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Le origini del bene comune nei modelli platonici e aristotelic

di Lia Giancristofaro e Francesco Ferzetti *

1. Le origini del bene comune nei modelli platonici e aristotelic

Il mito di Babele ritrae in maniera nostalgica una comunità umana che, intendendosi con un comune linguaggio, provava a costruire qualcosa che non aveva avuto precedenti. La gestione comune di qualcosa, per mezzo delle diverse capacità progettuali e operative degli uomini dediti all’impresa, dimostra non solo la possibilità di comprendersi nel fare, ma anche di avere un accordo portante che dirige l’azione del fare, un telos dell’azione comune che è considerato utile per tutti.

Conoscere questo telos e far sì che una comunità cooperi per il suo raggiungimento è stato uno dei nodi fondamentali del pensiero etico- politico della Grecia antica. Nel suo mito dis-/u-topico, Platone insegna che solo coloro che non hanno interessi personali possono veramente riuscire a governare la città verso il bene comune. I filosofi, infatti, sono coloro che non sono distolti dall’interesse personale nella decisione della cosa pubblica, a differenza dei produttori e dei guerrieri, attratti dal guadagno e dalla fama. I filosofi, per Platone, sono disinteressati perché mirano al sapere in modo da identificarsi con l’amore del sapere2

. Quindi, i filosofi possono mirare al potere attraverso una visione del bene comune che sia una finalità del sapere complessivo, che unisca il bene, il bello e il vero, la cui unione è l’oggetto e il fine del loro sapere universale e disinteressato. Solo il filosofo che ha la visione dell’insieme può accedere al theorein, cioè la teoria, come visione diretta o astratta dell’essenza del bene, cioè il bene comune, mentre produttori e guerrieri mirano ai beni parziali dell’economia e della difesa (Platone 19975

). In greco, vedere con gli occhi della mente significa cogliere le idee che sono i modelli universali del bene, del vero e del bello, ossia: per il bene l’etica, per il vero la scienza e per il bello l’arte. L’idea è il modello generale, quindi, nel caso del bene, il bene comune, mentre i beni singoli riguardano fatti empirici di casi non universali. Solo chi pensa con le idee, rappresentandosi i modelli generali e universali, può non limitarsi al singolo bene e vedere l’idea del bene (la scienza del bene), l’idea del vero (la scienza del vero) e l’idea del bello (la scienza del bello che coinvolge anche la perfezione del bene e del vero). Si creano, così, i campi dell’etica, della scienza e dell’arte come finalità del sapere del filosofo di professione che, poi, applica tutta la sua conoscenza alla politica, cioè alla cura della polis verso il bene comune. Platone, insomma, fa coincidere il valore della conoscenza per la conoscenza con il valore dell’applicazione della conoscenza alla città, cioè al bene

2 Da qui la filosofia da φιλοσοφία (philosophía), termine composto da φιλεῖν (phileîn)

comune della polis. Il filosofo ateniese tenta di definire una Repubblica utopica che realizza la giustizia politica proponendo un modello generale di città, suggerendo il ricambio della classe dirigente e organizzando una formazione pubblica per consentire ai meritevoli di ascendere alle più alte cariche3.

Se per Platone il dover essere del bene generale è ancora da costruire, per Aristotele è necessario constatare come nelle varie città-stato sia possibile individuare interventi migliorativi, comparando le loro differenti Costituzioni. Mentre Platone costruisce l’utopia della res publica, cioè della cosa pubblica ordinata come un bene di tutti e per tutti, Aristotele studia le Costituzioni esistenti per ricavare la migliore. Platone ha la visione della progettualità politica del bene futuro della Repubblica tanto quanto Aristotele ha l’esigenza di documentare le realtà politiche esistenti per riformarle (Aristotele 1966). Aristotele ritiene che il sapere sia la classificazione di costituzioni empiriche per comprendere il bene nella realtà politica, mentre Platone obietta: come si fa a confrontare tra di loro le Costituzioni se non hai l’idea innata di ciò che sia meglio e ciò che sia peggio? Quindi, per Platone, che è un idealista, l’ascesa al potere è legittimata dalla liberazione delle idee innate, offuscate dall’ombra del sapere empirico (il mito della caverna), e il trionfo delle idee universali è la condizione prescrittiva per modificare l’esistente. Al contrario, la prospettiva di Aristotele, che è un empirista, è quella di misurare l’esistente per confrontarlo tra casi diversi e riformare l’esistente sulla misura dell’uomo, non sull’idea del giusto assoluto.

Aristotele vuole valorizzare la Costituzione migliore tra quelle esistenti, Platone vuole affermare la giustizia del bene universale su tutte le Costituzioni, magari creando una Costituzione che migliori quella

3 Platone vantava origini nobili poiché discendente del mitico re Codro, l’ultimo

sovrano di Atene, tanto che andò a Siracusa come consigliere del tiranno-mecenate Dionisio I (Platone 1995). Tuttavia, auspicava un ascensore sociale per consentire a chiunque, anche di estrazione popolare, di poter governare.

esistente, ovvero, una Costituzione non esistente che le migliora tutte, per cui, Aristotele è un riformista mentre Platone un rivoluzionario. Aristotele evidenzia fin dall’inizio della sua Etica nicomachea non un bene al di là delle cose concrete, ma un anthropinon agathon, un bene a misura d’uomo. Ebbene, proprio Aristotele, all’inizio della sua dissertazione sul costume umano, mostra che se, da una parte, «tutto tende al bene», si manifesta, all’interno della città, un’architettura che permette all’edificio della comunità umana di stare in piedi e che poggia sul rapporto tra beni che, pur essendo parziali, personali, sono subordinati a beni di un ordine superiore. L’esempio di Aristotele è eloquente: l’arte di costruire le briglie poter ben cavalcare e difendere la città corrisponde al raggiungimento dell’eu zen, la felicità della buona vita. Il sapere che sovrintende a tale organizzazione architettonica è l’arte più architettonica di tutte, cioè la politica (Aristotele 1999). Proprio nel III libro della Politica4, lo Stagirita afferma che il fine della società civile, se ci è consentito utilizzare questo termine moderno, è la cura della pubblica utilità, affinché ciascuno possa vivere bene e felicemente. La polis vive nella sua completezza quando si dà una comunione di vita tra famiglie e comunità (Aristotele 201914). Da questo, possiamo dedurre due principi fondamentali. Innanzitutto, il bene comune, per essere tale, deve avere rispetto per tutte quelle prerogative che secondo natura investono le singolarità della scena etico- politica e, quindi, innanzitutto la famiglia, come cellula naturale di interessi privati. In secondo luogo, tale armonia è resa possibile dalla fiducia nella possibilità di riuscire a mettere insieme, in un accordo portante per la comunità, interessi privati e bene comune. Questo è possibile sulla base di un riconoscimento dei valori che ciascun interesse privato mette in campo nello scambio sociale, per cui un bene comune può darsi come tale nel momento in cui non solo non contraddice, ma assimila e favorisce la realizzazione di tutto ciò che investe la natura

umana nella sua singolarità e nel rapporto tra singoli, secondo il principio aureo del giusto mezzo.

A partire da Aristotele, insomma, si apre un orizzonte contrassegnato dalla temporalità, in quanto essendo a misura d’uomo, e non commisurato all’idea astratta del bene, il bene comune è sottoposto a valutazioni storiche e suscettibili di cambiamenti. Al contrario Platone, costruendo idee universali da applicare al bene comune, rappresenta la sintesi tra cultura sapienziale e ricerca filosofica astratta in merito al vero, al bene e al bello universale. Questo percorso oggi può essere applicato alla figura dell’intellettuale nel senso della missione del dotto di Fichte (Fichte 2013) o all’intellettuale come professione di Weber (Weber 2018), dal momento che la filosofia è diventata non la scienza e la sapienza della conoscenza per la conoscenza con valore di applicazione al bene comune della polis, ma questa figura è trasferita dal filosofo classico all’intellettuale moderno perché la filosofia è diventata da amore generale per la sapienza, disciplina particolare di ricerca in tanti campi come la gnoseologia, l’etica, l’estetica, la filosofia del diritto, la filosofia politica ecc., con ambiti definiti di applicazione e non più come ricerca sapienziale di idee e valori universali.

Oggi, il bene comune è oggetto di indagine non esclusiva di filosofi sapienziali, ma di economisti, giuristi, sociologi, religiosi ecc., figure di ricerca intellettuale che discendono dalla figura del filosofo antico e ricercano sul bene comune ognuno dal punto di vista della propria area disciplinare, in riferimento ai beni comuni materiali e immateriali della nostra contemporaneità, contemperando sulla missione filosofica platonica le indagini di campo empirico di Aristotele.

Tra i beni comuni immateriali c’è la moneta, retta dalla convenzione delle proprietà intellettuali dei cittadini che hanno diritto a essere azionisti della sua emissione e circolazione generale, sostenuta dai loro diritti di proprietà intellettuale.

La moneta si regge sul software mentale dei cittadini che hanno diritto alla royalty per il copyright, anche in questo senso la Costituzione italiana tutala il risparmio in quanto bene comune della nazione.