Che i δαίμονες siano interpretati, grosso modo all’altezza cronologica di Filone, come anime, incarnate o meno, di defunti o di viventi, è reso certo anche dalla preziosa testimonianza degli autori latini, che si affannano, con scarsa soddisfazione, a trovare una traduzione per il termine. Cicerone si scontra direttamente con questo problema nella sua parziale traduzione del Timeo: Reliquorum autem, quos Graeci δαίμονας appellant, nostri opinor lares, si modo hoc recte conversum videri potest, et nosse
et nuntiare ortum eorum maius est quam ut profiteri nos scire audeamus.186 Ancora più interessante è, a questo proposito, la testimonianza di Varrone, riportata da Agostino: inter lunae vero gyrum et nimborum ac ventorum cacumina aerias est animas, sed
eas animo, non oculis videri et vocari heroas et lares et genios.187 Se Cicerone sembra concentrare la sua attenzione su un particolare aspetto della concezione (post)platonica del δαίμων, Varrone intende riportare l’intera tradizione, confondendo i δαίμονες con gli eroi, come d’altra parte accade anche in Filone, e indicando oltre ai lari anche i geni. Ulteriormente più ampia è la traduzione proposta da Apuleio, secondo cui i δαίμονες, oltre a essere geni e esseri superiori, potrebbero essere i defunti in tutte le loro sfaccettature, quindi defunti ‘buoni’, cioè i Lares
185 Per quanto riguarda la corporeità di queste anime, si rimanda a Dillon 1983, pp. 200–203.
186 CICERONE, Timeo, 38: Per quanto riguarda gli altri, che i greci chiamano δαίμονες, e noi
dovremmo chiamare Lari, se questo può apparire un modo corretto di tradurre […].
custodi delle famiglie, defunti ‘cattivi’, i Lemures, e defunti ‘né buoni né malvagi’, i
Manes.188
L’idea, dunque, che i δαίμονες corrispondano alle anime dei defunti ha una lunga fortuna all’interno della tradizione di età ellenistica e del primo impero, ma molto interessante è la distinzione tra Lares e Lemures, perché in effetti dalla traduzione di Cicerone e di Varrone è implicito intendere che essi siano ben disposti verso gli uomini, come sempre sono i Lares: gli spiriti dei defunti irritati, infatti, come correttamente argomenta Apuleio, sono i Lemures. Si ha quindi l’impressione, benché il materiale a disposizione sia scarso, che per Cicerone e per Varrone i δαίμονες siano, come da tradizione esiodea, sostanzialmente buoni, custodi degli uomini virtuosi e contrari agli uomini malvagi. La tradizione riferita da Apuleio, e poco prima da Plutarco, è invece ben diversa e sottolinea fortemente la possibile esistenza di δαίμονες maligni. È possibile, quindi, chiedersi se anche per Filone tali esseri malvagi esistano oppure no, in quanto la critica ha spesso oscillato tra le due interpretazioni. La chiave per la comprensione di questo passaggio è il De Confusione
Linguarum,189 in cui si dimostra come non si possa, in effetti, parlare di
188 APULEIO, Il Demone di Socrate, 15.
189 FILONE, La confusione delle lingue, 34–36: ἔστι δὲ καὶ κατὰ τὸν ἀέρα ψυχῶν ἀσωμάτων ἱερώτατος χορὸς ὀπαδὸς τῶν οὐρανίων· ἀγγέλους τὰς ψυχὰς ταύτας εἴωθε καλεῖν ὁ θεσπιῳδὸς λόγος· πάντ’ οὖν τὸν στρατὸν ἑκάστων ἐν ταῖς ἁρμοττούσαις διακεκοσμημένον τάξεσιν ὑπηρέτην καὶ θεραπευτὴν εἶναι συμβέβηκε τοῦ διακοσμήσαντος ἡγεμόνος, ᾧ ταξιαρχοῦντι κατὰ δίκην καὶ θεσμὸν ἕπεται· λιποταξίου γὰρ οὐ θέμις ἁλῶναί ποτε τὸ θεῖον στράτευμα. βασιλεῖ δὲ ταῖς ἑαυτοῦ δυνάμεσιν ἐμπρεπὲς ὁμιλεῖν τε καὶ χρῆσθαι πρὸς τὰς τῶν τοιούτων πραγμάτων ὑπηρεσίας, οἷσπερ ἁρμόττει µὴ ὑπὸ µόνου πήγνυσθαι θεοῦ. χρεῖος µὲν γὰρ οὐδενός ἐστιν ὁ τοῦ παντὸς πατήρ, ὡς δεῖσθαι τῆς ἀφ’ ἑτέρων, εἰ ἐθέλοι δημιουργῆσαι, <συμπράξεως>, τὸ δὲ πρέπον ὁρῶν ἑαυτῷ τε καὶ τοῖς γινομένοις ταῖς ὑπηκόοις δυνάμεσιν ἔστιν ἃ διαπλάττειν ἐφῆκεν, οὐδὲ ταύταις εἰσάπαν αὐτοκράτορα δοὺς τοῦ τελεσιουργεῖν ἐπιστήμην, ἵνα µή τι πλημμεληθείη τῶν ἀφικνουμένων εἰς γένεσιν. μαρτυρεῖ δέ μου τῷ λόγῳ καὶ τὸ εἰρημένον ὑπὸ τοῦ τελειωθέντος ἐξ ἀσκήσεως τόδε· ὁ θεὸς ὁ τρέφων με ἐκ νεότητος, ὁ ἄγγελος ὁ ῥυόμενός με ἐκ πάντων τῶν κακῶν (Gen. 48, 15. 16)· ὁμολογεῖ γὰρ καὶ οὗτος ἤδη, ὅτι τὰ µὲν γνήσια τῶν ἀγαθῶν, ἃ φιλαρέτους τρέφει ψυχάς, ἐπὶ θεὸν ἀναφέρεται µόνον ὡς αἴτιον, ἡ δὲ τῶν κακῶν μοῖρα ἀγγέλοις ἐπιτέτραπται πάλιν, οὐδὲ ἐκείνοις ἔχουσι τὴν τοῦ κολάζειν αὐτοκράτορα ἐξουσίαν, ἵνα μηδενὸς τῶν εἰς φθορὰν τεινόντων ἡ σωτήριος αὐτοῦ κατάρχῃ φύσις. διὸ λέγει· δεῦτε καὶ καταβάντες συγχέωμεν. οἱ µὲν γὰρ ἀσεβεῖς τοιαύτης ἐπάξιοι δίκης
angeli/δαίμονες malvagi in Filone. Qui sono infatti offerte due spiegazioni per le azioni da loro commesse, che in qualche modo li discolpano: da un lato, sono considerati in genere come malvagi quei δαίμονες che compiono azioni violente nei confronti degli uomini, ma che in realtà stanno castigando chi lo merita.190 Queste anime, dunque, hanno una funzione vicina a quella dei δαίμονες ἀλάστορες della tradizione greca: non compiono il male per il male in sé, ma per obbedire alla volontà divina, e pertanto non sono imputabili. Essi dunque tormentano gli uomini per riportarli sulla retta via, non solo se si sono macchiati di una colpa, ma anche se hanno intenzione di farlo: non esiste per Filone la possibilità che gli angeli punitori agiscano in maniera eccessiva, andando oltre il loro mandato, poiché questo è stato loro proibito da Dio. Come si vedrà nel capitolo successivo, per Filone questa interpretazione è necessaria per rimanere aderente all’ideologia dominante nell’Antico Testamento.
Il secondo motivo, piuttosto simile, in realtà, riguarda l’impossibilità, per il Dio filoniano, di generare direttamente il Male, pur essendo la presenza del male nel mondo necessaria per il libero arbitrio dell’uomo: a questo scopo, Egli si è servito di Potenze al suo servizio, e quindi dei suoi angeli, in modo che ad essi fosse imputabile
τυγχάνειν, ἵλεως καὶ εὐεργέτιδας καὶ φιλοδώρους αὐτοῦ δυνάμεις οἰκειοῦσθαι τιμωρίαις. εἰδὼς μέντοι τῷ γένει τῶν ἀνθρώπων ὠφελίμους ὑπαρχούσας δι’ ἑτέρων αὐτὰς ὥρισεν· ἔδει γὰρ τὸ µὲν ἐπανορθώσεως ἀξιωθῆναι, τὰς δὲ πηγὰς τῶν ἀεννάων αὐτοῦ χαρίτων ἀμιγεῖς κακῶν ¦ οὐκ ὄντων μόνον ἀλλὰ καὶ νομιζομένων φυλαχθῆναι. Questo passo è confrontabile, e presenta numerosi punti di contatto, con La
Creazione del mondo, 72–75.
190 Dillon 1983, p. 203, ricorda che, in Fuga e ritrovamento, 66, Filone aveva chiaramente espresso la necessità di una categioria di ‘punitori’, in quanto Dio, essendo perfetto legislatore, non avrebbe potuto infliggere punizioni, ma avrebbe demandato questo compito ai suoi ministri, che coincidono con gli dei giovani del Timeo. Secondo Dillon, il passo di De Gigantibus non mostrerebbe l’esistenza di una classe di esseri malvagi, di cui Filone parlerebbe in relazione all’apocalittica giudaica, come ad esempio il libro di Enoch, (Dillon qui si rifersice all’ipotesi di Wolfson, contestata da Nikiprowetzky) e alla tradizione popolare greca, ma soltanto di anime che sono state incarnate per la loro eccessiva attenzione alle cose del mondo fisico: queste anime sarebbero, per Dillon, le anime degli esseri umani. Secondo Calabi 2004 lungi dal rappresentare aiutanti ribelli, gli angeli cattivi di Filone sarebbero anime ontologicamente simili alle anime di uomini che hanno scelto la sapienza e la filosofia.
la creazione del Male nel mondo;191 anche in questo caso, però, gli angeli che compiono il male non agiscono di loro iniziativa, ma su ordine divino.192
Il discorso di Filone sembra, quindi, non solo definire l’ambito di occupazione degli angeli considerati malvagi, ma mostrare la loro inesistenza: si ha l’impressione che l’Alessandrino voglia dimostrare l’assurdità di una credenza ben diffusa al suo tempo,193 in quanto l’uomo comune all’epoca di Filone si sentiva come circondato da legioni di spiriti, secondo l’espressione di Nikiprowetzky,194 che non necessariamente erano a lui favorevoli.195
191 Come d’altra parte accade in Timeo 42d–e.
192 Così Calabi 2004, pp. 97–99, secondo cui questo è l’unico caso in cui gli intermediari non servono agli uomini, ma a colmare una necessità ontologica, cioè la creazione dell’imperfetto a partire dal perfetto. In tutti gli altri casi citati da Filone, gli angeli non rispondono a una necessità divina, ma umana. Secondo Calabi, però, le Potenze che qui intervengono potrebbero essere differenti dalle anime citate nelle altre tre testimonianze citate. Infatti, gli angeli–demoni sono intermediari che svolgono un’azione di mediazione, ma la necessità del loro intervento è, per così dire, unilaterale: servono gli uomini, infatti, non a Dio, che non ha bisogno di informatori che salgano a lui per riferire ciò che accade nel mondo.
193 Cfr. Calabi 2004, pp. 92–94, secondo cui la superstizione che qui Filone intende combattere non riguarda solo l’esistenza stessa degli angeli malvagi, quanto anche la presunta e falsa distinzine tra anime, angeli e demoni in tre figure ontologicamente indipendenti: Dio, infatti, come si è detto, avrebbe creato un solo genere di anime, invisibili, aeree, mediatrici, che, attraverso scelte differenti, hanno assunto un ruolo, una funzione differenti per aver compiuto scelte diverse: le anime che hanno ‘disdegnato la corporeità’, sono rimaste presso Dio e svolgono quindi un compito di assistenza: questi sono quelle anime che correttamente possono essere chiamate angeli; le anime malvagie che hanno scelto di seguire la via dei piaceri sono quelli che erroneamente, per superstizione, sono chiamati angeli malvagi; esiste anche un gruppo mediano di anime, che hanno saputo scegliere quelle delle figlie degli uomini che risultavano plausibili e hanno poi saputo lasciarle per volgersi al bene. Questi sono gli uomini di Dio, sacerdoti o profeti, o, almeno, del cielo, anime volte al sapere. Secondo Nikiprowetzky, infatti, in Filone non esiste nessuna apertura alla demonologia (intesa come esistenza di esseri superiori all’uomo di natura malvagia), in quanto, come si è detto, gli angeli malvagi non sono altro che le anime degli uomini malvagi.
194 Nikiprowetzky 1996, p. 222: l’autore sottolinea le differenti componenti di questa concezione, tra cui superstizioni popolari, fantasie pitagoriche, platoniche, stoiche, che avrebbero dato un abito filosofico a elementi provenienti anche da un ambito religioso orientale, in particolare siriano. Sull’ipotesi di un’influenza orientale fin dalla composizione dei poemi omerici ed esiodei, si veda ad esempio Penglase 1994.
195 Interessante la supposizione di Mosès, nella sua edizione de I Giganti, p.28 n2: Aux
Gli angeli possono dunque effettivamente cadere, e rimanere intrappolati nei corpi, ma non esistono angeli non incarnati volontariamente maliziosi nei confronti degli uomini: si trova intrappolato nel corpo, da cui solo a fatica può uscire, chi è attratto dal mondo materiale, e non chi sia contrario agli ordini divini, poiché questa insubordinazione è impossibile, a livello angelico. Solo i filosofi, infatti, possono sperare di tornare a essere anime libere nell’aria, senza più legami con il corpo.
6. IL DEMONE DI SOCRATE E LE ATTESTAZIONI DEL τὸ δαιμόνιον
Uno degli utilizzi più frequenti del termine δαίμων tra la fine dell’età ellenistica e l’inizio dell’età imperiale concerne il noto demone di Socrate, ulteriore elemento di complicazione dei tentativi di conciliazione della terminologia demonologica platonica. In realtà, però, Platone, come pure Senofonte, non utilizza mai δαίμων per indicare questo concetto. I due discepoli di Socrate, osserva Cambiano, usano
prevalentemente l’aggettivo sostantivato to daimonion, ‘il demonico’, che in altri passi si specifica come un semeion, un segno, o una phoné, una voce. E ancora aggiunge che
Socrate non dice di avere to daimόnion, ma che gli succede (γίγνεσθαι).196 Conclude Cambiano che il demonico, il segno o la voce demonica, è qualcosa che succede a Socrate, è
un evento, non un’entità personale, che possegga Socrate e presieda al suo comportamento.197 L’aggettivo neutro sostantivato δαιμόνιον compare per la prima volta, per quanto ne sappiamo, con Bacchilide, mantenendo peraltro il suo valore aggettivale. Lo stesso termine, con il medesimo significato collettivo, sovrapponibile a το θεῖον, compare
philosophie. La superstition qu’il combat consiste peut–être à se représenter les esprits comme des êtres absolument étrangers et, par conséquent, hostiles à l’homme; dans la perspective philonienne, au contraire, les esprits qui peuplent l’univers sont, d’une certaine manière, homogènes à l’âme humaine.
196 Si veda, per esempio, PLATONE, Eutifrone 3b.
197 Per le differenze tra il demone socratico in Platone e Senofonte, si rimanda all’articolo di Cambiano 1990. Principalmente, Cambiano osserva la caratteristca ‘negativa’ del demone socratico in Platone, contrapposta alla funzione ‘assertiva’ presentata da Senofonte, che probabilmente intende accostare il demone socratico alla tradizionale ispirazione profetica per riabilitare la figura del maestro.
anche in Erodoto,198 Isocrate199 e nel Corpus Hyppocraticum,200 sempre con valore collettivo. Nelle Fenicie di Euripide, il vocabolo sembra sottendere il significato di
genio malefico, poiché è l’autore delle disgrazie che si abbattono sulla casa di Edipo, in
un utilizzo, però, che sembra richiamare da vicino il senso di δαίμων in quanto Fato, di cui si è ampiamente discusso.201 Il δαιμόνιoν, dunque, sembra aver conservato il valore indeterminato che originariamente aveva caratterizzato il δαίμων, tramite la non specificità tipica dell’aggettivo neutro sostantivato, che mantiene la sua qualità di ambito indeterminato: può dunque essere inteso con un valore collettivo poiché racchiude in sé l’idea di ciò che ha natura demonica, ma non presenta, generalmente, una forte opposizione rispetto a θέιον, benché sia interessante trovare giustapposti i due termini in una delle testimonianze ippocratee. In particolare, esso non è attestato in questa fase al plurale e manca di quella connotazione negativa, o addirittura dispregiativa, con cui, come si vedrà nel successivo capitolo, verrà impiegato nella traduzione dei Settanta.
7. CONCLUSIONE
Appare connaturata al termine δαίμων la difficoltà di assegnare ad esso una valenza specifica: fin dalle sue prime apparizioni, infatti, esso è utilizzato in maniera varia e articolata. Se risulta impossibile anche solo la ricerca di un unico significato, che spieghi tutte le occorrenze del termine, perfino all’interno della sola Iliade, questo può essere motivato da un erroneo assunto di base: che si debba cercare un unico concetto che, in una civiltà lontana da quella in cui il termine appare, possa spiegare
198 ERODOTO, Storie II, 120 5: […] era il δαιμόνιον che disponeva che, morendo nella più
completa rovina, rendessero evidente agli uomini che le punizioni divine per le gravi colpe sono gravi.
199 A Isocrate è stato attribuito il πρὸς Δημονικόν, un’orazione di ambito politico– pedagogico, che sembra non autentico per ragioni di natura contenutistica e stilistica, che però non risultano del tutto decisive. In questo testo, al paragrafo 13, il το δαιμόνιον è utilizzato per indicare la Potenza divina oggetto del culto umano, quindi come sinonimo di θέοι.
200IPPOCRATE, Il Morbo Sacro, 358, 16 e 382, 24. 201 EURIPIDE, Fenicie, 350–3.
cosa il poeta omerico o Esiodo intendessero esprimere. La risposta che appare più filologicamente corretta, dunque, sembra essere quella di Petersen, che propone di individuare non un termine che traduca cosa il δαίμων significhi, quanto piuttosto di identificare la funzione di ciò che era inteso come tale e di definirlo tramite un concetto che esprima attualmente la stessa funzione, che si può individuare in un legame che unisce il mondo divino al mondo umano, tradizionalmente distanti e inavvicinabili nella Grecia di età arcaica e classica. Questa è, d’altra parte, la lettura che si può dare del più noto testo ‘demonico’ della Grecia classica, il discorso della sacerdotessa Diotima in Simposio 202e. Possiamo quindi rendere l’idea della funzione del δαίμων attraverso il moderno concetto di intermediario, concetto che effettivamente si è sviluppato in ambito mediterraneo proprio per esegesi del citato testo platonico: il demonico greco è tutto ciò che sta tra il divino e l’umano. Quindi, anche nel momento in cui il divino si rivela all’umano, assume le caratteristiche del demonico, in quanto altrimenti non sarebbe avvertibile o comprensibile agli occhi dell’uomo. La stessa discussione di ciò che è divino è demonica, ed in quanto tale il mito stesso è demonico. Omero ed Esiodo rappresenterebbero, dunque, due aspetti diversi di questo legame tra divino e umano: in Omero, infatti, il termine è preferibilmente utilizzato per indicare una divinità che si rivela agli uomini, indicando dunque un processo che dal divino porta all’umano, mentre in Esiodo, specialmente nelle Opere e i Giorni, il processo appare inverso, in quanto sono gli uomini, dopo la morte, a rendersi più vicini agli dèi, essendo in qualche modo divinizzati, in un processo di accostamento tra realtà dei morti e divina che è tipica delle religioni arcaiche. Il concetto di demonico, però, appare così vicino a quello di divino, non essendo molto diverso da un riflesso del divino nell’umano, che presto una categoria scivola nell’altra, e il termine δαίμων è dunque utilizzato come sinonimo di θεός in una parte rilevante della tradizione letteraria di età arcaica e classica.
Anche il Fato, principalmente inteso come ciò che favorisce o che contrasta gli uomini senza alcun interesse per la loro condotta morale, associato al divino, è demonico, perché stabilito da una potenza superiore totalmente distinta dall’uomo
ma che sull’uomo stesso agisce. L’anima umana, considerata come una scheggia di divinità, o comunque di origine divina, è demonica per eccellenza, non solo se anima di morti, ma anche di viventi, imprigionata nei corpi e anelante al ritorno al divino, come risulta in particolare nei frammenti dei Pitagorici e di Empedocle.
Tutti questi valori particolari, ma anche la funzione originaria del termine, sembrano aver influenzato Platone, come dimostra l’ampia varietà delle valenze mostrate dai Dialoghi. Si aggiunge però un elemento, attestato solo in piccola parte nella tradizione a lui precedente: sembra infatti che anche la religiosità popolare si sia impadronita del termine, in un momento imprecisato dell’età classica o arcaica, intendendolo come una sorta di diminutivo di θεός secondo uno schema di probabile origine orientale: i δαίμονες sono infatti dotati di meno onore di un dio, anche se di maggior onorabilità rispetto a un eroe, in una scala gerarchica che probabilmente risente delle impostazioni pitagoriche. Demonici sono dunque i figli illegittimi degli dèi, che presentano elementi intermedi tra gli dèi e gli uomini, e le divinità inferiori al seguito delle divinità maggiori. Demonici sembrano essere alcuni personaggi provenienti dal folklore, come i demoni protettori delle strade, così come sono demonici gli strumenti della vendetta, le Erinni o le Eumenidi. Per quanto varie possano essere le figurazioni dei δαίμονες platonici, rimane sempre ben evidente la loro caratteristica mediazione tra mondo divino e mondo umano e questo induce a supporre che essi siano, in realtà, immagini mitiche, personificazioni mitiche, come spesso accade nei dialoghi platonici a ciò che permette di parlare del livello divino. Il mito è demonico, e i demoni platonici sono essi stessi dei miti.
Non in questo modo però sono intesi dai successori di Platone: Aristotele, apparentemente, cerca di condurre un’indagine biologica sulla loro esistenza, e l’autore di Epinomide e Senocrate, inquadrano i δαίμονες, definiti come esseri
intermediari e in generale dotati di una certa corporeità, in una precisa sistemazione
cosmologica, non solo per legare tra loro tutte le occorrenze del termine in Platone; allo stesso modo intendono anche accordarsi con miti che nella religiosità greca sono frequentemente intesi come demonici: esseri essenzialmente buoni in Epinomide e potenzialmente malvagi in Senocrate, ammesso che quanto riportato riguardo a lui
da Plutarco sia effettivamente da ricondurre a Senocrate, questi nuovi esseri demonici sono figure dotate di una forza sovrumana e di altri caratteri divini, pur essendo sensibili alle passioni. Quanto di questa metamorfosi derivi da una tradizione religiosa e quanto dai necessari adattamenti delle teorie platoniche è probabilmente indimostrabile, perché perso assieme alle altre testimonianze del tempo, che hanno però restituito un testo che permette di comprendere il legame con una tradizione religiosa, quella pitagorica, e il tema del demonico: il Papiro di Derveni, infatti, è preziosa dimostrazione dell’effettiva esistenza di un culto demonico, forse collegato alla divinizzazione dell’anima umana, per quanto in un ambito ristretto e riservato a un’élite di iniziati.
È plausibile dunque, in questa difficoltà definitoria, domandarsi in quale momento il termine abbia iniziato quello slittamento semantico che lo avrebbe con il tempo portato a divenire un equivalente di ‘diabolico’ e ‘satanico’: il δαίμων, originariamente, non è connotato né positivamente né negativamente, mantenendo l’apparenza di una vox media, così come accade per i termini che generalmente ricadono sotto l’ampio spettro del Fato. Certamente, una valenza negativa è frequente, legata specialmente alle recriminazioni contro un fato negativo, come ad esempio accade in Odissea. Le altre attestazioni di δαίμονες malvagi in età classica sono estremamente difficili da inserire in un quadro d’insieme, ma è bene osservare che sono in prevalenza collegate all’applicazione di una giustizia divina, che essa sia comprensibile per gli uomini o meno: così è da intendere la presenza di δαίμονες ἀλάστορες nella tragedia.
Quei δαίμονες malvagi che esulano da questa categoria sono quelli forse più interessanti per il presente lavoro di ricerca, perché dimostrano che, a un qualche livello, molto probabilmente estremamente vicino alla tradizione popolare e/o di origine orientale, esiste una categoria di esseri di indole malvagia o comunque nettamente contrari all’uomo, che causano rovina o follia o che comunque, senza alcuna apparente motivazione, sono irritati dagli uomini, al punto da essere paragonati da Apuleio ai Lemures della tradizione romana: morti che infastidiscono i vivi perché vi è stata qualche mancanza nei loro confronti. Di demoni malvagi,
dunque, non ne hanno lasciati in giro, secondo le parole di Plutarco, solo Empedocle, Platone e Senocrate, ma una tradizione nascosta, che molto raramente riaffiora, e che potrebbe essere la responsabile dello slittamento semantico del termine attorno all’inizio dell’era cristiana.
CAPITOLO II:
DEMONI IN CERCA DI UN CORPO UMANO