Nei suoi lavori si può apprezzare un elegante e con- scio utilizzo dei materiali costruttivi; l’anatomia dell’edificio è esposta come se lei volesse creare una poetica della struttura. Può spiegare il significato di questo linguaggio?
È una lunga storia. Ho iniziato a studiare architet- tura ala fine degli anni ‘70, durante il periodo del postmodernismo. In quel periodo si è parlato della rinascita della decorazione della storia, come nelle opere Micheal Graves. Io sono sempre stato un uomo curioso: in generale, se tutti vanno a destra, io voglio sempre girare a sinistra. Gli architetti postmoderni mi hanno insegnato l’importanza della storia dell’ar- chitettura. Quando ho letto il libro La complessità e le
contraddizione in architettura di Robert Venturi, ero
ancora uno studente e non riuscivo a capire tutte le sue parole, perché non conoscevo la storia dell’archi- tettura, neppure le opere di Michelangelo Buonarroti. Così ho deciso di studiarla. Ma ho rifiutato lo stile e l’espressione dell’architettura postmoderna. Invece ho molto apprezzato le opere dell’Architettura moderna, il loro modo di essere severe e dirette. In quegli anni c’era anche il Brutalismo, e nessuno si preoccupava di esso in Giappone, anche il Case Study Houses in California, che sono tanto attuali anche adesso. Ho studiato pure le opere di Giuseppe Terragni. Ho tro- vato in un magazzino di una biblioteca alcune riviste dagli anni ’30 e ‘60, ed è stato uno shock culturale per me. Il mio modo di trattare con la struttura è influenzato dal modernismo, di essere sensibile ai materiali, e ho continuato con questo atteggiamen- to, tratto i materiali in modo da rivelare la struttura, come Brunelleschi fece nello Spedale degli Innocenti. La maggior parte degli architetti non sanno che c’è un tirante all’interno dell’arco. Brunelleschi non l’ha nascosto, lo ha mostrato. Il mio lavoro è influenza- to da questo capolavoro. Dobbiamo ringraziare gli uomini dal Rinascimento se abbiamo il modo attuale di concepire il ruolo dell’architetto: fino al periodo medioevale nessuno si è preoccupato di chi fosse il progettista, ma dopo Brunelleschi e Michelangelo il nome della persona è diventato importante. A volte mi dico che il Modernismo è iniziato nel 16 ° secolo
Filippo Brunelleschi, Spedale degli Inno- centi, Firenze, 1419.
in Italia, e siamo sotto l’influenza di questo.
Sentirsi dire queste cose dall’altra parte del mondo è impressionante. Nei suoi lavori si può percepire una particolare attenzione ai materiali, come se lei volesse invocare una sorta di esperienza corporea. Alla sua mostra lei ha esposto degli esempi di mo- duli di materiali, come un vocabolario. Può spiega- re questa relazione con loro?
Avere sensibilità per i materiali è la via che ci ha suggerito il movimento moderno. Non apprezzo l’architettura fatta di materiali finti. Ogni tanto provo attrazione nei confronti di questa, ma non riesco a disegnarla. Come cittadino individuale io approvo Dineyland, ma sono architetture del divertimento, ne abbiamo bisogno, ma non sono quello che dobbiamo perseguire a larga scala.
Mi piacerebbe parlare un poco della natura. Secon- do lei, quale è il ruolo della natura oggi in architet- tura?
Luce e vento sono le manifestazioni della natura. I centri cittadini sono un ottimo esempio, dove ci sono gli edifici che sono divisi solo da strade strette. In quei casi il ruolo delle finestre è quello di farti sentire la natura. Gli architetti giapponesi provano ad espande- re il significato nella luce e del vento in un espressione più ampia. Ecco perché nei miei lavori la corte ha un ruolo chiave, è un luogo dove si può percepire la natura, ed è soprattutto un modo storico per farlo: puoi trovare la corte a Pompei, negli antichi villaggi cinesi, in Kyoto. Poi, nel ventesimo secolo abbiamo trovato un’altra via, il tetto-giardino proposto da Le Corbusier.
Ha un particolare approccio al sito? Come conside-
Corte a Pompei.
ra il contesto durante la fase di progetto? Soltanto attraverso la mia esperienza. L’esperienza significa quanti spazi una persona ha visitato prima di cominciare un progetto. Io sono abituato a viaggiare due volte l’anno per vedere luoghi diversi e percepi- re nuovi spazi. L’esperienza suggerisce cosa fare nel progetto. Quando affronto un progetto per prima cosa vado al sito, vi cammino attorno, ci passo del tempo, provo a capire cosa succeda dal mattino alla sera, e questo tipo di esperienza corporea mi insegna cosa fare. L’esperienza di un architetto principalmente è questo: quanti spazi si è riuscito a vivere e compren- dere nella propria vita.
Il Teshima Art Museum si innesta nella campagna di campi a terrazze di Teshima, un’isola nel Mare Interno del Giappone. Il museo si gonfia verso l’alto come fos- se un bulbo, una cupola irregolare che emerge dietro un accenno di collina. Questa irregolarità, il leggero variare della sua morfologia, caratterizza la struttura come qualcosa di differente da un involucro generico. Il suo interno è fluido, una membrana di cemento riveste il pavimento e si avvolge a partire dai lembi per stendersi fino a sopra le teste dei visitatori. Inoltre è quasi completamente vuoto, privo di opere d’arte nonostante sia un museo. Nishizawa ha progettato il Teshima Art Museum in collaborazione con l’artista Rei Naito, dopo esser rimasto affascinato dalle sue opere e dal suo interesse per i fenomeni naturali as- sociati ad acqua, luce e aria. A Teshima, il suo lavoro risulta ancora più immateriale. Nishizawa ha lottato per ottenere il minimo spessore possibile (la sua strut- tura in cemento armato ha una sezione di appena 250 6.3.2 Ryue Nishizawa - Teshima Art Museum
millimetri) per far sì che tale leggerezza fosse leggibile senza l’intrusione visiva di travi e, in particolare, di travature di contorno nelle aperture esposte. Lo stesso Nishizawa ha paragonato la forma della galleria a una goccia d’acqua.
Il modello che ha ispirato Ito per la Tama Art Library è quello delle cave geologiche, dove archi di ampiezze diverse si susseguono creando spazi continui. I sup- porti degli archi funzionano come le stalattiti, ricon- giungendosi a terra con la minima sezione possibile. Gli archi misurano da 9 a 49 piedi di ampiezza e sono costituiti da lastre di acciaio comprese tra 0,4 e 0,6 pollici di spessore, rivestite in calcestruzzo. Mentre lo standard è di 12 pollici, Ito e l’ingegnere struttu- rale Mutsuro Sasaki sono stati in grado di progettare le pareti a soli 8 pollici di profondità, pur fornendo un sostegno sufficiente per i grandi carichi del piano superiore.
Ne risulta quella che Valerio Paolo Mosco definisce un’architettura nuda10, due grandi ambienti sovrap-
posti dove lo spazio è scansionato dalle arcate che determinano micro ambienti comunicanti dove si individuano le funzioni.
Si riportano le stesse parole di Mosco:
“La biblioteca Tama è una delle opere più riuscite dell’archietttura nuda: una teoria di archi di diversa dimensione, la quale varia da due a sedici metri, che si intersecano tra loro seguendo una disposizione arbi- traria, in parte determinata dalle esigenze funzionali. [..] Sebbene di una chiarezza ed essenzialità assolute quest’opera ha un carattere sapientemente manierista, ogni elemento infatti è modificato artificialmente, in maniera tale da ottenere una vera e propria trasmuta- zione dall’anonimia alla straordinarietà.”11
Situato sul monte Godai, il museo, progettato da Hiroshi Naito12, è costituito da due parti, una sala
espositiva e un edificio principale, collegati da un corridoio. Il progetto ha cercato di riflettere la topo- grafia del sito, e quindi permettere a questo complesso di fondersi con il paesaggio. Gli ampi pendii del tetto sono articolati da una costruzione dorsale impostata come una colonna vertebrale. Attraverso una dispo- sizione libera delle capriate in legno lamellare e dei travetti si determina una forma organica per gli spazi interni. Disposte a passi diversi, le travi sul lato del cortile sono fissati ad arcarecci di gronda tubolari per mezzo di giunti in acciaio, triangolari e regolabili in- dividualmente. Le aree espositive si aprono su cortili, e gli ampi tetti a sbalzo creano una transizione fluida tra spazio interno ed esterno come un engawa. Hiro- shi Naito segue in quest’opera, come nelle altre, una traiettoria tettonica che disegna un ponte tra l’archi- tettura tradizionale e contemporanea.
6.3.4 Hiroshi Naito - Botanical Museum
Hiroshi Naito, Botanical Museum, Koshi, 2001.
Il progetto di Shigeru Ban13 prevede un complesso
di tre volumi distinti. Ogni edificio è composto da un sistema strutturale diverso, ma ciascuno di essi presenta un’interpretazione moderna dei metodi di costruzione tradizionali in Corea del Sud. L’edificio principale, il clubhouse dei soci regolari, è composto da una struttura di copertura in legno esagonale a griglia che abbraccia l’intero edificio. Questo spazio è scansionato da colonne di legno e un tetto con copertura vetrata. Le colonne sono di legno lamellare, disposte radialmente e che vanno curvando in prossi- mità della copertura fino a diventare membri orizzon- tali del piano del tetto a griglia esagonale. Questo caso si ricollega a quello di Miralles/Tagliabue del mercato di Barcellona: l’utilizzo di modellazioni complesse di oggetti tridimensionali è finalizzato alla realizzazione di una superficie che espone la propria risoluta tecnica costruttiva, e non una concezione scultorea della sua essenza.