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di Lia Giancristofaro e Francesco Ferzetti *

6. Patrimonio, tempo, generazion

Il termine patrimonio risale al diritto romano ed è pervenuto alla cultura contemporanea attraverso una lunga evoluzione: il patrimonium era l’eredità che dal padre passava al figlio maggiore. Il patrimonium, dunque, equivale a una hereditas: il termine è formato dal termine pater, cioè padre, e da munus, che significa appunto dovere. Nell’accezione gius-romanistica, il patrimonio concerneva beni materiali, ovvero le res corporales, e, in seguito, anche i diritti di godimento, come l’usufrutto o la surroga nel credito, definiti res incorporales (Arangio Ruiz 1957). L’estensione della categoria dalla dimensione materiale a quella simbolica delle res incorporales è particolarmente efficace per restituire la dimensione patrimoniale di cui ci occupiamo nel presente testo, concernente le memorie collettive vive e il loro difficile inquadramento giuridico. In molte culture, del resto, si registra l’usanza di lasciare alla discendenza non solo beni materiali (terre, abitazioni, mobili, oggetti preziosi), ma anche beni immateriali (prestigio sociale, professione,

ulteriormente ristretto tramite il riferimento ai beni materiali. Il patrimonio culturale per il Codice italiano è dunque costituito sostanzialmente da beni materiali (art. 2), e la mancanza di riconoscimento della natura socio-educativa del patrimonio immateriale è una grave lacuna dell’ordinamento italiano (Tarasco 2011).

abilità, appartenenza nobiliare, ruolo politico). In tal senso, il dispositivo del patrimonium, assieme a quello dell’hereditas, riguarda non tanto il soggetto che muore e lascia i beni, quanto invece il soggetto che li riceve, ovvero l’erede. L’investimento emotivo che contraddistingue le relazioni familiari e intergenerazionali carica di un plusvalore affettivo il patrimonio e presuppone una quota aggiuntiva di responsabilità sull’erede che, nel mondo occidentale e mediterraneo, viene valutato tramite un codice d’onore fondato sulla religione. Il beneficiario dell’eredità deve testimoniare l’uso che egli ne ha fatto non solo alla sua coscienza, ma alla collettività intera e allo sguardo idealizzato degli antenati che gli hanno lasciato il patrimonium: la responsabilità di chi esercita il proprio potere su un patrimonio va ben oltre la mera gestione delle risorse e deve essere esercitata attraverso la diligenza e l’impegno del buon padre di famiglia, che onora i suoi debiti e tiene conto delle esigenze di tutti (Arangio Ruiz 1957).

La missione patrimoniale, cioè il dovere di custodire il patrimonio a vantaggio delle generazioni future, è presente anche nel concetto di tradizione, che viene dal latino tràdere (consegnare qualcosa a qualcuno) e indica appunto un processo di trasferimento di padre in figlio che, essendo esplicitamente finalizzato alla conservazione di oggetti e credenze, carica il figlio di responsabilità e di autorità. Infatti, l’idea che la tradizione e il patrimonio culturale derivino in modo diretto e naturale dalle generazioni precedenti è irrazionale e poggia sull’inversione dei piani temporali: il passato non può influenzare il presente così come il padre fisicamente genera il proprio figlio. Semmai, è il figlio, ovvero il suo particolare assetto di valori del presente storico, che genera il proprio antecedente, il proprio patrimonio, per un meccanismo di «filiazione inversa» (Lenclud 2001, 123). Più che di patrimonio e di tradizione, converrebbe dunque parlare di tradizionalizzazione e patrimonializzazione, cioè di «processi dinamici in cui il presente riconosce una paternità culturale in una parte del suo passato» (Lenclud 2001, 123-124).

Considerando l’evoluzione dei paradigmi poggianti sulle basi concettuali del diritto romano, passiamo alla diffusione del dovere di conservare nella cultura occidentale. L’idea di patrimonio e di eredità culturale si consolidò in Francia soprattutto dopo gli eventi del 1789, quando si affermò la Repubblica e i beni materiali appartenuti alla famiglia reale diventarono improvvisamente di tutti. La prospettiva politica dell’Illuminismo era universalista e mutò rapidamente in un’ottica nazionalista: infatti, il concetto di eredità comune venne facilmente rigenerato e implementato come culto popolare delle memorie patrie che meglio rispondeva al clima politico ottocentesco e dava corpo, nell’immaginario collettivo, a un insieme di elementi in grado di sollecitare le emozioni del popolo e di incarnare il bene della Nazione. Anche il Romanticismo coltivò il culto delle memorie patrie in modo essenzializzato, spiegando come oggettiva e naturale la preferenza accordata a un insieme di elementi piuttosto che a un altro.

Per lo sviluppo di una riflessione sulla natura sociale del patrimonio culturale dobbiamo attendere il Novecento, quando si scopre che il patrimonio plasma l’essere umano ma ne viene, a sua volta, plasmato, riassumendo il rapporto di una società con il tempo che passa (Hobsbawn-Ranger 1983)11. La capacità evocativa di un bene culturale, dunque, dipende dal suo contesto espressivo12. L’ottica interpretativa

11 In questo senso, il patrimonio diventa il supporto ontologico della temporalità e stimola nelle persone quel rovesciamento delle logiche temporali per cui luoghi e manufatti storici oggi sono il passato vivo e vitale che entra nel presente. In realtà, è il presente che stabilisce cosa sia il passato e a quale fine vada ricordato.

12 Per esempio, un edificio come la Bastiglia ricorda e rappresenta, per la sua collocazione nel tempo e nello spazio, un evento che fonda e riflette idee politiche mutevoli. I resti di un tempio precolombiano, studiati dagli archeologi occidentali, per gli abitanti locali hanno un valore diverso, perché orientano i percorsi quotidiani e consentono di dichiararsi eredi di una lontana civiltà. Una foresta, un mare o una montagna vengono considerati dalle popolazioni autoctone come fondamento della loro esistenza, e dagli ambientalisti di ogni parte del mondo come una risorsa universale della biodiversità. Un rituale praticato da molti anni rappresenta, per gli abitanti di un piccolo paese, una risorsa per dare forma e fiducia alla vita locale, ma da quanti ne

mette a fuoco come i fruitori del patrimonio propendano per una visione intuitiva, emozionale, causale e retrospettiva dello stesso, elevandolo a origine e radice del tempo presente. Rispecchiandosi nel patrimonio proprio e in quello altrui, e considerandone la relatività, le persone rivestono il patrimonio di una sacralità intrinseca e possono essere inibite dal praticarne un uso utilitaristico. Infatti, lo sfruttamento economico del patrimonio culturale produce una sorta di rammarico, di senso di colpa, proprio come se si trattasse della distruzione di un bene di famiglia. La sacralità intrinseca peraltro scatena rivendicazioni e azioni politiche forti che possono portare all’esaltazione del patrimonio, ma anche alla sua distruzione plateale, come è accaduto nel sito archeologico di Palmira, in Siria. I beni culturali, insomma, vanno oltre il semplice residuo del passato e diventano oggetti semiofori, cioè «portatori di storia, di memoria, di cultura, di valori religiosi e politici» (Maffi 2006; Fabre 2010, 17-52). É possibile, tuttavia, proporne visioni più riflessive, evidenziando la caratteristica di essere non radice, ma frutto: mettere in luce la natura negoziale e circostanziale del patrimonio, in tal senso, evidenzia la fragilità della sua conservazione e trasmissione.