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L’inserimento nel mercato del lavoro

Nel documento Caratteri del processo migratorio: (pagine 105-109)

L’ITALIA NEL SISTEMA DELLE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

4.5 L’inserimento nel mercato del lavoro

Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro deve essere interpretato necessariamente tenendo conto delle caratteristiche specifiche del mercato del lavoro italiano, dalla natura estremamente segmentata, e del differente dinamismo dei sistemi economici locali, che si traduce in un profondo dualismo Nord-Sud. Se non si tiene conto di questi due elementi non ci spiegheremmo come mai gli immigrati siano presenti sia in regioni con alti tassi di disoccupazione, come quelle del Mezzogiorno, sia in regioni caratterizzate da tassi di disoccupazione molto bassi, come quelle del Nord, in particolare il Nord-Est.

Pugliese sostiene che la segmentazione del mercato del lavoro permette di comprendere

[…] l’apparente paradosso della coesistenza di immigrazione e disoccupazione presente in quasi tutti i paesi della sponda nord del Mediterraneo […] e particolarmente evidente nelle regioni agricole dove la manodopera di immigrazione svolge un ruolo sempre più significativo [Pugliese 2002, p.98].

Non a caso questa situazione è particolarmente evidente nel Mezzogiorno italiano, in cui una grossa quota di immigrati è impegnata in agricoltura, settore in cui i salari sono spesso inferiori alla metà di quelli contrattuali e le condizioni di lavoro sono caratterizzate il più delle volte dalla violazione di norme di sicurezza e di garanzia. Con ciò si spiega l’indisponibilità dei disoccupati locali ad offrirsi per lavori del genere, lavori che per gli immigrati offrono molto probabilmente un salario superiore a quello che percepirebbero nei loro paesi di provenienza (come emerge anche dalle interviste riportate in Appendice). Inoltre non è da sottovalutare il fatto che possa esserci una sorta di incompatibilità fra domanda ed offerta di lavoro da un punto di vista qualitativo, per cui molti giovani (locali) con alti tassi di scolarizzazione rifiutano di fare lavori che finiscono con l’essere svolti dalla forza-lavoro immigrata [Ambrosini 2001; Pugliese 2002; Reyneri 1996].

Questo non significa che la popolazione immigrata sia priva di istruzione o poco professionalizzata, ma piuttosto che essa è esposta in partenza alla precarietà occupazionale, anche per il fatto che i dispositivi che regolamentano l’accesso al mercato del lavoro sono molto selettivi per quanto riguarda la convalida dei titoli di studio ottenuti al di fuori dell’Unione Europea e dell’area OCSE [Ambrosini 2001b].

Interessante è un dato riportato da Ambrosini in un saggio dal titolo

Oltre l’integrazione subalterna, pubblicato sulla rivista “Studi

Emigrazione”, in base al quale gli immigrati che trovano lavoro in Italia sono spesso in possesso di livelli di istruzione e competenze professionali

più elevate della forza lavoro italiana che svolge le medesime occupazioni. Quello che la maggior parte degli immigrati con elevate credenziali educative e competenze professionali acquisite in patria pare sia destinata a vivere, è dunque un processo di dequalificazione nel mercato del lavoro italiano.

Nelle regioni del Nord, in particolar modo nel Nord-Est, è l’esistenza di una domanda di lavoro industriale molto dinamica ad attirare la forza-lavoro immigrata, senza la quale quella domanda non potrebbe essere soddisfatta, visti i bassi tassi di natalità in quelle regioni, dove i giovani (locali) in età attiva costituiscono un numero esiguo. Per questo motivo non sarebbe sbagliato considerare la forza-lavoro immigrata come complementare all’offerta di lavoro locale [Pugliese 2002].

La struttura occupazionale degli immigrati mostra delle differenze fra Nord e Sud: al Sud l’occupazione degli immigrati è meno regolare e concentrata in attività tradizionali.

La maggioranza degli immigrati è collocata nella fascia secondaria del mercato del lavoro, nell’area delle occupazioni caratterizzate quasi sempre da precarietà ed assenza di garanzie.

In generale si può affermare che i principali ambiti di inserimento degli immigrati in Italia sono tre: basso terziario, industria e agricoltura [Ambrosini 2001a]. Per quanto riguarda il primo ambito si deve tener conto del nuovo assetto economico post-fordista, il quale ha prodotto – e ciò risulta particolarmente evidente nei grandi centri urbani – una

domanda di lavoro servizievole che viene spesso soddisfatta da

forza-lavoro immigrata. E’ soprattutto all’interno delle metropoli che la struttura professionale manifesta una crescita dei segmenti estremi della gerarchia delle occupazioni: da un lato aumentano le professioni qualificate, dall’altro lavori a bassa qualificazione.

La domanda di lavoratori manuali, esecutivi, spesso precari e meno garantiti degli operai industriali del passato, può quindi essere correlata con la trasformazione post-industriale delle metropoli […]. In altri termini: il lavoro ricco richiede lavoro povero, e anche sommerso. Si tratta di una miriade di lavori manuali debolmente qualificati, che portano alla formazione di quello che viene definito il proletariato dei servizi […]. La nuova immigrazione, regolare e soprattutto irregolare, si inserisce in questo mercato del lavoro umile, precario, scarsamente garantito [ivi, p.59].

A ciò bisognerebbe aggiungere la crisi del Welfare pubblico che, traducendosi in una riduzione della spesa sociale, ha avuto come effetto un aumento della domanda privata di servizi come quelli alle persone (la cui crescita è peraltro legata anche al generale invecchiamento della popolazione italiana), che viene il più delle volte soddisfatta dagli immigrati.

L’altro ambito di inserimento è relativo all’ingresso degli immigrati nelle imprese industriali e dei servizi (escludendo agricoltura, lavoro domestico, attività indipendenti). Spicca il ruolo delle regioni del Nord, soprattutto nord-orientali, dove i sistemi produttivi basati sulla piccola e media impresa incontrano difficoltà crescenti a trovare la manodopera richiesta da attività in cui il lavoro manuale, faticoso e scarsamente qualificato non è affatto scomparso, ma è anzi necessario per supportare le attività qualificate e prevalentemente svolte dalla forza-lavoro italiana.

Il terzo grande ambito di inserimento è quello agricolo. In Italia, fin dall’inizio dell’arrivo dei primi immigrati, l’agricoltura ha offerto numerose opportunità di lavoro in forme molto destrutturate ed esposte a gravi forme di sfruttamento [ivi, p.69]. Sebbene nelle aree agricole del Settentrione la situazione si sia evoluta in direzione di un impiego di lavoratori stranieri in forme più regolari del passato, nel Mezzogiorno la situazione rimane piuttosto problematica. Per Pugliese la questione ha

implicazioni anche a livello di politiche migratorie: la stagionalità delle occupazioni agricole permetteva agli immigrati di elaborare progetti migratori flessibili, nel senso che si verificava un continuo processo di entrata e di uscita dal paese, grazie alla minore rigidità dei controlli alle frontiere [Pugliese 2002]. Ora che le più recenti norme sugli ingressi e sulla permanenza nel territorio italiano si fanno sempre più selettive e rigide, l’immigrato non solo è meno libero di elaborare un progetto migratorio flessibile, ma è anche costretto a rimanere in una condizione irregolare, di illegalità (che significa oggi impossibilità a cercare un lavoro regolare o ancora peggio l’espulsione dal Paese) nel momento in cui scade il proprio contratto di lavoro.

Nel documento Caratteri del processo migratorio: (pagine 105-109)