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Dal positivismo al standpoint feminism (femminismo del punto di vista)

Nel documento Ragazze trasgressive in cerca di identità (pagine 121-125)

Per una epistemologia della differenza nella ricerca criminologica

4.2 Dal positivismo al standpoint feminism (femminismo del punto di vista)

La prospettiva criminologica positivista, per i limiti appena illustrati, comincia ad essere messa in discussione e sono proprio le novità metodologiche introdotte da uomini nello studio della devianza che consentono e facilitano il cambiamento. Whyte in Street Corner society, ma anche Becker in Outsiders, pone la criminologia di fronte ad un modo di fare indagine completamente diverso, rifiutando l'idea che sia possibile fare ricerca in un modo neutrale o imparziale: Whyte abbandona il suo ruolo di esperto adottando il punto di vista dei suoi soggetti di studio, attuando un un'importante mutamento epistemologico, rifiutando la visione tradizionale per cui l'identità del ricercatore non fa differenza.

Nel lavoro di Whyte la prospettiva conta e questo risulta talmente vero che lo stesso Whyte, uomo, non nota la totale mancanza di donne nel contesto da lui studiati, e, di conseguenza, non si preoccupa di spiegarne l’assenza.

Per quanto precursori di un’importante tradizione criminologica, di studi simpatetici e dal basso, l’unico riferimento alle donne resta il punto di vista maschile su di loro.

La conseguenza di questa prospettiva è stata non solo non prendere in considerazione le donne come autrici di reati, ma anche e soprattutto il rendere assente i crimini degli uomini sulle donne. Rendere le donne visibili per sé stesse, con il loro punto di vista, è stata la scelta di altre criminologhe che hanno iniziato a prendere le distanze dal positivismo. Pat Carlen nel 1985 individua un’alternativa a quest’approccio nel suo studio in cui sono le donne stesse a fornire il racconto della loro esperienza come criminali, in una prospettiva fino ad ora utilizzata solo per gli uomini, sottolineando come la criminalità femminile è seria e intenzionale, fornendo dignità alle donne delinquenti, lasciando parlare loro stesse della loro esperienza attraverso l'utilizzo di una metodologia basata sulle storie di vita, un approccio biografico

voice centered, basato cioè sulla voce femminile, sulla narrazione, in cui le

ragazze e le donne sono autorità sulla loro esperienza e rappresentano le voci nel testo, costituito dalle loro parole piuttosto che da un'interpretazione di

queste da parte della ricercatrice.

Studiare la criminalità dal basso, immergendosi nelle realtà devianti o lasciandole parlare per sè stesse, produce una conoscenza migliore, più autentica, più attendibile e vicina alla realtà. Questo approccio è contemporaneamente una scelta di metodo e nello stesso tempo un'affermazione politica e morale, un impegno a comprendere il mondo dalla prospettiva di coloro che fino a questo momento non avevano avuto visibilità e occupavano nella società ruoli ritenuti marginali. L'identità del soggetto conta e un approccio epistemologico dal basso fornisce una prospettiva migliore sulla loro condizione anche se gli sforzi per rendere le donne in grado di parlare per sé stesse, lasciando scrivere la loro storia, è difficile per il ricercatore annullare completamente la propria presenza.

A differenza delle criminologhe della tradizione positivista, inserendo in questo modello la differenza di genere e rileggendo criticamente le teorie elaborate alla luce della variabile di genere, le stand point feminists si propongono un modello che si fonda unicamente sul genere femminile e che non può, perchè non avrebbe senso, essere confrontato o utilizzato per gli uomini.

Anche questa prospettiva però non è esente da limiti e critiche, fra cui il fatto che, proprio nel tentativo di superare il positivismo nelle sue idee sulla natura femminile, si finisca proprio per introdurre nuovamente una qualche caratteristica che accomuna tutte le donne e quello che è uscito dalla porta, finisce per rientrare dalla finestra.

L'idea di far parlare le donne, proprio per non imporre le categorie del ricercatore, di impiegare un approccio fenomenologico, pone una domanda fondamentale: quanto una singola esperienza può essere considerata emblematica e presentare elementi che accomunano esperienze diverse?

Quando Pat Carlen (1985) utilizza le voci delle donne nel carcere, le loro esperienze, a chi e per chi parlano? Se posso rappresentare le esperienze di tutte le donne e parlare per tutte le donne non si finisce per ripresentare l'idea che c'è una qualche caratteristica naturale che accomuna il genere femminile e che può essere evocata da una donna proprio perchè donna?

Questo problema viene messo in evidenza come uno dei paradossi del femminismo: “feminist inquiry seems to posses a logic that demands that we treat women as a unity, for it is women as a group that forms the subject of our concerns. It is the collettivity of women whose interests we whish to represent and the iniquities of women 's lives which draw us together, motivating us to engage political action. But to treat women as an homogeneous group is to do women a grave disservice[...] It is to erase the differences between women and so return to the sort of singular ideal womanhood to which feminists first took exception...the idea of writing from the standpoint of women is highly problematic” (Naffine, 1997: 53).

Inoltre, mettere in evidenza cosa le donne hanno in comune, piuttosto che le loro differenze, finisce per occultare altre differenze quali l’età, la razza, la classe, l’orientamento sessuale. Questa prospettiva è stata fortemente criticata, perché, mettendo al centro dell'analisi della condizione femminile il concetto di differenza sessuale, si sfocia nell'occultazione della centralità della provenienza etnica in quanto fattore di differenziazione tra donne, come se tutte vivessero la stessa condizione.

In altre parole le criminologhe, anche se femministe, hanno finito per produrre un'altra figura oscura nella criminologia, pur nascendo dallo disvelare la differenza e pur criticando la criminologia tradizionale rivelandone gli stereotipi e le assenze, quella delle donne nere e dei paesi in via di sviluppo.

Non vedere questo, sottolinea Marcia Rice, significa asserire, come fanno le donne bianche, che il problema principale per le donne è prima di tutto quello di genere e non razziale. Al contrario, “non si è mai solo donne o solo bianche o solo ricche, non c'è un punto fisso da cui emanano tutte le altre vicende: esiste invece una rete complessa e contemporanea di differenze multiple all'interno di ogni donna. In questo momento della storia è importante giocare a fondo le differenze e portare attenzione alle trame narrative che si utilizzano per esprimerle [...] il mito della sorellanza universale è veramente superato [...] e lo stesso vale per la nozione di uguaglianza fra i sessi. Per quanto non raggiunta e solo parzialmente realizzata nelle nostre società, sul piano economico come su quello legale, l'uguaglianza è diventata una nozione

problematica. Come ideale ideologico e politico l'uguaglianza è scaduta, nel senso che impone l'omologazione delle donne a modelli maschili e strutturalmente misogini” (Braidotti, 1996: 30-31).

Non si può parlare quindi di un punto di vista femminile, perchè questo finirebbe col coincidere con quello delle donne più privilegiate. Il messaggio politico è esplicito, quello di assicurare che le differenze fra le donne siano riconosciute e rispettate anche se a questo punto il problema diventa il seguente: il punto di vista femminista rifiuta il concetto dell’essenza di una natura femminile (essentialism) per adottarne una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali con un suo valore epistemologico. Da ogni singolo punto di vista il mondo può esser conosciuto in maniera chiara e autentica, dal suo punto di vista l'individuo conosce il suo piccolo mondo in maniera vera e reale. In questo modo le differenze sono naturalizzate, esistono in quanto tali ed emergono così come sono.

Maureen Cain negli anni 80 celebra questo approccio come nuova differenza, come standpoint feminism (femminismo del punto di vista). Avere disvelato le differenze fra donne e negato l’esistenza di un unico punto di vista femminile non ha posto una parola fine alla dibattuta questione, al contrario ha posto le donne di fronte ad un ulteriore empasse: la frammentazione dei punti di vista, lo standpoint feminism se da una parte ha consentito il superamento dell’approccio positivista per riproporre nuovamente un unico modello egemonico di femminilità che riconduce all’esistenza della “natura” femminile (Batacharya, 2004), dall’altra indebolisce la loro richiesta di parità e giustizia come movimento femminile.

Come ci si può concepire come movimento, ricomponendo un’identità collettiva che abbia la forza di farsi promotore di strategie, di politiche, di azioni, mantenendo al proprio interno le differenze che lo caratterizzano?

Tamar Pitch (1990) riflette su come il movimento femminista italiano ha gestito questo problema nella riforma della legge sullo stupro: le donne italiane in quella circostanza hanno proposto un’identità collettiva come vittime dello stupro con l'obiettivo di produrre un cambiamento legislativo. In questo processo si sono costituite come soggetto politico, partendo da loro

punto di vista di vittime, inevitabilmente come vittime singole non responsabili della loro vittimizzazione. Paradossalmente in questo modo hanno messo a rischio la loro identità collettiva per il successo della causa. Questo non sempre succede, sottolinea la Pitch, ma può accadere ed è per questo che le identità collettive devono essere scelte consapevolmente e strategicamente.

Si propone allora una soggettività politica dove il rispetto per la diversità tra donne si coniuga con la volontà di tessere relazioni politiche tra donne, ma anche con altri gruppi, su punti programmatici precisi (Braidotti, 1996: 34).

Nel documento Ragazze trasgressive in cerca di identità (pagine 121-125)