• Non ci sono risultati.

dalle Corti Superioridalle Corti Superiori

dalle Corti Superiori

Â

1. La rivelazione dei dati contenuti nel sistema informatico interforze CED-SDI; 2. L’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento nei reati colposi omissivi; 3. Alle Sezioni Unite la questione della necessità della indicazione specifica, nella misura cautelare del divieto di avvicinamento, dei luoghi oggetto di divieto; 4. Alle Sezioni Unite la questione se la mera affiliazione ad una associazione mafiosa porti alla responsabilità quale partecipante.

1. LA RIVELAZIONE DEI DATI CONTENUTI NEL SISTEMA INFORMATICO INTERFORZE CED-SDI Con sentenza n. 8911 del 4 febbraio 2021 (dep. 4 marzo 2021), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che la comunicazione di quanto risulti dallo S.D.I. – sistema informatico interforze CED-SDI, che contiene la banca dati di tutte le informazioni acquisite dalle forze di polizia nel corso di attività amministrative e di prevenzione o repressione dei reati – al di fuori di qualunque autorizzazione e per soddisfare la richiesta informale di un privato cittadi-no interessato, costituisce “cittadi-notizia di ufficio” che deve rimanere segreta agli effetti dell’art. 326 c.p..

Dopo aver premesso che il vincolo di segretezza sui dati contenuti nel sistema informatico interforze CED-SDI trova fondamento nell’art. 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121, i giudici hanno ricordato che il Centro Elaborazione Dati (CED) è stato istituito con la norma richiamata a fini di coordinamento della raccolta, classificazione, analisi e valutazione delle informazioni in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della crimi-nalità (D.Lgs. 18 maggio 2018, n. 51, art. 1, co. 1).

I dati previsti dall’art. 6, lett. a), e art. 7, della stessa legge (in materia di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità, risultanti da documenti conservati dalla pubblica amministrazione o da enti pubblici, o risultanti da sentenze o provvedimenti dell’autorità giudiziaria o da atti concernenti l’istruzione penale acquisibili ai sensi dell’art. 165-ter c.p.p., o da indagini di polizia), sono custoditi nel Sistema D’Indagine (SDI) e messi a disposizione delle Forze di Polizia.

L’esclusiva destinazione della banca dati alle forze di polizia rende il sistema “chiuso”, accessibile soltanto da postazioni di lavoro certificate che consentono l’acquisizione delle informazioni in sede locale utilizzando una rete intranet, esclusivamente da parte di persone debitamente autorizzate dal Funzionario/Ufficiale Responsabile, e previa abilitazione di un apposito profilo, diversificato a seconda delle informazioni che il personale deve conoscere, in ragione delle mansioni da svolgere, avuto riguardo anche all’incarico ricoperto.

L’ermeneusi letterale dell’enunciato normativo esclude ex se, in linea generale, che sia consentita la comunica-zione informale di quanto risulta dalla banca dati, anche laddove la richiesta pervenga dal diretto interessato, che non è titolare di un diritto incondizionato a ricevere informazioni, se non nei limiti e con le forme previste dalla legge: ai sensi del D.Lgs. 18 maggio 2018 n. 51, art. 10, con particolare riguardo al sistema di trattamento dei dati perso-nali e in adempimento di quanto previsto dalla L. 1 aprile 1981, n. 121, art. 10, co. 3, e dal D.Lgs. 18 maggio 2018, n. 51, art. 48, di attuazione della Direttiva UE 2016/680, relativo alla protezione dati di persone fisiche nei trattamenti di dati personali per finalità di polizia, gli interessati possono inoltrare una richiesta scritta relativa al trattamento dei loro dati personali, eventualmente presenti nel predetto CED.

I dati personali presenti nel CED possono essere comunicati alle sole persone cui si riferiscono, o al loro rappre-sentante legale designato con apposita delega, e sono accessibili solo ai soggetti indicati da specifiche norme di legge.

La legge riserva, dunque, esclusivamente alle Forze di polizia la comunicazione delle informazioni concernenti even-tuali iscrizioni nella banca dati, previa formale richiesta, salvi gli atti di indagine compiuti dall’autorità amministrativa nella funzione di polizia giudiziaria, che sono soggetti a segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., e, conseguentemente, sottratti all’accesso.

Da ciò discende, concludono i giudici di legittimità, che solo le Forze di polizia possono fornire notizia circa even-tuali iscrizioni a carico, sempre che l’interessato ne abbia fatto espressa richiesta e previa autorizzazione alla relativa comunicazione, con la conseguenza per cui fino al rilascio di siffatta autorizzazione, la notizia in ordine all’esistenza di iscrizioni a carico è segreta anche nei confronti del diretto interessato.

Il testo integrale della sentenza commentata in questa Rubrica si trova riportato sul sito www.latribuna.it, nella sezione dedicata agli abbonati.

Il testo integrale della sentenza commentata in questa Rubrica si trova riportato sul sito www.latribuna.it, nella sezione dedicata agli abbonati.

2. L’ACCERTAMENTO DEL NESSO DI CAUSALITÀ TRA CONDOTTA ED EVENTO NEI REATI COL-POSI OMISSIVI

La quarta sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5806 del 3 febbraio 2021 (dep. 15 febbraio 2021), è tornata sulla delicata tematica dell’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento nei reati colposi omissivi posti in essere nell’esercizio della attività medica.

Agli imputati sono state contestate due diverse condotte omissive colpose: non aver rimosso, durante l’intervento, la pinza inserita nell’addome della paziente e non aver eseguito con urgenza l’intervento diretto alla rimozione di tale ferro.

Secondo i giudici di merito, l’omessa asportazione della pinza, avvenuta nel corso del primo intervento chirurgico, è stata la condizione imprescindibile della patologia che ha portato al secondo ricovero e al decesso della vittima, a pre-scindere dalla ricostruzione delle due condotte in termini di progressione causale o di concorso di cause.

Questa conclusione – a detta dei giudici di legittimità – risulta del tutto condivisibile, considerato, del resto, che la seconda condotta, oltre ad essere riferita agli stessi imputati, non potrebbe reputarsi come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, alla luce dell’orientamento secondo cui, in tema di interruzione del nesso causa-le, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento si riferisce o all’ipotesi di un processo causale del tutto autonomo da quello antecedente oppure all’ipotesi di un processo causale non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente ano-malo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.

In ordine all’accertamento del nesso causale nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica ma deve es-sere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca signifi-cativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Proprio in relazione ai reati colposi omissivi, si è altresì specificato che il giudizio di alta probabilità logica deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

L’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento va condotto su base totalmente oggettiva, con un giu-dizio ex post, mediante il procedimento cd. di eliminazione mentale e va tenuto ben distinto rispetto alla diversa e successiva indagine sull’elemento soggettivo del reato che deve essere valutato, invece, con giudizio ex ante, alla stregua delle conoscenze del soggetto agente.

Con l’occasione, la Suprema Corte ha ribadito che la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibi-lità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica: non è giudice delle acquisizioni tecnico-scientifiche, essendo solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al relativo sapere, che include la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti della prova suddetta, trattan-dosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente argomentato.

Il testo integrale della sentenza commentata in questa Rubrica si trova riportato sul sito www.latribuna.it, nella sezione dedicata agli abbonati.

3. ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELLA NECESSITÀ DELLA INDICAZIONE SPECIFICA, NELLA MISURA CAUTELARE DEL DIVIETO DI AVVICINAMENTO, DEI LUOGHI OGGETTO DI DI-VIETO

La sesta sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 8077 del 28 gennaio 2021 (dep. 1° marzo 2021), ha rimes-so alle Sezioni Unite la questione se, nel disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla perrimes-sona offesa, ex art. 282-ter c.p.p., il giudice deve necessariamente determinare specificamente i luoghi oggetto di divieto

Sul punto si registra un perdurante contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Per talune sentenze, infatti, deve ritenersi legittimo il provvedimento, reso ai sensi dell’art. 282-ter c.p.p., che obbli-ghi il destinatario della misura a mantenere una certa distanza dalla persona, ovunque questa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto, allorquando la condotta si connoti per una persistente ricerca di avvicinamento alla vittima.

Tale principio – affermato soprattutto dalla giurisprudenza formatasi sul reato di atti persecutori di cui all’art.

612-bis c.p. –, vede come corollario l’affermazione che la specificazione dei luoghi trova giustificazione solo quando le modalità della condotta non manifestino un campo di azione che esuli dai luoghi che costituiscono punti di riferimento della vita, dovendo invece il divieto di avvicinamento essere riferito alla stessa persona offesa e non ai luoghi dalla stessa frequentati ove la condotta di cui si teme la reiterazione si connoti per la persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, ovunque questa si trovi. L’imposizione, in tale situazione, di una predeterminazione dei luoghi comporterebbe, infatti, una inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona da proteggere, che vicever-sa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma.

Tale opzione interpretativa non sarebbe del resto contrastante con le previsioni della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio U.E. n. 2001 del 13 dicembre 2011, in tema di ordine di protezione Europeo, posto che l’art. 5, lett. c), che contempla il divieto di avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito, si attaglia pienamente alla previsione dell’art. 282-ter c.p.p., richiedendo unicamente che sia definito il perimetro all’interno del quale scatta la protezione.

Non essendo, però, sempre possibile adottare tale prescrizione, a causa della possibilità che agente del reato e per-sona offesa vengano occasionalmente in contatto, risulta ragionevole e anche più garantista per il soggetto gravato dal divieto, imporre a quest’ultimo di avvicinarsi ai normali recapiti della vittima e ferma restando la sua libertà di recarsi in ogni altro luogo, di allontanarsene nel caso in cui incontri, anche prevedibilmente, la persona da tutelare.

Permane, tuttavia, il contrasto con altre pronunce, centrate queste ultime in prevalenza sulla diversa figura di reato di maltrattamenti, sul tema della necessità per il giudice della cautela di indicare i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa soggetti a inibitoria.

Secondo tale orientamento ermeneutico, infatti, la specificazione dei luoghi s’impone al fine di consentire al prov-vedimento di assumere una conformazione completa che ne favorisca l’esecuzione e agevoli il controllo delle prescri-zioni funzionali al tipo di tutela che si intende assicurare. Completezza e specificità del provvedimento costituiscono, inoltre, garanzia del giusto contemperamento tra esigenze di sicurezza, imperniate sulla tutela della vittima e minor sacrificio della persona sottoposta ad indagini.

Secondo la Corte di Cassazione, a parte i condivisibili argomenti che sostengono il primo orientamento e la necessità che la misura sia calibrata sulla situazione di fatto che si intende tutelare, la lettera della legge non offre indicazioni dirimenti circa la correttezza e l’adeguatezza dell’una o dell’altra opzione interpretativa cosicché non resta che rimettere la questione alle Sezioni Unite.

Il testo integrale della sentenza commentata in questa Rubrica si trova riportato sul sito www.latribuna.it, nella sezione dedicata agli abbonati.

4. ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE SE LA MERA AFFILIAZIONE AD UNA ASSOCIAZIONE MAFIOSA COMPORTI UNA RESPONSABILITÀ QUALE PARTECIPANTE

La prima sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5071 del 28 gennaio 2021 (dep. 9 febbraio 2021), ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d.

storica, nella specie ‘Ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione del-l’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto.

Sulla questione si fronteggiano due orientamenti giurisprudenziali, rispetto ai quali sembra difficile trovare una soluzione compromissoria, idonea a coniugare il rispetto del modello di tipicità formale del nostro sistema penale con le esigenze di garanzia individuale, connesse all’applicazione di una fattispecie che si connota per la sua, in una certa misura, “atipica” o “incompiuta” tipicità.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, l’affiliazione a un’associazione di tipo mafioso costituisce fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità atteso che il reato di cui all’art. 416-bis c.p. si consuma nel momento in cui il soggetto aderisce a una siffatta consorteria, senza che sia necessario il compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.

La fattispecie in esame, infatti, prefigura un reato di pericolo presunto, con la conseguenza che, per integrare l’of-fesa all’ordine pubblico, è sufficiente l’adesione all’associazione di tipo mafioso, che, postulando la disponibilità incon-dizionata alle esigenze strategiche della consorteria, a maggior ragione se ci si riferisce a una “mafia storica”, appare, di per se stessa, idonea ad accrescere le potenzialità operative e intimidatorie del sodalizio. Il reato di partecipa-zione ad associapartecipa-zione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell’organizzapartecipa-zione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata cosicché, per integrare l’offesa all’ordine pubblico, è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio, con la c.d. “messa a disposizione” (Cass. pen., sez. V, 3 giugno 2019, n. 27672).

All’orientamento ermeneutico sopra richiamato se ne contrappone un altro che non ritiene l’affiliazione a un’asso-ciazione di tipo mafioso, di per sé sola, sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato, richiedendo la prova del compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.

Rappresenta in modo esemplare questo orientamento ermeneutico, che ritiene indispensabile, per la formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato del reato di cui all’art. 416-bis c.p., l’acquisizione di elementi concreti e specifici, rivelatori dei suo ruolo attivo nell’associazione di tipo mafioso, il seguente principio di diritto:

“ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, l’investitura formale o la commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti non sono essenziali, in quanto rileva la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica, ma unitaria, degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all’interno dello stesso”

(Cass. pen., sez. V, 17 ottobre 2016, n. 4864).

In questa cornice, il contrasto tra la soluzione interpretativa tendente a ritenere sufficiente la mera affiliazione a un’organizzazione criminale operante secondo il modello prefigurato dall’art. 416-bis c.p. e riconducibile al novero delle

“mafie storiche” e la contrapposta opzione ermeneutica tendente a ritenere tale adesione rituale inidonea a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato se non accompagnata da elementi concreti e specifici, rivelatori del ruolo attivo svolto dall’imputato nel sodalizio richiama l’esigenza di assicurare l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale su una questione di notevole rilevanza.

Legittimità Legittimità

CORTE DI CASSAZIONE PENALE SEZ. VI, 11 FEBBRAIO 2021, N. 5471 (UD. 17 NOVEMBRE 2020)

PRES. FIDELBO – EST. BASSI – P.M. GAETA (CONF.) – RIC. B.N.

Delitti contro la personalità dello Stato

y