulla base di questa riflessione Kenneth Frampton sostiene con forza che il termine “regionalismo” debba avere quindi una distinzione netta da un’accezione di tipo “vernacolare”, sentimentalmente intesa.

Il Regionalismo Critico è un concetto che sta aldilà di uno stile specifico e mira a recuperare quel fattore genuino di un espressione locale, in termini di presen-za tattile e necessità tettonica.

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La regione ideale di Frampton è sintonizzata in modo particolare alla modernità attraverso un’espressione che non è sorta in altro luogo, quindi unica, una regione che può sviluppare idee e al contempo accet-tarne da fuori, per questo la teoria del Regionalismo Critico pone la questione del vero limite della regio-ne e del suo status istituzionale. Ad esempio i fattori climatici contribuiscono alla definizione di un peri-metro, ma non sono sufficienti. Dal punto di vista istituzionale sono due i fattori che definiscono un ambito regionale. Il primo riguarda la presenza di una scuola locale che si imposti su una pedagogia culturale precisa. Ci sono delle scuole di architettura regionale, che devono essere lette come dei miti, quali ad esem-pio sono la scuola ticinese di Mario Botta12 o la scuola

di Porto di Alvaro Siza12. Il secondo punto riguarda

invece la coltivazione culturale del cliente, ovvero la presenza sul territorio di un insieme di individui che abbiano esigenze e prospettive comuni e collettiva-mente la stessa cultura dell’abitare.

All’interno di questa riflessione Frampton si sofferma attentamente sulla differenza tra il concetto latino di

spatium in extensio, uno spazio regolarmente

suddivi-so e teoricamente infinito, e il concetto teutonico di

raum, uno spazio fenomenologicamente delimitato

in modo chiaro. Lo storico inglese riprende la rifles-sione di Martin Heidegger, secondo cui il limite non è il confine oltre il quale qualcosa si esaurisce, ma il perimetro entro il quale qualcosa manifesta la sua presenza.

Mentre si può rimanere scettici sul concetto meta-fisico del confine dello spazio, non si può rimanere impassibili di fronte alla sua applicazione nel definire un intorno dove si possa creare un’architettura della resistenza, un luogo che si sottrae alla logica senza fine delle megalopoli, dove le comunità vivono il concetto della lontananza o un reame urbano di non luogo. Il luogo-forma perimetrato, nella sua connotazione

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sociale, è fondamentale in quello che Hannah Arendt ha definito “lo spazio della presenza umana”14, un’area

dove, sul modello della polis, un insieme di persone si autolegittima e regola indipendentemente. Allo stesso tempo Frapton tiene in considerazione anche la tesi di Vittorio Gregotti secondo cui l’architettura non inizia con la capanna e la necessità di trovare un rifugio, ma con il riconoscimento di un sito, con l’intenzione di stabilire un cosmo nel primordiale caos della natura da parte dell’uomo.15

La comprensione di questa distinzione comporta due conseguenze principali. La prima è di natura proget-tuale e riguarda la necessaria lettura di un luogo come stratificazione di gesti, di cui si parlerà in seguito nell’approccio topologico; la seconda, invece, è la definizione del confine della regione e di ciò che vi accade all’interno, la regione in sé e il suo valore so-cio-culturale, intesa nella sua dimensione pedagogica e come istituzione locale.

Questa trattazione Frampton prende luogo in segui-to ad una lettura critica dei progetti del movimensegui-to moderno e della sua eredità nell’architettura contem-poranea, secondo la quale si privilegiava l’universalità del progetto piuttosto che la lettura della specificità dei luoghi.

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L’avvento della rivoluzione informatica nel campo dell’architettura ha avuto un impatto epocale, tanto da aprire una lunga fase di profonde mutazioni, molte di queste ancora in corso.

L’ingresso di ambienti e processi appartenenti al mon-do elettronico, come le interconnessioni dinamiche, le mutazioni algoritmiche, le geometrie tipologiche o parametriche, costituiscono concetti chiave che danno la forma a un vero proprio paesaggio informatico. Si provi a pensare alla complessità del dna, dei tifoni, della sedimentazione dei crepacci, ecc. Per le nuove generazioni, i nativi digitali, queste ricerche non sono espresse tramite schizzi o immagini schematiche, ma attraverso simulazioni al pc che ricercano costan-temente di emulare la realtà. In queste simulazioni vengono formalizzati, cioè interpretati attraverso equazioni matematiche, i meccanismi genetici dei diversi fenomeni,

Ciò conduce la nascita di vere e proprie metodologie 1.7 Dopo la rivoluzione digitale

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di progetto (sistemi particellari, attratto, modificatori, ecc..) che concettualizzano la logica dello sviluppo delle forme e creano sistemi generatori delle ossature delle nuove architetture.

Come sostiene Antonino Saggio in Architettura e

Modernità16, le ricerche condotte sull’Architettura nel

campo informatico portano a delle intriganti conside-razioni: mentre da un lato la superficie dello schermo è bidimensionale, dall’altro essa, come nel passato telaio prospettico, diventa un elemento di profondità e la lettura bidimensionale dei pattern diventa leggibi-le anche tridimensionalmente, attraverso un passaggio che può essere assimilato a quello vissuto da Alice17

entrando nel libro.

Ecco che avviene così una sostituzione chiave, le clas-siche regole della composizione si scambiano con le logiche processuali dell’informatica, e la parola chiave diventa diagramma, ovverosia l’esplicitazione di una serie di relazioni possibili e auspicabili del progetto. Il diagramma esplicita relazioni di natura matematica, e quindi parametrica. Queste relazione sono costitu-iscono una sorta di dna generatore e regolatore dello sviluppo del progetto.

Il processo di parametrizzazione procede però secon-do la logica dell’ottimizzazione. Si tende, quanto più possibile, a ridurre i concetti, i bisogni, gli obiettivi, in imput da inserire in un algoritmo, sia per necessità pratiche che per inclinazione intrinseca del proces-so matematico. Si può comprendere come questo processo di semplificazione non tenga conto della variabilità di queste cifre, che invece vengono necessa-riamente costrette, nella peggiore e più frequente delle ipotesi, ad un singolo numero, obbligato a sua volta a relazionarsi agli altri secondo processi sottesi da strut-ture logiche rigide, quali ad esempio possono essere le operazioni matematiche. La questione non è più risolvere qualitativamente un problema relazionando tra loro le variabili in gioco, ma quantificare le

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varia-bili di quel problema adattarle per relazionarle tra loro e trovare una soluzione matematicamente ottimale. La domanda sorge spontanea, come parametrizzare la storia? Come parametrizzare il genius loci? Come parametrizzare una dimensione culturale di un luogo specifico? Il limite reale dell’architettura che segue la logica digitale è quello di non poter implementare nel proprio risultato, quindi nel proprio processo, la lettura sensibile umana. Questo aspetto contempora-neamente alla sua lettura storica, è affrontato magi-stralmente da Valerio Paolo Mosco in un passaggio su Zaha Hadid18:

“Il processo digitale, quindi, avrebbe generato la forma, o meglio una nuova forma capace di esprimere qualcosa che la modernità, ancora troppo classica, non aveva avuto la forza di raggiungere. Zaha Hadid ha rappresentato dunque un esempio paradigmatico di un ipermodernismo (la locuzione è di Tafuri) che finalmente sarebbe andato oltre il moderno.

Ciò che ha caratterizzato l’ipermodernismo è la mancanza del limite: per andare oltre il moderno il processo avrebbe dovuto viaggiare totalmente libero, senza limiti prefissati, abbattendo qualunque con-venzionalità. Libera dai vincoli della convenzionalità, l’architettura come processo è diventata design, pura ricerca formale concentrata sull’oggetto e sempre più disattenta nei confronti delle relazioni che lo stesso oggetto avrebbe dovuto proporre: disattenta ai con-testi, disattenta alle risorse, disattenta persino alla vivibilità della stessa. È l’overdesign, il disegno senza limiti volto ad una stilizzazione totalizzante, persino asfissiante.

ll kitsch è un’attrazione per l’eccesso ostentato in cui l’effetto prevale sulla causa. È in definitiva una forma di sublime al ribasso, un romanticismo dozzinale che monumentalizza il superficiale.

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misti-fica come nuovo ciò che non lo è.” (V.P. Mosco, 2016)

Per quanto concerne la metodologia di lavoro la rivoluzione digitale ha comportato soprattutto l’intro-duzione di software che permettono di supportare dal punto di vista grafico il processo progettuale. Inizial-mente si sono creati software che simulassero il gesto grafico manuale, i così detti programmi analogici (es. Autocad) che permettono di lavorare in ambienti vet-toriali gestendo analiticamente il disegno. Procedendo nella direzione della automatizzazione in generale dei sistemi informatici, anche l’architettura ha prodotto strumenti che lavorassero per componenti preimpo-stati, i così detti sistemi BIM (es.Revit, Archicad, ..). Mentre da un lato questi ultimi permettono un dialo-go più semplice tra i vari soggetti che concorrono alla stesura del progetto, dall’altro si assiste all’ingresso del fenomeno di prefabbricazione nel processo progettua-le. Non si disegna più l’ingombro di un setto murario pensando anche alla sua componente tecnologica, ma si sceglie direttamente un modello di setto murario da una libreria a disposizione, non si sceglie più una copertura a falde in base al luogo del progetto o ai materiali locali, quanto piuttosto in base a quello più comodo da scegliere tra i predefiniti. Non stupisce affatto che le aziende edilizie forniscano gratuitamen-te i modelli digitali dei loro prodotti da implementare direttamente nei software come plugin.

Rispetto a questo fenomeno Frampton cita spesso un progetto che si muove in direzione opposta, e che di-mostra come, se assunta come strumento e non come fabbricatore di soluzioni, l’architettura parametrica possa aiutare a creare progetti straordinari, come il terminal di Yokohama, di Foreign Office Architects. Si tratta di un lavoro svolto su due superfici, una a contatto con l’acqua e l’altra sospesa al di sopra come copertura calpestabile; un progetto in cui la geometria 1

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e la struttura sono legati al sito e creano un percorso non spettacolare, ma creato per essere vissuto e non per essere visto.

“Nel progettare lo Yokohama Port Terminal abbiamo condotto un attacco alla tipologia specifica dei

termi-nal, alla determinazione dello spazio da forme dettate

da logiche di programma. Abbiamo studiato una serie limitata di dettagli che, ripetuti secondo infinite varia-zioni, potesse determinare una forma dalle potenzia-lità infinite ma che avesse come limite il poter restare percorribile dall’uomo.”

(A. Zaera-Polo, 1995)

Mentre la rivoluzione digitale non contraddice, ma quasi rinvigorisce, le premesse fondanti della teo-ria del Regionalismo Critico, la natura restringente dell’avvicendarsi delle epoche architettoniche, il flusso di capitali a distanze ed impatti economici crescenti, l’egemonizzazione della tecnologia universale, inizial-mente essa ha determinato un cambiamento fonda-mentale nel concetto di regione così come espresso da Frampton.

Il contributo della tecnologia informatica nell’abbat-tere le distanze tra le persone fisiche attraverso una loro proiezione digitale sta radicalmente modificando le necessità collettive degli individui. La mobilità degli attuali mezzi di trasporto, inoltre, crea dei contesti so-ciali mutevoli, dove il numero dei componenti è più variabile nel tempo. La globalizzazione permette di avere accesso fisico e visivo ad esperienze e conoscenze che ai tempi della stesura della teoria del regionali-smo critico erano radicalmente diversi. Cambiano le finalità sociali, che difficilmente sono delineabili sotto uno stesso insieme. Cambiano i limiti culturali-edu-cativi, dove la scuola rappresenta un’istituzione che educa all’universalità piuttosto che alla particolarità di un determinato luogo. I nuovi architetti fanno

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inoltre parte di numerosi programmi che li portano a svolgere una parte del loro periodo di studi all’estero, oltreché tirocini e workshops, e la mobilità lavorativa sta caratterizzando questo particolare momento stori-co, ragione per cui non ha più senso parlare di storie regionali.

Alla Biennale di Venezia del 2012, Common Ground, a cura di David Chipperfield, Kenneth Frampton cura una selezione di cinque architetti nordamerica-ni, Rick Joy Architects, Stanley Saitowitz / Natoma Architects, Patkau Architects, Steven Holl e Shim Sutcliffe Architects20, che hanno dimostrato nel corso

del loro lavoro una significativa attenzione al carattere topografico del sito, rispetto al quale si è verificata una specifica invenzione tipologica, la sensibilità per una componente artigianale nell’utilizzo dei materiali, e l’attivazione degli spazi in funzione della luce natu-rale. Il confine diventa più grande, l’idea di regione cambia. Si può notare come l’entità del suo iniziale concetto di regione si sia espansa fino a considerare l’intero continente nordamericano come un perimetro di caso di studio a sé stante.

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1. P. Ricour, Universal Civilization and National Cultu-

res,1965.

2. Si distingua il termine retroguardia dal sentimentali- smo regionale inteso come populismo.

3. Luigi Ghirri è stato un fotografo italiano. Una luce sul

muro, a cura di Paola Borgonzoni Ghirri, 2005, pp.

13-15.

4. K. Frampton, Seven Points for the Millenium, 1999. 5. J.Baudrillard, Simulacra and simulation, 1986.

6. Le corbusier pubblica per la prima volta la sua teoria della sua città ideale, Una ville radieuse, nel 1935. 7. Bürolandschaft è un movimento della metà degli

anni Cinquanta che prevedeva la progettazione di uffici a pianta libera.

8. A. Van Eyck, The interior of time, 1966, p.171 9. Abrahm Moles (1920-1992) è stato un sociologo francese.

10. J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, 1973. 11. A. Loos, Ornamento e delitto, 1908.

12. Mario Botta (1943) è un architetto svizzero. Per approfondimenti si rimanda a P. Jodidio, Mario Botta, 1999.

13. Alvaro Siza (1933) è un architetto portoghese. Per ap- profondimento si rimanda a K.Frampton, Alvaro Siza:

compelte works, 2010.

14. Hannah Arendt, Vita activa, la condizione umana, 2010. 15. V. Gregotti, Eredità e crisi del progetto moderno, 2006. 16. A. Saggio, Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla

rivoluzione informatica, 2010.

17. L. Caroll, Alice nel paese delle meraviglie, 2007. 18. Zaha Hadid (1950-2016) è stata un’archiettto ira- chena. Per approfondimenti si rimanda a Z.Hadid,

Zaha Hadid, Compelte works, 1998.

19. V.P. Mosco, Ipermodernismo, 2016.

20. Catalogo Biennale Venezia 2014, Common Ground.

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Kenneth Frampton parla per la prima volta di nalismo Critico nel 1983 in Towards a Critical

Regio-nalism: Six Points for an Architecture of Resistance, in The Anti-Aesthetic, presentandolo come un approccio

all’architettura antagonista rispetto all’architettura postmoderna, che al tempo stava vivendo il suo apice di popolarità. I sei punti attraverso cui ha strutturato per la prima volta la teoria sono stati:

1) il rapporto tra cultura e civilizzazione, in cui si ana-lizza l’influenza degli avanzamenti tecnologici rispetto alla dimensione culturale;

2) le vicende di ascesa e caduta di tutte le avanguardie precedenti (a cui anche il postmoderno era condanna-to in quancondanna-to tale);

3) il rapporto tra il Regionalismo Critico e la cultura mondiale, e a proposito dell’industrializzazione nei processi produttivi locali;

4) la resistenza del luogo/forma, inteso come reazione

2

Gli elementi costitutivi: i cinque punti

della teoria del Regionalismo Critico

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di salvaguardia della specificità dei luoghi;

5) la dialettica tra progetto e luogo, la topografia, il contesto, il clima, la luce e la tettonica;

6) la dicotomica tra visuale e tattile, intesa come smarrimento della dimensione esperienziale nell’ar-chitettura.

In questa prima versione gli aspetti che si vanno a coinvolgere sono molteplici, anche distanti tra loro, come la filosofia e la sociologia, l’economia e la tecno-logia dell’architettura.

Nel corso degli anni ‘80 Frampton ha raffinato la sua trattazione, arrivando ad una nuova versione del 1987 presente nell’articolo intitolato Ten points of an

architecture of Regionalim, nel quale, sempre secondo

una schematizzazione per punti, parla di:

1) la distinzione tra Regionalismo Critico e architet-tura vernacolare;

2) l’eredità del movimento moderno;

3) le relazioni con l’architettura postmoderna. 4) la dicotomia tra informazione ed esperienza; 5) la definizione di regione;

6) la definizione di spazio/luogo;

7) la dicotomia tra topologico e tipologico; 8) la dicotomia tra tettonico e scenografico; 9) la dicotomia tra artificiale e naturale; 10) la dicotomia tra visuale e tattile;

Da questo elenco possiamo dedurre due famiglie di questioni sollevate: una a carattere prevalentemente storico (1-6), che vuole giustificare il Regionalismo Critico come una strategia culturale inserita in un contesto temporale, e una seconda a carattere proget-tuale (7-10), nella quale sono descritte le ragioni che sottendono le scelte dei progettisti che appartengono al Regionalismo Critico.

La versione più completa della teoria, e anche quella più conosciuta, viene pubblicata come nuovo capitolo della sua Storia dell’architettura Moderna, intitolato

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culturale. In questo capitolo Frampton, dopo una

collocazione storica della teoria più concisa rispetto agli articoli precedentemente pubblicati, si dilunga nella descrizione di numerosi progetti paradigmati-ci, molti dei quali inediti, attraverso una trattazione che si sofferma su cinque punti ben scanditi, quattro dei quali già esplicitati nell’articolo del 1987 (topo-logia,tettonica,natura e tattilità), e uno nuovo, già presente nella versione del 1983 quando parlava del rapporto tra economia locale e cultura mondiale, ma adesso enunciato sotto la parola artigianalità.

Durante i venti anni successivi Frampton si dedica con minor interesse alla trattazione complessiva della teoria, seppur continuando a sostenerla attraverso numerose conferenze tenute in varie università, e intraprende due principali traiettorie di produzione letteraria con la quale porta avanti i temi del Regiona-lismo Critico: una prima, nella quale approfondisce i cinque punti separatamente, con particolare atten-zione al tema della tettonica, di cui pubblica anche il celebre volume Studies in tectonic culture, The Poetics

of Construction in Nineteenth and Twentieth Century Architecture, e una seconda direzione, quella della

pubblicazione di monografie e articoli di progettisti appartenenti alla teoria (Alvaro Siza, Tadao Ando, Steven Holl, Kengo Kuma, ..).

L’aver esplicitato i cinque punti del Regionalismo Critico che riguardano aspetti progettuali ci permette di impugnarli come fil rouge dello studio della tesi: descritti inizialmente attraverso gli esempi di Framp-ton, verranno poi utilizzati come strumento di analisi all’interno del contesto della cultura architettonica giapponese, per poi discuterne nuovamente in un’ap-plicazione progettuale.

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Oggi la componente artigianale in architettura si manifesta principalmente nelle realtà rurali e trova sempre meno spazio nei processi edilizi industrializza-ti per ragioni economico-produtindustrializza-tive.

Il dibattito internazionale sul tema dell’industrializ-zazione del settore edilizio negli anni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale è stato piuttosto complesso. Si è rivelato inevitabile che la grande commercializzazione di nuovi materiali da costruzione abbia portato allo sradicamento delle architetture dalle peculiarità del proprio territorio: di-sponendo di materiali costruttivi come il calcestruzzo e i profili laminati metallici, risulta difficile immagi-nare di costruire ancora con i lenti processi artigianali impiegati fino al primo Novecento per la produzione dei laterizi e della calce, per quanto essi possono essere ancora prodotti in loco. La teoria del Regionalismo Critico propone quindi, per le nuove costruzioni, un processo che sappia integrare l’universalità degli stili 2.2 L’approccio artigianale

(47)

architettonici e dei materiali da costruzione contem-poranei con le caratteristiche geografiche, climatiche, sociali tipiche di ogni luogo. La scelta del materiale, nonché del suo utilizzo, deve rivestire quindi una fase di riflessione delicata e cruciale. La conoscenza delle proprietà del materiale e delle sue soluzioni appli-cative diventa una priorità, secondo una mentalità artigianale. Risulta esemplare questo detto da Louis Kahn.

“Se lavori con il mattone, non usarlo come un mate-riale di ripiego o perché è più economico. No, devi innalzarlo alla gloria, perché questo è quanto gli spetta. Se lavori con il calcestruzzo, devi conoscere l’ordine della sua natura e ciò che il calcestruzzo si sforza di diventare. In realtà, il calcestruzzo vorrebbe essere granito, ma non ci riesce. L’armatura è opera di un prodigioso, anonimo operaio, che rivela la forza di questo materiale, che si ritiene simile a una pietra modellata; è un risultato dello spirito. L’acciaio vuole comunicare di essere forte nonostante possa avere le dimensioni di un insetto, e un ponte di pietra vuole dire di essere stato costruito massiccio come un ele-fante; ma tu conosci la bellezza di entrambi, l’armonia che deriva dall’uso del materiale al massimo della sua potenzialità. Se rivesti di pietra un muro, senti di aver fatto qualcosa di meschino, e questo vale anche per il migliore di noi.”1

(L. Kahn, 2005)

La seconda considerazione da fare è quella di spostare l’artigianalità dalla produzione alla sua disposizione spaziale, al saper controllare ogni componente del progetto, utilizzandola senza schemi prefissati, anche utilizzandola complementarmente alle artigianali-tà locali vere e proprie. La tensione tra tradizione e innovazione è risolta elegantemente nella chiesa di Basvaerd, di Jørn Utzon2, completata nel 1976, dove

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“pannelli prefabbricati in cemento di dimensioni standard sono combinati, in modo particolarmente articolato, con superfici a volta in cemento armato costruite in situ, che contengono gli spazi comunitari più importanti”3 Mentre l’assemblaggio dei moduli

prefabbricati rispecchia i valori della civiltà universale, denunciando anche la capacità di applicazione nor-mativa, la superficie a volta costruita in situ rappresen-ta una progetrappresen-tazione e applicazione strutturale conce-pita appositamente per un singolo luogo. Sul piano di lettura tecnico si può asserire che se da un lato vengo-no accettati i modelli proposti dalla civiltà universale, dall’altro si integra l’organismo con elementi espres-sivi di una cultura idiosincratica. Sul piano formale questa contrapposizione può interpretare come la dicotomia tra la razionalità della tecnica normativa e l’irrazionalità di una struttura simbolica.

La scelta di una volta ottenuta con un processo “arti-gianale” si giustifica con l’associazione dell’elemento architettonico con la sua caratura simbolica nell’ambi-to della spiritualità occidentale. La traietnell’ambi-toria dise-gnata in sezione ricorda le curve di una pagoda cinese lignea, come d’altronde le finestrate in lega e i divisori steccati trovano riferimento sia nella tradizione verna-2

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colare nordica delle chiese in doghe di legno, sia nella tradizione di incastri giapponesi. La conformazione della fabbrica a un fienile, invece, esprime la volontà sociale di attribuire un’espressione pubblica ad un edi-ficio sacro. Questa metafora richiama l’origine rurale dell’architettura nordica, dove gli alberi circostanti, crescendo, contribuiranno a proseguire la metafora attribuendo all’edificio un’aura templare. L’intenzione che Frampton attribuisce a Utzon in questo processo di decomposizione e sintesi di tecnica e elementi così distanti geograficamente, temporalmente e socialmen-te, è in primo luogo quella della rivitalizzazione di al-cuni stilemi occidentali desueti attraverso un linguag-gio orientale della loro natura intrinseca, e in secondo luogo la celebrazione della stratificazione storica dell’i-stituzione rappresentata. Se ciò fosse veritiero, Utzon avrebbe utilizzato un atteggiamento critico-regionale nella progettazione di uno spazio sacro.

Un secondo esempio molto caro a Frampton è quello di Carlo Scarpa4.

“Carlo Scarpa realizza in gran parte interventi su architetture già realizzate, effettua trasformazioni; in questo senso la sua opera è anche esemplare per il futuro. Vale a dire che come architetto è capace di prendere un oggetto trovato, per certi versi un

rea-dy-made, e di dargli un significato nuovo senza per

questo che cessi di essere un’opera assolutamente nuova e al tempo stesso di mantenersi esente da estra-neità all’antico. Credo che in ciò stia una delle grandi capacità di Scarpa, che faccia sicuramente parte della sua genialità [...], perché egli fa sempre riferimento a un’architettura immanente.”5

(A.Scandurra, 2011)

L’artigianalità nelle opere di Scarpa è riscontrabile nell’unicità dei dettagli delle sue opere e nelle confi-gurazioni spaziali che egli crea modellando il cemento

3. Carlo Scarpa, Museo di Castelvecchio, Verona, 1974.

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al millimetro. Il giunto diventa il fulcro d’intensità dei suoi lavori, sia quando esso va a legare due materiali diversi, o lo stesso materiale utilizzato in modo diver-so, sia quando esso serve come elemento intermedio tra un corpo storico e una nuova annessione. Ma non solo il modo in cui Scarpa disegna i dettagli e il successivo coinvolgimento delle maestranze nella loro realizzazione costituisce un processo artigianale, anche le costruzioni e gli spazi nuovi che egli progetta, con masse discontinue e frammentate, corpi centrifughi e sospesi, derivano da un concepimento manuale del progetto, l’intaglio piuttosto che la modellazione, la ruvidezza e l’imperfezione dei materiali manipolati piuttosto che la levigatezza delle componenti create dalle macchine.

4. Carlo Scarpa, Tomba Brion, Treviso, 1969.

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Il nodo tra tipologia e topografia si può manifestare sotto molteplici aspetti e riguarda l’integrazione all’in-terno di un contesto naturale che in uno antropizzato, ma ha anche una valenza ecologica e climatica. Il Regionalismo Critico richiede una non eliminabile dialettica col contesto in cui si va a inserire una nuova architettura. Molto spesso accade di assistere alla cosi detta metodologia tabula rasa applicata nei peggiori processi di modernizzazione delle configurazioni ur-bane, che ha tra le ragioni che la sottendono il model-lo del trasporto terrestre; in funzione di una viabilità più semplice si applica una matrice spaziale come principio di razionalizzazione costruttiva.

Rendere un sito pianeggiante al fine di addomesti-carlo in base alla viabilità è, secondo Frampton, un gesto tecnocratico che determina una condizione di

placelessness.6

Un argomentazione persuasiva della perdita dell’ap-proccio topografico resta quella di Gregotti, che nel 2.3 La dialettica topologia

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1983 scrive che il peggior nemico dell’architettura moderna è il concepire lo spazio principalmente in termini di economicità ed esigenze tecniche, a disca-pito del genius loci del sito.7

La storia del luogo invece, intesa sia nel senso ge-ologico che agricolo, dovrebbe invece entrare a far parte della metodologia di lavoro, come Mario Botta riassume nell’espressione “costruire il sito”.8 Il luogo

dovrebbe essere concepito come una stratificazione di gesti, da quello geologico di deposizione/erosione a quelli antropizzanti, dagli insediamenti preistorici alle opere di ingegneria civile del mondo moderno. L’ap-proccio a livelli permette di poter dedurre lo sviluppo di un luogo idiosincratico senza cadere in sentimen-talismi superficiali, quasi come un metodo scientifico guidato dalla sensibilità umana.

“La Svizzera con i suoi complessi confini linguisti-ci e con la sua tradizione cosmopolita, ha sempre dimostrato forti tendenze regionalistiche. Il principio cantonale di ammissione ed esclusione ha sempre favorito forme espressive estremamente dense: il Cantone infatti privilegia la cultura locale, mentre la Federazione facilita la penetrazione e l’assimilazione di idee esterne.”9

(K. Frampton, 2008)

Il regionalismo ticinese prende le sue origini dai pro-tagonisti del movimento italiano in Svizzera nell’ante-guerra, tra questi Alberto Sartoris, che circa la compa-tibilità tra razionalismo e cultura locale scrive:

“L’architettura rurale, con le sue caratteristiche essen-zialmente regionali, si trova perfettamente a suo agio col razionalismo di oggi. Infatti essa assume in pratica tutti quei criteri funzionali su cui si basano i metodi costruttivi moderni.”10

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Riferimenti identificativi della cultura del paesaggio ticinese sono evocati da Botta anche a livello tipo-logico, ad esempio nella casa a Riva San Vitale, che si rifà indirettamente alle tradizionali dimore estive di campagna a forma di torre o ai “roccoli” che un tempo esistevano in gran numero nella regione. Le case di Botta funzionano come segnali nel paesaggio, segnaluogo di confini e limiti, forme primarie che si contrappongono al cielo e alla terra, legandosi al terri-torio attraverso i dettagli che richiamano la tradizione agricola.

La figura di Botta aiuta a comprendere come il Regio-nalismo Critico trattato da Frampton, pur opponen-dosi alla chiusura ermetica rappresentata dal verna-colare locale, possa inserire nella sua opera anche la reinterpretazione di elementi vernacolari. La tendenza del Regionalismo critico è quella di coltivare una cultura architettonica legata al luogo e proietta, allo stesso tempo, nella dimensione globale comprensiva di tutte le singole espressioni locali. Si permette in questo modo il progresso della civiltà, che può opera-re architettonicamente in modo opera-regionale inseopera-rendosi però in un clima internazionale.

Uno spirito progettuale legato al luogo, di cui si può apprezzare un’alta sensibilità topologica, è quello avuto da Dimitris Pikionis11 per la collina di

Philo-pappus, vicino all’Acropoli di Atene, dove l’architetto greco consegue un lavoro di architettura costituito da oggetti completamente nudi e quasi smaterializzati, una sistemazione di luoghi attorno ad una collina per contemplazioni solitarie, dialoghi privati, pic-coli raduni. In questo intreccio di nicchie, passaggi, situazioni, Pikionis individua gli elementi peculiari di una costruzioni di un luogo dove l’architettura si vede appena e svolge la funzione principale di essere intermediaria tra l’uomo e il paesaggio.

L’approccio topologico può essere apprezzato anche nelle opere di Alvar Aalto, in particolare nel

muni-1. Mario Botta, casa a Riva San Vitale, Riva San Vitale, 1972.

2. Mario Botta, casa Rotonda, Stabio, 1980.

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cipio di Säynätsalo. Il progetto si presenta coma una serie di corpi legati tra di loro da una serie di percorsi che seguono la morfologia del terreno, sia in pianta che in elevazione, come se l’edificio fosse andato ad adattarsi sul sito e quest’ultimo ne abbia determinato la configurazione. La lettura del sito come opportuni-tà e non come ostacolo caratterizza questo progetto che va ad inserirsi in un contesto naturale e ne da prospettive di osservazione diversa, dallo spazio della corte interna fino alle aperture che si ripropongono ad altezze diverse. La sensazione che si prova vivendo quegli spazi è quella di una passeggiata continua, dove l’esperienza del luogo è percettibile e di importanza primaria.

3. Dimitris Pikionis, Collina di Philopappus, Atene, 1957.

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La tettonica è una delle principali questioni affrontate da Frampton nel corso dei suoi studi. La parola tetto-nica ha in sé un significato complesso, che coinvolge sia l’espressione artistica che la caratteristica tecnologi-ca di un edificio. Se si considera arbitrariamente l’ar-chitettura come lo scaturirsi di tre vettori convergenti, il topos, il typos e la tectonic, la tettonica, sebbene non favorisca nessuno stile particolare, assume la funzione di esprimere la tecnologia con la quale l’uomo vuole porre una ragione (typos) in un determinato luogo (topos).

Senza cercare di negare il carattere volumetrico delle forme, lo scopo della tettonica è quello di arricchire il significato di spazio attraverso lo studio delle compo-nenti strutturali, considerate come elementi dotati di forza espressiva che si elevano a forma d’arte reale. La parola greca tekton allude etimologicamente al mestiere del carpentiere, quindi non solo al creatore del tempio greco quanto ancor prima al creatore dei 2.4 La poetica tettonica

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