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di Lia Giancristofaro e Francesco Ferzetti *

9. Le tradizioni popolari come patrimonio

La mobilitazione popolare in merito al patrimonio tende a descrivere se stessa attraverso i concetti di comunità e di tradizione e tende a identificarsi in una rappresentazione solida ed essenzializzante delle memorie, dei paesaggi e delle relazioni sociali; essa somiglia alla tifoseria calcistica ed è stata studiata da autori come Michael Herzfeld, Berardino Palumbo, Daniel Fabre, Nathalie Heinich, Zhuang Liu o David Berliner, i quali hanno messo in luce l’identitarismo aggressivo e le sfumature nostalgiche che, per un senso di insicurezza nel presente, sostengono l’attaccamento agli elementi del passato. Le identità non sono stabili, né connaturate; esse sono un processo di narrativizzazione, il risultato di pratiche discorsive che si formalizzano in luoghi privilegiati di enunciazione (Hall 1992). Tuttavia, i protagonisti dei processi di patrimonializzazione guardano questi stessi processi dal flusso culturale che scorre dentro le pratiche, dunque vi credono come a una verità narrativa, come a una leggenda (Bausinger 1990; Miller 2008). Fabre, in particolare, ha evidenziato che i processi di patrimonializzazione sono una forma di storia popolare, un movimento dal basso che si intreccia alla supervisione istituzionale con lo scopo, squisitamente politico, di salvare il mondo sociale (Fabre 1996, 2000, 2010) tramite la sua oggettivazione e localizzazione.

Visto che ogni gruppo possiede una sua verità, in questo delicato campo nulla è autentico e, nel contempo, tutto è autentico. Mentre i detentori del patrimonio si emozionano, gli studiosi descrivono il flusso patrimoniale in modo tendenzialmente critico e oggettivo, evitano di farsi trascinare dall’approccio estetico ed emozionale, o soggettivizzano

la propria descrizione, allorquando il trascinamento emozionale è irrefrenabile: questa è la postura dell’antropologia contemporanea. Tuttavia, nell’ambito del patrimonio lavora un insieme eterogeneo di esperti, con competenze e obiettivi diversi: economisti, storici, giuristi, restauratori, naturalisti, archivisti. Gli storici dell’arte e i filologi, nell’ambito del loro specifico registro di sistema, i cui assi sono l’anzianità del bene e la sua unicità, esaltano valori come la bellezza, la quale viene rappresentata secondo canoni contemporanei, o l’evocazione della continuità storica da parte dell’oggetto, la cui manifestazione risiede nella verosimiglianza alle fonti iconografiche. Questo in Italia ha diffuso una architettura concettuale e normativa che si basa sull’autenticità e può essere implementarla in modo pragmatico, al fine di identificare e giustificare il valore globale dei singoli beni. Sull’assunto occidentale della autenticità poggia anche il valore universale del bene, che può passare dal livello locale di bene comune al livello generale e assoluto di patrimonio dell’umanità.

In Italia, il rapporto che la cultura popolare intrattiene col patrimonio culturale è stato analizzato da Fabio Dei il quale, attraverso una prospettiva storica gramsciana, considera i livelli socio-politici della mobilitazione e gli effetti locali delle attività dell’istituzione sovranazionale competente in materia patrimoniale, cioè l’UNESCO (Dei 2018). Il patrimonio culturale dei singoli stati si è trasformato al punto tale che esso non rappresenta solo i singoli corpi nazionali, ma anche una entità patrimoniale simbolica, unica, fluida, transnazionale e universale, la quale si realizza e si implementa attraverso la pedagogia pubblica che i detentori del patrimonio, le istituzioni e gli esperti realizzano attraverso le iniziative locali condotte sotto il patrocinio degli enti sovranazionali. Pur essendo impossibile, in questa sede, approfondire le questioni spinose della popolarità del patrimonio culturale, è utile ribadire che l’educazione alla universalità del patrimonio culturale potrebbe nascondere uno strumento persuasivo attraverso il quale l’Occidente riesce a dominare le periferie del mondo.

Infatti, l’architettura concettuale basata sull’autenticità dei «beni comuni» ha definito anche il campo antropologico dei costumi popolari e delle tradizioni. Fino al ventesimo secolo, questo campo veniva osservato secondo modalità filologiche, al fine di costruire una mitologia delle origini e dei tratti culturali delle popolazioni suddivise per aree provinciali, regionali e nazionali: tali categorie territoriali hanno istituzionalizzato la diversità etnica. A causa dell’uso demagogico e identitario che del costume hanno fatto i regimi totalitari, dopo la Seconda Guerra Mondiale gli stati europei e le neonate istituzioni internazionali hanno cominciato a scoraggiare l’esaltazione delle tradizioni popolari (Chiva 1987). In Italia, l’arricchimento di prospettive stimolato da Antonio Gramsci e di Ernesto de Martino, a partire dagli anni sessanta riformò lo studio delle tradizioni e fondò la cosiddetta demologia, la quale ha inventato la categoria dei beni demoetnoantropologici (beni DEA), poggiante sulla documentazione delle tradizioni popolari20. Nel tentativo di stimolare una presa di coscienza popolare, Alberto Mario Cirese propose una rivisitazione ermeneutica del discorso istituzionale sul patrimonio culturale, dando alle culture popolari la stessa dignità delle culture egemoni e sperimentando metodologie per la documentazione sia dei beni materiali prodotti artigianalmente dal popolo (suppellettili, cibi, tessuti, strumenti agricoli, etc.), sia dei beni a trasmissione orale, detti anche intangibili o volatili (canzoni, proverbi, dialetti, ricette, usi rituali, tecniche agricole). Questo aprì prospettive catalografiche e museografiche specifiche in merito al sapere popolare estinto o in via d’estinzione, il quale, tramite la

20 Partendo dal fatto che, storicamente, la popolazione italiana era composta da contadini, la demologia ha studiato il complesso intreccio tra la memoria e le condizioni di subalternità del cosiddetto popolo, considerando la tradizione popolare da un lato come produzione culturale autonoma, dall’altro come un limite per i suoi stessi produttori: la cultura popolare, insomma, costituisce un ostacolo collettivo per la comprensione della storia da parte dei suoi stessi protagonisti.

registrazione, divenne oggetto di copyright collettivo o istituzionale21. Tuttavia, l’architettura concettuale dello studio si basava sull’autenticità, cioè sulla distinzione tra il folklore autentico, utile agli intellettuali per comprendere il popolo, e il suo rifacimento, che gli antropologi consideravano come un prodotto scadente e contaminato con la cultura di massa. Questa dicotomia tra l’antico-autentico e il moderno- inautentico ha schiacciato gli studi sulla cultura popolare dentro schemi archivistici e anacronistici, trascurando di esplorare l’intreccio tra l’antico e il moderno e le nuove attività espressive che invece la società civile ritiene essere beni culturali (Clemente 1980, 39-41; Dei 2018). Ogni elemento culturale, materiale o immateriale che sia, è soggetto a rielaborazioni e porosità interpretative che vengono sovente occultate dalla volontà di cercare una coerenza e una purezza in ciò che resta anche al fine di dare rigore epistemologico alle scienze che se ne occupano. Il meticciato e l’interculturalità, quindi, non sono una condizione di decadenza rispetto a un ordine primigenio, ma una condizione connaturata a ogni cultura, nella quale le identità e le memorie, essendo in continua costruzione, stabiliscono congiunzioni o disgiunzioni rispetto ai reciproci immaginari (Amselle 2001). In una fase di modernità avanzata, il patrimonio e la tradizione vengono inventati, re-inventati e vissuti come un’eredità pubblica e privata, nel cui ambito l’individuo diventa autore del proprio progetto biografico e ridefinisce in modo libero la propria identità (Giddens 1999, 58-60).