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Dai beni comuni al patrimonio culturale dell’umanità

di Lia Giancristofaro e Francesco Ferzetti *

10. Dai beni comuni al patrimonio culturale dell’umanità

Il cambiamento epistemologico delle scienze della cultura ha consentito di superare il paradigma dell’autenticità di ciò che resta. La tradizione

21 Per oltre trent’anni, le istituzioni e la società civile hanno realizzato, nelle regioni italiane, attività di catalogazione dei Beni DEA, attività che hanno contribuito ad alimentare la conoscenza del passato. I progetti di censimento e di valorizzazione del patrimonio DEA si sono concentrati sul lavoro contadino e pastorale, sulle superstizioni e sui rituali delle regioni d’Italia (Bravo e Tucci 2006).

etnografica, con il suo bagaglio di consapevolezze legate all’incontro con l’alterità e al rispetto per la diversità culturale, ha arricchito di nuove responsabilità i processi di istituzionalizzazione dei cosiddetti beni comuni, che sono stati a lungo sclerotizzati dentro improbabili confini nazionali, regionali e provinciali, e dentro la fuorviante dicotomia tra cultura e natura, tra produzione materiale e sapere astratto, tra oggetto e fruizione dell’oggetto.

Il cambiamento di prospettiva si è concentrato in pochi decenni: dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli antropologi sembravano spiazzati dal nuovo scenario di connessioni crescenti, e denunciavano la violazione degli ultimi villaggi incontaminati come distruzione di un ordine culturale preesistente alla storia, statico e originario22. I diplomatici si attivarono e vennero predisposti i primi strumenti di protezione dei diritti culturali da parte dell’UNESCO e dei valori sociali sottesi alla patrimonializzazione di una residuale biodiversità che lo sguardo critico occidentale cominciava a considerare come bene comune. Gli strumenti di protezione si fondarono sul paradigma, altrettanto occidentale, del diritto internazionale, assumendo come postulato il fatto che ogni gruppo desideri il riconoscimento delle proprie memorie in uno scenario culturale di ampia diversificazione.

Negli anni in cui il diritto internazionale si appropriava dei concetti antropologici al fine di fondare gli istituti normativi di salvaguardia della diversità culturale, gli antropologi si dedicavano al processo inverso, cioè alla decostruzione dei concetti antropologici che si erano stabilizzati nella dimensione pubblica del sapere. I concetti di cultura, identità, autenticità (Clifford 1988) vennero criticati e superati, e molti antropologi guardarono con sospetto il nuovo paradigma normativo dei diritti culturali, sia per la sua natura di teorizzazione occidentale, sia

22 Gli antropologi evidenziavano come una sorta di monocultura occidentale, fondata

sul capitalismo e sul consumo irresponsabile delle risorse naturali, si espandesse in tutto il mondo, appiattendo la diversità culturale e distruggendo la biodiversità. In tale prospettiva, l’incontro interculturale aveva effetti nefasti, stimolando, da parte delle popolazioni tribali, l’adeguamento alla cultura mercantile (Lévi-Strauss 1955).

perché le politiche applicative connesse alle convenzioni internazionali sembrano voler conservare le culture nel tempo e nello spazio, confliggendo col loro carattere ibrido e dinamico. Altri antropologi, invece, soprattutto quelli che adottano una postura interna o partecipativa, hanno intravisto nei processi in atto una riconfigurazione degli equilibri politici ed economici mondiali, e un possibile strumento di lotta, da parte dei gruppi subalterni, verso i processi di colonizzazione culturale e di distruzione dell’ambiente. La presenza di convergenze tra i concetti di diritto, patrimonio, memoria e riflessività ha stimolato un settore di studio specifico, quello degli heritage studies, nel quale confluiscono le ricerche e le teorie che si occupano delle attività istituzionali sull’eredità culturale e, in modo più ampio, del bisogno sociale di riaffermare il legame col passato evocando il suo corredo di simboli identitari23.

Al fine di consentire il riconoscimento dal basso dei beni, l’UNESCO ha istituzionalizzato liste di varie categorie patrimoniali, nelle quali il flusso del pluralismo dialoga con le istituzioni e costituisce un livello valoriale nuovo, astratto e metadiscorsivo. Nel livello politico-giuridico, insomma, il patrimonio culturale è progressivamente uscito dai confini della materialità e dell’autenticità in senso filologico. Le politiche patrimoniali dell’UUNESCO sono inquadrate nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, per la quale le questioni riguardanti il patrimonio appartengono a un attore collettivo definito come umanità e per la quale diversità implica il pluralismo, diffondendo il principio della reciproca conoscenza e del dialogo interculturale come strumento per la soluzione dei conflitti. Attraverso la Convenzione

23 Gli studi sul patrimonio (heritage studies) sono nati con la pubblicazione del libro di David Lowental, Il passato è un paese straniero (1985) e non sono necessariamente interessati alla rappresentazione oggettiva del passato. La storia è l’insieme dei fatti del passato, mentre il patrimonio è la storia elaborata attraverso la mitologia, l’ideologia, l’orgoglio locale, le idee romantiche o semplicemente il marketing. I significati del patrimonio sono quindi soggettivi e radicati nel presente; nell’ottica popolare, il patrimonio culturale è più importante della storia oggettiva (Lowental 1985, 410).

riguardante la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale del 1972, il discorso dell’autenticità era stato reso operativo come un espediente meramente retorico finalizzato alla mitizzazione del bene, canonizzato tra i grandi patrimoni tramite l’iscrizione in una lista (Palumbo 2006; Bromberger 2014). La conservazione e la protezione di siti e paesaggi materiali in quanto «patrimonio dell’umanità» si è implementata tramite un numero crescente di iscrizioni nella Lista del Patrimonio mondiale, pratiche pubbliche che tendenti all’oggettivazione e alla rivendicazione collettiva dei beni (Palumbo 2006). Negli ultimi anni, le politiche unescane hanno cambiato rotta, accogliendo il principio che la canonizzazione dei beni e la loro musealizzazione non possono, di per sé, garantire la loro continuità culturale. Il requisito scientifico dell’autenticità, del tutto insufficiente ad assicurare la trasmissione del bene, è stato superato tramite l’introduzione del nuovo paradigma del patrimonio culturale immateriale, reso operativo dall’UNESCO tramite la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003.