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Da paese di emigrazione a paese di immigrazione

Nel documento Caratteri del processo migratorio: (pagine 77-82)

L’ITALIA NEL SISTEMA DELLE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

4.1 Da paese di emigrazione a paese di immigrazione

L’Italia ha scoperto relativamente tardi il proprio ruolo di paese di immigrazione. Prima degli anni Settanta l’interesse degli studiosi era rivolto soprattutto alle emigrazioni dei nostri connazionali dalle campagne alle città, dal Mezzogiorno rurale verso il Nord industrializzato oppure verso i Paesi del Nord-Europa (Germania, Belgio, Svizzera etc.) o degli USA.

Se si considerano gli anni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni Sessanta, si assiste ad una vera e propria “emorragia di popolazione” italiana verso l’estero, ad un “rimescolamento” della popolazione italiana sul territorio nazionale dalle dimensioni impressionanti [Lanaro 1992; Pollini-Scidà 1998]. Solo in relazione alle migrazioni interne, dal 1951 al 1965 poco meno di un milione e mezzo di persone all’anno hanno cambiato residenza [Bonifazi 1998].

Anche le “migrazioni di ritorno” hanno avuto una certa consistenza, in buona misura incentivate dalle politiche di “aiuto alle partenze” attivate da numerosi Paesi europei a partire dal ’73, anno in cui si registra nella popolazione italiana un saldo migratorio attivo: il numero di emigranti italiani rientrati in Italia è superiore a quello di chi è emigrato all’estero [Sciortino 2000; Pollini-Scidà 1998]. Questo sarà probabilmente un primo segnale di trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione.

Gli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale sono caratterizzati da migrazioni verso i Paesi dell’Europa centro-settentrionale, soprattutto dai Paesi dell’Europa meridionale, ma anche dal Maghreb e dalla Turchia. Questa immigrazione ha una caratteristica ben determinata: è richiamata da una domanda di lavoro necessaria per la ricostruzione post-bellica e per il lungo periodo di sviluppo economico che è seguito. Non

bisogna dimenticare peraltro un elemento importante e cioè che il secondo conflitto mondiale ha avuto come effetto lo spostamento di un numero elevatissimo di persone. Difatti si calcola che il numero delle displaced

persons negli anni fra il 1939 ed il 1945 abbia superato i 30 milioni di

unità.

Dopo la ridefinizione dei confini geopolitici con la Conferenza di Yalta ci sono stati ulteriori movimenti di popolazione e milioni di persone sono state costrette ad emigrare forzatamente (6 milioni di tedeschi espulsi dalla Polonia per esempio) [Sciortino 2000]. Anche i processi di decolonizzazione hanno avuto un ruolo non indifferente sulle dinamiche migratorie. Si assiste ad un “ritorno” di milioni di “cittadini” che spesso non hanno mai conosciuto la madrepatria. Saranno moltissimi i “pieds noir” che dall’Algeria si dirigeranno in Francia, che, come altri Paesi europei (Olanda, Portogallo, Gran Bretagna) dovrà fare i conti con consistenti flussi di “ritorno”.

Per le classi dirigenti europee questi spostamenti (displaced persons, ex-coloni) hanno rappresentato un problema ma anche una soluzione, infatti la ricostruzione post-bellica è stata possibile grazie alla disponibilità sin dall’inizio di un abbondante bacino di manodopera migrante. Sciortino mette in evidenza che è solo quando questi serbatoi cominciano ad esaurirsi e dopo che l’Unione Sovietica adotta la propria politica repressiva nei confronti delle emigrazioni del proprio popolo verso i Paesi del blocco occidentale che la domanda del lavoro migrante dei paesi dell’Europa settentrionale comincia ad indirizzarsi sistematicamente verso i Paesi dell’Europa meridionale e successivamente verso la Turchia, i paesi del Maghreb e la Yugoslavia [ibidem].

L’Italia ha fatto la sua parte, difatti il flusso totale in uscita fu pari a 5,6 milioni di unità, soprattutto verso mete europee, flusso caratterizzato da una componente quasi completamente meridionale, poco istruita, che

vedeva nel lavoro in fabbrica un’opportunità di promozione sociale. In questa prima fase si parla di una prevalenza dei fattori di attrazione (nei paesi di destinazione) nella interpretazione delle migrazioni; gli immigrati si collocheranno nei livelli più bassi della scala delle occupazioni, alla catena di montaggio della fabbrica fordista-taylorista, nei cantieri edili, negli altiforni [Reyneri 1996]. Quei Paesi europei “importatori di manodopera” possono essere definiti “padroni di casa riluttanti”, laddove i migranti sono “richiesti ma non benvenuti”. Richiesti data l’insufficienza di offerta di lavoro dequalificato, ma non benvenuti in termini socio-culturali, e paesi quali la Germania, la Svizzera, l’Austria, che considerano i migranti solo come “lavoratori-ospiti” (permanenza strettamente legata alla durata del lavoro), delle presenze temporanee, sono la dimostrazione che

[…]il sistema politico non ritiene necessario riconoscere a tali lavoratori alcun diritto che non scaturisca dalle condizioni indicate nel contratto d’impiego e negli accordi bilaterali [Sciortino 2000, p.61].

Le politiche di “apertura” nei confronti della manodopera straniera da parte dei paesi dell’Europa centro-settentrionale si interrompono nel ’73-‘74, anni in cui si chiudono le frontiere a nuove immigrazioni con l’eccezione dei ricongiungimenti familiari. Le economie dei paesi europei conosceranno una serie di mutamenti di tipo endogeno e derivanti dalla congiuntura internazionale. Questi mutamenti investiranno i settori industriali strutturati secondo il modello fordista, che fino ad allora avevano trainato l’economia ricorrendo ad un utilizzo intensivo di forza-lavoro (in grossa percentuale immigrata): l’industria pesante, estrattiva, tessile. Si assiste a partire da quegli anni al progressivo declino di questi settori (caduta dell’occupazione industriale; caduta della domanda di

dei PVS (Paesi in via di sviluppo). Ci saranno cambiamenti anche nella struttura demografica dell’offerta di lavoro autoctono, che comincerà a risentire degli effetti del baby-boom post-bellico e di un aumento dell’offerta di manodopera femminile. A questo bisogna aggiungere la crisi energetica internazionale che comincia nel ‘73 e farà sentire i suoi effetti negativi sugli andamenti delle economie e dei livelli occupazionali: si assiste insomma ad una generale ristrutturazione dell’economia [Pollini-Scidà 1998].

Le cause che hanno portato all’adozione generalizzata delle politiche di blocco delle migrazioni dei lavoratori non sono state ancora chiarite adeguatamente, anche perché alcuni paesi (Svizzera e Germania) le adottarono prima dello shock petrolifero, quando i tassi di disoccupazione fra gli immigrati erano ancora bassi e la domanda di lavoro da parte degli imprenditori sostenuta.

Sciortino ipotizza che questa svolta conservatrice possa essere compresa meglio

[…]nei termini di un tentativo da parte dei politici e delle burocrazie pubbliche di riaffermare una possibilità di controllo politico sulle dinamiche economiche.[…]Si era cominciata a diffondere la percezione che le politiche migratorie adottate rispondessero troppo strettamente alle esigenze degli imprenditori e trascurassero invece tutta una serie di considerazioni “sociali”;[…]nei conflitti industriali era stata osservata la partecipazione di un segmento rilevante dei lavoratori stranieri;[…]la presenza degli stranieri cominciava inoltre ad essere sentita, per motivi demografici, all’interno delle istituzioni scolastiche e del welfare,[…]la crisi petrolifera sembra quindi rappresentare non tanto una causa diretta dell’adozione delle politiche di blocco, quanto un’ottima occasione per riaffermare l’egemonia statista sull’economia – riguadagnando un controllo dello stato sui processi di formazione della forza lavoro – in un momento di difficoltà della controparte [Sciortino 2000, pp.66-67].

Un tentativo della politica di ristabilire un controllo sull’economia insomma.

La chiusura delle frontiere provoca in quei paesi una riduzione della presenza di immigrati molto minore di quanto aveva fatto prevedere la “rotazione” (immigrazione – lavoro temporaneo – ritorno in patria). Molti immigrati decidono di stabilirsi e farsi raggiungere dai propri familiari proprio perché messi di fronte all’impossibilità di rientrare in periodi successivi [Calvanese-Pugliese 1991; Reyneri 1996].

L’adozione delle politiche di blocco ha prodotto, in definitiva, degli effetti imprevisti e inattesi (aumento della clandestinità per esempio) ma nonostante ciò sono queste politiche a definire ancora oggi il quadro decisionale di tutti i Paesi europei in materia di immigrazione [Sciortino 2000].

E’ generalmente riconosciuto che le politiche di chiusura dei Paesi dell’Europa settentrionale hanno giocato un ruolo importante nel favorire uno spostamento dei flussi migratori verso le regioni meridionali europee, Spagna, Grecia, Italia, Paesi per nulla “attrezzati”, impreparati da un punto di vista amministrativo e politico ad affrontare la trasformazione da Paesi di emigrazione in Paesi di immigrazione [Bonifazi 1998; Reyneri 1996].

A partire da quegli anni l’Italia comincerà ad essere meta di flussi migratori provenienti prevalentemente dai paesi dell’Africa mediterranea e dell’Europa orientale e l’attenzione degli studiosi comincerà ad indirizzarsi anche su questo versante [Pollini-Scidà 1998; Bonifazi 1998].

Questo elemento però non deve farci credere che “l’immigrazione in Italia” prima di allora non si sia mai verificata; essa è esistita non solo negli anni che precedono il ’73 (agli inizi degli anni Sessanta piccoli flussi migratori di pescatori tunisini in Sicilia; nel Nord Italia ci sono già le cosiddette colf), ma anche nei secoli passati, per esempio quando fra il

1300 ed il 1500 la Penisola era al centro del sistema economico mondiale ed esercitava una forte attrazione sui flussi migratori.

Quando l’Italia diventa meta di flussi migratori sempre più consistenti, essa è un Paese che presenta caratteristiche differenti da quelle dei Paesi europei centro-settentrionali, soprattutto in considerazione degli alti tassi di disoccupazione e di un dualismo Nord-Sud in termini economici ed occupazionali molto accentuato, per cui non è possibile interpretare le migrazioni che l’hanno riguardata adottando gli schemi interpretativi utilizzati per le migrazioni dei decenni precedenti in Europa centro-settentrionale [Mottura-Pinto 1996].

Nel documento Caratteri del processo migratorio: (pagine 77-82)