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Esercizio arbitrario delle proprie ragioni y

Con violenza sulle cose y C.d. violenza manuten-tiva e c.d. violenza reintegramanuten-tiva y Configurabilità del reato y Esclusione y Fattispecie relativa a pro-prietaria di immobile confinante con un condomi-nio che aveva tenuto, su area di sua proprietà, una condotta lesiva del condominio.

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Non commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni chi, usando violenza sulle cose, tutela il suo attuale possesso, da altri turbato, ovvero quando il comportamento violento posto in essere sia destinato a mantenere il possesso attuale del bene (c.d. violenza manutentiva) o sia diretto a recuperarlo nell’immedia-tezza dello spoglio subito (c.d. violenza reintegrativa) dal momento che l’una e l’altra forma di violenza non tendono a turbare l’ordine giuridico preesistente, bensì a conservarlo. (Nella fattispecie è stato escluso il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni nell’ipotesi di proprietaria di immobile confinante con un condo-mino che aveva tenuto su area di sua proprietà, lungo il muro divisorio con il suddetto immobile condominiale, alberi ad alto fusto, provocando con le radici, di que-sti ultimi, lo scardinamento in più punti del muro di confine, nonché l’imbrattamento delle aree di transito condominiale per effetto della caduta di resine, aghi e bacche con ciò ostruendo i canali di scolo della pro-prietà condominiale e provocando allagamenti dei lo-cali interrati) (c.p., art. 392) (1)

(1) Il principio è ripreso da Cass. pen., sez. IV, 27 giugno 2017, n.

31598, in Arch. loc. cond. e imm. 2017, 543. Nel senso che non com-mette il delitto in oggetto colui che usi violenza sulle cose al fine di difendere il diritto di possesso in presenza di uno atto di spoglio, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di quella le-siva del diritto, v., in fattispecie condominiale, Cass. pen., sez. VI, 21 gennaio 2010, n. 2548, in questa Rivista 2011, 85. In genere, sulla con-figurabilità del delitto in oggetto, v. la giurisprudenza relativa all’art.

392 c.p. contenuta in LUIGI ALIBRANDI, Codice penale commenta-to, ed. La Tribuna, Piacenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto di citazione diretta a giudizio emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto in data 22 settembre 2016, C. G. veniva chiamata a rispondere dei reati di cui in epigrafe. All’udienza del 3 maggio 2017, verificata la regolare costituzione delle parti e dichiarata

l’assenza dell’imputata, le persone offese si costituivano par-ti civili, ricorrendone i presuppospar-ti di legge, ma il processo veniva comunque rinviato, con sospensione del termine di prescrizione dei reati per l’intero arco dilatorio, in ragione dell’adesione dei difensori all’astensione dalle udienze indet-ta dall’organismo di rappresenindet-tanza, Unione Camere Penali Italiane. All’udienza del 14 marzo 2018, la trattazione del giudizio veniva ulteriormente differita con sospensione dei termini di prescrizione, attesa la nuova adesione dei difen-sori all’astensione dalle udienze proclamata dalla U.C.P.I..

All’udienza del 19 dicembre 2018, il difensore dell’imputata, munito di procura speciale, formulava istanza di definizione del processo nelle forme del giudizio abbreviato. Ammesso il rito e depositati gli atti contenuti nel fascicolo del P.M., il processo veniva rinviato per la discussione finale.

All’udienza del 5 giugno 2019, stante la richiesta di diffe-rimento del giudizio, avanzata congiuntamente da entrambi i difensori, in ragione di concomitanti impegni professio-nali, la relativa trattazione veniva ulteriormente differita.

A seguito di due successivi rinvii, il primo disposto in data 22 gennaio 2020, in considerazione del carico d’udien-za, ed il secondo l’1 aprile 2020, in ragione della decretazio-ne d’urgenza emessa a seguito della diffusiodecretazio-ne epidemiolo-gica da Covid-19 ed attesa l’insussistenza delle condizioni richiamate dall’art. 83, comma 3, lett. b), D.L. n. 18/2020, all’udienza del 25 novembre 2020, le parti rassegnavano le proprie conclusioni nei termini indicati in epigrafe.

All’esito della camera di consiglio, il Giudice pronun-ciava dispositivo di sentenza, dandone integrale lettura alle parti presenti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve premettersi che l’imputata, con la scelta del giu-dizio abbreviato in cambio di un trattamento sanzionatorio più favorevole in caso di condanna ed accettando di eser-citare il proprio diritto alla difesa nelle forme più limitate, previste per l’udienza preliminare. conferisce al giudice il potere di definire il processo allo stato degli atti, senza, quindi, l’osservanza delle prescrizioni imposte per il dibat-timento; ne consegue che al suddetto giudizio non è rife-ribile il divieto di utilizzazione degli atti indicati nell’art.

514 c.p.p. (letture vietate). Del resto. se così fosse, sarebbe privo di significato il riferimento “allo stato degli atti”, in quanto esso ha per oggetto proprio la documentata attivi-tà della P.G. e del P.M. (così, Cass. sez. VI, 29 novembre 1991, n. 12216, Palumbo). La piena utilizzabilità di tali atti, che trova un limite soltanto nelle prove illegittimamente acquisite, (arg. ex art. 191 c.p.p.) impone, in ogni caso, al giudice di sottoporre le risultanze degli atti contenuti nel

fascicolo del P.M. ad un’attenta analisi e ad una valutazione critica in modo da stabilirne la esatta valenza probatoria (cfr. Cass. sez. V, 15 luglio 1991, n. 7604, Pecora). La inu-tilizzabilità cosiddetta “patologica”, rilevabile, a differenza di quella cosiddetta “fisiologica”, anche nell’ambito del giudizio abbreviato, costituisce un’ipotesi estrema e resi-duale. ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui as-sunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell’imputa-to. (così, Cass. Sez. III, sent. n. 6757 del 24 gennaio 2006, ud. del 24 gennaio 2006, Gatti, rv. 233106). Nel giudizio ab-breviato, l’imputato non può far valere le nullità a regime intermedio attinenti agli atti propulsivi e introduttivi del rito, né sollevare l’eccezione d’incompetenza per territorio, pur se in precedenza già proposta e disattesa, perché egli ha accettato di essere giudicato con il rito in cui manca il segmento processuale dedicato alla trattazione e risolu-zione delle questioni preliminari (così, Cass. Sez. VI, sent.

n. 33519 del 4 maggio 2006 (ud. del 4 maggio 2006), (rv.

234392). Tale conclusione, frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, risulta oggi positivizzata dall’inserimen-to del comma 6 bis di cui all’art. 438 c.p.p., che riconosce alla richiesta di giudizio abbreviato presentata nell’udienza preliminare efficacia preclusiva alla deducibilità, sia delle

«nullità, sempre che non siano assolute”, sia delle «inutiliz-zabilità, salve quelle derivanti dalla violazione di un divie-to probadivie-torio). Allo stesso modo. la scelta del ridivie-to speciale preclude «ogni questione sulla competenza per territorio del giudice”, Si tratta - come detto - del pedissequo rece-pimento di esegesi più che consolidate in giurisprudenza, tanto rispetto alla nullità che alla inutilizzabilità. Il legi-slatore fa propri gli approdi delle Sezioni Unite, le quali, dopo un lungo dibattito giurisprudenziale e già all’indoma-ni delle modifiche introdotte dalla L. n. 479/1999, avevano stabilito che la richiesta di giudizio abbreviato non rappre-senta una rinuncia a dolersi dell’invalidità degli atti pro-batori formati contra legem e su cui il giudice può fondare la decisione, È vero che l’abbreviato è un giudizio “a prova contratta”, un patteggiamento sul rito che definisce la res iudicanda in una fase diversa da quella dibattimentale e sulla base di atti normalmente sprovvisti di valore proba-torio; nondimeno, per il giudice di legittimità, la portata abdicati va di tale negozio processuale non può investire quegli elementi di conoscenza formati in violazione di di-vieti stabiliti dalla legge (la c.d. inutilizzabilità patologica desumibile dall’art. 191, comma I, c.p.p.) e che in nessuna delle fasi processuali sarebbero in grado di sorreggere una decisione giurisdizionale, di qualunque tipo essa sia. Il ri-ferimento agli «atti utilizzabili», quale base conoscitiva del giudice per le sue determinazioni, è espressione del princi-pio di legalità della prova, un principrinci-pio di portata generale, valido anche in caso di richiesta semplice, applicabile ad ogni «situazione patologica che non debba intendersi sa-nata in virtù dell’ordinario regime giuridico». Nel giudizio abbreviato, poiché il negozio introduttivo attribuisce agli atti dell’indagine preliminare un valore probatorio del qua-le sono fisiologicamente sprovvisti quando il giudizio

stes-so sia condotto nelle forme ordinarie, non è applicabile la regola di valutazione (fissata al comma 4 dell’art, III Cost.

e per il dibattimento al comma l-bis dell’art. 526 c.p.p.) per la quale la colpevolezza dell’imputato non può essere affermata in base a dichiarazioni rese da persona volonta-riamente sottrattasi all’interrogatorio da parte dello stesso imputato o del suo difensore (in applicazione di tale prin-cipio, la Corte ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni di natura testimoniale rese in fase di indagini preliminari da persona in seguito resasi irreperibile, e dunque non potuta interrogare nell’ambito dell’incidente probatorio promosso prima del rito abbreviato, specificando che tale regime è giustificato dal comma 5 dell’art. 111 Cost.: così Cass, Sez.

III, sent. n. 7432 del 26 febbraio 2002, ud. del 15 gennaio 2002, Dedo rv 221489).

Fatta tale premessa, va rilevato come il tenore degli atti acquisiti al fascicolo non consenta di addivenire ad un giudizio di colpevolezza a carico della C., per alcuno dei fatti in contestazione.

1. All’imputata risultano contestati i reati di cui agli artt.

392, 635 comma 2 in relazione all’art. 625, comma l, n. 7), e 674 c.p., perché, in qualità di proprietaria dell’immobile confinante con il condominio ubicato a (omissis) in viale (omissis), si faceva arbitrariamente ragione da sé con vio-lenza sulle cose, consistita nel mantenere sull’area di sua proprietà degli alberi di alto fusto, che provocavano lo scar-dinamento del muro di confine a causa della crescita delle radici e l’imbrattamento delle aree di transito con la caduta di resine e bacche, ostruendo i canali di scolo, con conse-guente allagamento dei locali interrati. L’evidenza disponi-bile non conferma l’assunto accusatorio. Dall’acquisizione della querela e dalla documentazione relativa alle diffide inviate dall’amministratore di condominio alla C. è, inve-ro, emerso come a quest’ultima venisse rimproverato, a far data dal 2009, l’indebito mantenimento di alberi di pino lun-go il muro di confine ed il consequenziale imbrattamento con resine e fogliame delle parti comuni, nonché come, alla richiesta di sradicamento o potatura dei fusti avanzata dal condominio, l’imputata abbia replicato, facendo osservare la riconducibilità delle crepe presenti sul muro di confine agli scavi realizzati nell’area adiacente al condominio. A riprova di tali circostanze, l’acquisizione dei fotogrammi allegati alla memoria difensiva presentata nell’interesse dell’impu-tata, ai sensi dell’art. 415 bis, comma 3, c.p.p., ha consentito di rilevare la presenza di un escavatore per l’esecuzione di lavori di demolizione e scavo di fondamenta eseguiti lungo il muro di confine e l’insussistenza di lesioni o scardinamenti lungo il muro di cinta interno alla proprietà dell’imputata.

Così ricostruite in breve le risultanze investigative acquisite in giudizio, è bene rilevare come il tenore delle stesse non confermi in alcun modo l’ipotesi accusatoria.

1.1. Con riferimento al reato di cui all’art. 392 c.p., met-te conto precisare come la condotta richiesta debba essere sostenuta dalla possibilità di ricorrere al giudice e dal fine di esercitare un preteso diritto, consistendo innanzitutto nel farsi ragione da sé medesimo, ovvero nell’autosoddi-sfazione. Occorre, inoltre, che il soggetto si faccia ragione da sé arbitrariamente; termine che indica un elemento di

illiceità espressa, il quale a sua volta designa l’inserirsi di un elemento negativo della condotta illecita nella strut-tura del fatto tipico, e che implicitamente ammette la possibilità in alcuni casi di farsi ragione da sé. Ed invero, in applicazione di tale concetto, in giurisprudenza si è af-fermato che non commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni chi, usando violenza sulle cose, tutela il suo attuale possesso, da altri turbato (Sez. VI, 26 aprile 2017, n. 31598), ovvero quando il comportamento violento posto in essere sia destinato a mantenere il possesso at-tuale del bene (c.d. violenza manutentiva) o sia diretto a recuperarlo nell’immediatezza dello spoglio subito (c.d.

violenza reintegrativa), dal momento che l’una e l’altra forma di violenza non tendono a turbare l’ordine giuridico preesistente, bensì a conservarlo (C., Sez. VI, 23 maggio 2019-12 febbraio 2020, n. 5556). Quanto al profilo relativo alla violenza richiesta dall’art. 392 c.p., deve rilevarsi come, secondo la specificazione contenuta nel secondo comma, agli effetti della legge penale, si ha violenza allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la de-stinazione, dovendo intendersi: 1) per danneggiamento, la distruzione, dispersione o deterioramento della res; 2) per trasformazione, la materiale modificazione anche in senso migliorativo del bene; 3) per mutazione, un distoglimento non solo in termini oggettivi, ma anche dalla destinazione soggettiva nei confronti di chi ne aveva la disponibilità o l’u-tilizzabilità. In merito, la giurisprudenza ha chiarito come, per la sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle cose, sia richiesto che la cosa sia distolta, anche in maniera clandestina ma tendenzialmente definitiva dalla sua destinazione, qualora ciò avvenga nell’esercizio di un preteso diritto (Sez. V, 4 novembre – dicembre 2019, n. 50192), essendo comunque necessario un contegno che non si arresti alla soglia dell’o-missione e che si estrinsechi (specie ove venga in rilievo l’esercizio di diritti reali) su una res non posseduta dell’a-gente (Sez. VI, 10 novembre 2010), salvo che ad essere in contesa sia proprio il diritto di proprietà. Fatta tale pre-messa, deve, dunque, rilevarsi come la condotta contestata all’imputata, consistita nel mantenimento degli alberi pre-senti all’interno della sua proprietà e, dunque, nell’omesso sradicamento dei fusti, non sia in alcun modo idonea ad integrare l’elemento oggettivo previsto dalla fattispecie incriminatrice, difettandone gli estremi materiali, sotto il duplice profilo della positività dell’azione richiesta e di un materiale deterioramento del bene. Ed invero, in punto di violenza sulla cosa, deve riconoscersi come non solo non sia riscontrabile un materiale intervento da parte della C.

sul muro di confine, ma quand’anche volesse ammettersi (andando in diverso avviso rispetto all’interpretazione giurisprudenziale maggioritaria e forzando il tenore nor-mativo) che la predetta violenza sia consistita nella tenuta dei pini, va comunque osservato come le lesioni arrecate dalla piantumazione al muro di cinta risultino indimostra-te, essendo rimaste sprovviste del ben che minimo appiglio probatorio. A ciò si aggiunga come l’unica documentazione fotografica versata in atti, lungi dal confortare l’ipotesi di un deterioramento del bene, deponga per il suo esatto

op-posto, consentendo di rilevare l’integrità del muro di confi-ne a ridosso della piantumazioconfi-ne degli alberi.

1.2. Analoghe considerazione non possono che valere per l’ipotesi di cui all’art. 635 c.p.. Ebbene, con riguardo a tale contestazione, va osservato come la ritenuta insussi-stenza del reato di cui all’art. 392 c.p. precluda ogni valuta-zione in ordine alla ricorrenza del reato di danneggiamen-to, giacché le due ipotesi possono ritenersi concorrenti solo ove i fatti siano sproporzionati ed eccedano i limiti della violenza richiesta per l’esercizio arbitrario (Sez. V, 7 dicembre 1988). Nella specie, la non ravvisabilità degli estremi della violenza impedisce per ciò solo la configu-rabilità della distruzione o dispersione richiesta dall’art.

635 c.p. Ma quand’anche volesse sostenersi il contrario, non possono che richiamarsi le argomentazioni innanzi espresse in ordine all’insussistenza di elementi idonei a comprovare il deterioramento del muro di confine. In tal caso, infatti, la condotta incriminata consiste comunque nel distruggere, disperdere, deteriorare o rendere inser-vibile in tutto o in parte la cosa mobile o immobile altrui, con ciò intendendosi rispettivamente: 1) l’annientamento della cosa nella funzione strumentale all’uso cui è desti-nata, 2) l’allontanamento della cosa mobile dalla sfera di disponibilità dell’avente diritto, in modo che lo stesso non sia in grado di recuperarla, 3) la modificazione della cosa che ne diminuisca in modo apprezzabile il valore o l’utiliz-zabilità, 4) l’inutilizzabilità della cosa in rapporto alla sua originaria funzione strumentale.

Poiché, a riguardo, al di là delle comunicazioni di diffi-da inviate diffi-dall’amministratore di condominio alla C., non v’è alcuna evidenza in atti del lamentato deterioramento del bene, non può che ritenersi esclusa, nella specie, an-che tale ipotesi delittuosa.

1.3. Resta da dire, infine, dell’ipotesi contravvenziona-le di cui all’art. 674 c.p., la cui contestazione in relazione alla caduta di resine e bacche ed al conseguente pericolo di imbrattamento, di ostruzione dei canali di scolo e di al-lagamenti, ne esclude di per sé la configurabilità. In ordine a tale fattispecie, è stato, invero, rilevato come la sua collo-cazione nell’ambito delle contravvenzioni di polizia depon-ga per la sua previsione a tutela della incolumità pubblica, nonché come i nocumenti, più o meno gravi, che la norma intende evitare debbano essere messi in relazione alla loro capacità lesiva nei confronti delle persone che dal getto pericoloso di cose vengono imbrattate, offese nella loro in-tegrità fisica o molestate e turbate nella loro tranquillità, con la conseguenza che il reato non si perfeziona quando i comportamenti enucleati nella norma sono idonei a dan-neggiare esclusivamente delle “res” (Sez. III, 13 aprile 2010, n. 22032). Va da sé che, nel caso di specie, poiché l’idoneità lesiva della condotta è correlabile unicamente ad oggetti, il fatto contestato alla C. non può ritenersi abbia rilevanza penale. Sicché anche in tale ipotesi, non può che pervenirsi ad un esito assolutorio nei confronti dell’imputata.

Le contemporanee e gravose incombenze del ruolo im-pediscono la stesura immediata della motivazione e de-terminano l’assunzione del termine per il deposito della stessa come da dispositivo. (Omissis)

I testi dei documenti qui riprodotti sono desunti dagli Archivi del Centro elettronico di documentazione della Corte di cassazione. I titoli sono stati elaborati dalla redazione

Massimario Massimario

Abusivo esercizio di una professione

■ Professione sanitaria – Responsabilità a titolo di con-corso – Configurabilità.

In tema di esercizio abusivo della professione medica, rispon-de a titolo di concorso nel reato il responsabile di uno studio medico che consenta o agevoli lo svolgimento dell’attività da parte di soggetto che egli sa non essere munito di abilitazione.

(In motivazione, la Corte ha precisato che il professionista abi-litato non versa in posizione di garanzia rispetto al reato com-messo dal soggetto non abilitato, sicché la responsabilità a ti-tolo di concorso si fonda sulla consapevolezza dell’assenza del titolo ed il connesso assenso, anche tacito, all’esecuzione di atti professionali). F Cass. pen., sez. VI, 22 luglio 2020, n. 21989 (ud.

8 luglio 2020), A. P. (c.p., art. 110; c.p., art. 348). [RV279560]

Armi e munizioni

■ Porto abusivo – Detenzione legittima – Porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Risponde del reato di porto illegale di arma colui che, detenen-do legittimamente un’arma all’interno della propria abitazione, la porti, privo di specifica licenza, in luogo pubblico o aperto al pubblico, a nulla rilevando la presenza, insieme all’agente, di altro soggetto regolarmente titolare di licenza. F Cass. pen., sez.

I, 6 ottobre 2020, n. 27707 (ud. 9 settembre 2020), M. M. (l. 2 ottobre 1967, n. 895, art. 4; l. 2 ottobre 1967, n. 895, art. 7; l.

14 ottobre 1974, n. 497, art. 12; l. 14 ottobre 1974, n. 497, art.

14; c.p., art. 110). [RV279584]

Associazione per delinquere

■ Associazione di tipo mafioso – Associazione camorristi-ca – Ruolo di camorristi-capo, dirigente od organizzatore.

In tema associazione di tipo camorristico, il ruolo direttivo e la funzione di capo di cui all’art. 416-bis, comma secondo, cod.

pen. vanno riconosciuti solo a chi risulti al vertice di una entità criminale autonoma, sia essa famiglia, cosca o "clan", dotata di propri membri e regole, mentre il ruolo di organizzatore solo a chi sia posto a capo di un settore delle attività illecite del gruppo criminale con poteri decisionali e deliberativi autonomi. (Fatti-specie in cui la Suprema Corte ha escluso la qualifica di orga-nizzatore al "braccio destro" di un capo-clan camorristico, che, nonostante operasse quale interfaccia con gli esecutori materia-li delle estorsioni, non risultava aver in concreto svolto attività volta ad apprestare la struttura operativa di quel settore crimi-nale, individuando le vittime, fissando le somme da richiedere, distribuendo i compiti esecutivi tra gli associati e ricevendo si-stematicamente i profitti illeciti realizzati). F Cass. pen., sez. II, 7 luglio 2020, n. 20098 (ud. 3 giugno 2020), B. A. (c.p., art. 416 bis). [RV27947603]

■ Associazione di tipo mafioso – Nuove associazioni – De-rivazione da “clan” storico.

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la co-stituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un ter-ritorio già controllato da cosche mafiose non vale ad escludere

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la co-stituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un ter-ritorio già controllato da cosche mafiose non vale ad escludere