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Intervista a Kengo Kuma

Nel documento Regionalismo Critico - Il caso giapponese (pagine 141-151)

Nei suoi progetti si può apprezzare una particola- re attenzione alla materialità. Perché ha deciso di sviluppare questo tema?

Nel ventesimo secolo il mondo ha imparato a pro- gettare le strutture, principalmente basate si sistemi a griglia in cemento, come nel movimento moderno, o strutture in acciaio come quelle di Mies van der Rohe. Ma prima delle strutture vengono i materiali, e al contempo i materiali sono qualcosa che va oltre la struttura in sé. Io ho deciso di partire dai materiali, e loro stessi mi danno molti suggerimenti a proposito di come svolgere le strutture e le superfici. Questo aiuta a superare la divisione tra interno ed esterno, ad integrarli.

In Giappone c’è un’identità culturale ben radicata, e l’Architettura tradizionale continua a ispirare gli architetti contemporanei. Come influenza il suo lavoro?

Io non ho imparato l’architettura tradizionale giappo- nese. Se avessi avuto un buon maestro, probabilmente non sarei andato oltre di essa, quindi direi che sono stato fortunato a non averlo avuto. In ogni caso, cerco sempre di trovare dei suggerimenti da essa. Io sono cresciuto dentro un’abitazione tradizionale, ho dor- mito per molto tempo sui tatami, sentendone l’odore,

mi sedevo sulla pietra e toccavo il muro di argilla. Questo tipo di esperienza riflette il mio design, e ne costituisce la base. La tradizione non è qualcosa che mi sta a fianco, ma è come se fosse parte del mio corpo.

Può spiegare il ruolo degli spazi di transizione nei suoi progetti?

Il movimento moderno ha provato a dividere gli spa- zi, ma questi non hanno alcun significato per l’attività umana, che continuamente scorre. Sostanzialmente questo è il concetto che sta dietro gli spazi di transi- zione.

Quale è la sua missione di architetto? Ha un tema in particolare che vuole cercare di perseguire? Sì, ed è molto semplice. Come architetto io voglio an- dare oltre l’epoca del cemento. Nel ventesimo secolo esso è stato strettamente legato con il tema dell’indu- strializzazione, ma adesso stiamo procedendo verso un periodo differente, dove le persone vogliono tornare a vivere senza il cemento, e cercano una relazione con materiali autentici.

A proposito dell’industrializzazione, è ancora pos- sibile secondo lei avere un approccio artigianale al progetto?

Non credo sia impossibile, perché è quello che sta accadendo, le persone vogliono fare le cose con le proprie mani, e il dialogo tra le mani e i materiali riguarda proprio l’approccio artigianale che io voglio innescare.

(Intervista raccolta il 02-05-2016, nello studio di Kengo Kuma a Tokyo)

Questo progetto riguarda un asilo distrutto duran- te lo tsunami del 2011 e ricostruito grazie ai fondi UNICEF. La scelta dei Tezuka3 è stata quella di

utilizzare soltanto del legno recuperato dai massicci alberi sradicati durante la catastrofe. Precedentemente questi alberi erano stati utilizzati esclusivamente per la costruzione di edifici a carattere religioso, e furo- no piantati con funzione simbolica dopo lo tsunami del 1611, 400 anni prima, dai funzionari del tempio Daiyuji che si trova alla vetta della collina adiacente, dove alcuni cittadini erano riusciti a ripararsi durante lo tsunami recente. Ciascuna componente dell’edi- ficio, dalla struttura alle rifiniture, è stata ricavata, appunto, da questi alberi, la cui circonferenza arrivava talvolta a 5 metri. La lavorazione dei materiali ha coinvolto le maestranze locali, che hanno utilizzato tecniche ad incastro per realizzare la struttura dise- gnata dai Tezuka Architects. La scelta dell’utilizzo di quegli alberi e delle tecniche locali si traduce in un 6.1.3 Tezuka Architects - Asahi Kindergarten

edificio costruito con legno centenario, un gesto dal forte valore simbolico per le generazioni future.

Intervista a Tezuka Architects

Quando ho studiato i suoi progetti, ho notato un’attenzione particolare per il tema del “limite”. Ha un particolare pensiero dietro questo tema? Sì, l’ho realizzato soltanto recentemente, prima non ne ero del tutto consapevole. In generale cerco di eliminare i confini, quelli tra le classi e il terreno di gioco nelle scuole, ad esempio, quello tra il tetto e il terreno o tra interno ed esterno. La situazione ideale è quella simile alla giungla, dove non ci sono barriere e tutto cambia gradualmente. In architettura un muro definisce e divide due spazi. Io miro a creare qualcosa che sia continuo.

In Giappone c’è un’identità culturale ben radicata, e l’Architettura tradizionale continua a ispirare gli architetti contemporanei. Come influenza il suo lavoro?

In primo luogo, a livello inconscio. Più di dieci anni fa un fotografo Italiano di una rivista venne a visitare il mio progetto “engawa house” a Tokyo e mi disse che la mia architettura era molto giapponese, mentre io pensavo di star facendo architettura moderna. Gli

shoji, la relazione fra interno ed esterno, per lui erano

abbastanza inusuali, per me era la normalità, era come se facessero parte del mio corpo. C’è qualcosa di così radicato in me che non posso cambiarlo.

Secondariamente, in modo consapevole, ho imparato molto in merito all’architettura lignea, la sua tecno- logia, c’è una grande quantità di sapienza lì dietro, e così progetto molto con il legno, anche grandi strut- ture.

Secondo lei è ancora importante continuare questo dialogo con la tradizione, anche dopo l’avvento

della globalizzazione?

Più che io imparo dall’architettura tradizionale più che divento globale. Tra Kyoto e Nara c’è una tale quantità di sapienza, maturata in più di mille anni. Ci sono stato un paio di volte ed è stato impres- sionante per un occhio straniero. Cosa mi può dire nello specifico degli elementi costruttivi? Lei li utilizza come se provenissero direttamente dall’architettura tradizionale. Intendo l’utilizzo del sistema colonna-trave, degli shoji, ecc.. Può spiega- re l’utilizzo di questa sintassi?

Credo che se copiassi i dettagli così come sono ignorerei la saggezza che vi sta dietro. Da quando ho compreso di avere a disposizione la nostra tecnologia avanzata ho deciso di applicarla al legno. Ogni volta cerco di capire la filosofia che sta dietro il dettaglio. Se osservi un edificio che è un patrimonio nazionale, ogni sua componente ha un significato. Io cerco di dare una nuova interpretazione attraverso gli stru- menti che ci offre il nostro secolo.

Il legno pare un materiale che ama utilizzare in particolare. Può spiegarmi la sua relazione con questo materiale?

Il legno è un materiale vivo. Non puoi sederti sul ce- mento, non puoi sederti sull’acciaio, allo stesso modo in cui lo faresti con il legno. Noi esseri umani siamo vivi e possiamo connetterci con materiali naturali. Di certo puoi costruire strutture in acciaio e cemento, ma dovrai rifinirle con un altro materiale. Io cerco fare strutture in legno perché sono interessato alla continuità tra tutto.

(Intervista raccolta il 10-05-2016, nello studio di Takaharu Tezuka a Tokyo)

Spesso le architetture di Tadao Ando si presentano come volumi introversi, dove all’esterno si percepi- sce solo l’intaglio studiato attraverso la scansione dei moduli tatami in c.a. e della punteggiata serie di fori dei tiranti delle casseforme.

La tecnica per controllare questi aspetti progettuali richiede la ripetizione di soluzioni con variazioni progressive e il tentativo di adoperare un modulo standard adattabile ai vari contesti. Dalla dimensione del tatami (90 x 180 centimetri) che era il modulo di dimensionamento della casa tradizionale, Tadao Ando ricava la dimensione del suo pannello da cassero che scolpisce nel cemento a vista la propria impronta e diventa così modulo costruttivo e unità di misura dell’intero sistema progettuale.

Nell’accuratezza progettuale delle casseforme, in grado di determinare le qualità percettibili dei suoi muri, Ando recupera lo spirito della meticolosità e complessità dell’elaborazione artigianale della casa giapponese, che perseguiva la massima semplicità e asciuttezza espressiva attraverso il massimo rigore di 6.1.4 Tadao Ando - Chiesa della Luce

esecuzione. L’abilità nell’uso delle casseforme non è dissimile dalla sua maestria nell’uso del legno come materiale da costruzione che egli adotta e sperimenta in diverse occasioni e con diversi gradi di difficoltà. In queste opere in c.a., la luce naturale e artificiale vengono usate come rivelatrici delle qualità estetiche e tattili delle superfici.

Al fine di rendere questo spazio residenziale confor- tevole, nonostante le dimensioni del lotto, il proget- tista ha cercato di massimizzare il volume spaziale di vuoto, e, cosi come richiesto dal regolamento edilizio locale, è stato deciso di organizzare l’abitazione attor- no ad un grande cortile.

Il tema di questo progetto è stato quello di trattare questo volume vuoto, che, oltre a fornire ricambio d’aria e luce naturale agli spazi che lo circondano, è stato concepito come luogo di passaggio e allo stesso tempo contemplativo.

L’ispirazione è arrivata dalle esperienze che Okada ha avuto nei suoi soggiorni a Venezia e allo studio delle corti venete e dell’interpretazione che Carlo Scarpa ne ha dato.4

La superficie che delimita la corte è concepita come uno sfondo omogeneo scandito dal pattern orizzontale del calcestruzzo. Inserendosi nel contrasto tra il fondo grigio freddo e la luce calda che arriva dall’altro, Oka- 6.1.5 Satoshi Okada - House U

da decide di inserire volumi in sospensione, come se la scalinata fosse un opera scultorea michelangiolesca, con particolare attenzione verso la diversità tattile dei materiali.

La scalinata è concepita come un sistema complesso di flussi, non solo quello umani; infatti dall’ingresso della casa fino all’inizio della scalinata si è guidati verso i piani superiori da percorso acquatico che viene intrapreso a ritroso, come una salita verso la sorgente di un fiume.

Il percorso che l’acqua compie prosegue variando di profondità, sia in pianta che in sezione, attraversando vasche sospese e incisioni pavimentali circolari. Il modo in cui è stato trattato questo vuoto è pret- tamente artigianale: attraverso un disegno preciso e la realizzazione al dettaglio di queste volumetrie che vanno a intervallarsi ai solchi si è potuto ricavare uno spazio al contempo intimo ma dinamico.

Il suono lieve dell’acqua accompagna il visitatore dall’ingresso verso gli ambienti privati e lo accoglie come se stesse entrando in un locus amoenus.

Nel documento Regionalismo Critico - Il caso giapponese (pagine 141-151)