CAPITOLO 2 «T RADUZIONE E MEMORIA POETICA »: D ANTE
2.2. Dante: il grande assente
«Histoire d’une absence»: è significativo che, nel presentare il bilancio degli studi danteschi in Francia, Jacqueline Risset scelga di intitolare così il suo intervento49. E non si tratta di certo di un eufemismo. Quasi un secolo prima, Albert Counson – al quale si deve una delle prime rassegne della ricezione dantesca d’oltralpe – iniziava il suo saggio ricordando come il più antico dei francesi ad essersi interessato al poeta fiorentino, il cardinale Bertrand de Poyet, ne disprezzasse talmente l’opera da vietare ai fedeli la lettura del De Monarchia, mobilitandosi poi – fortunatamente senza successo – affinché la tomba di Dante venisse riaperta e le sue ceneri disperse50. Sollers è ancora più categorico: «Oubli de Dante? Non, hantise au contraire, interprétation hâtive et intéressée»51, mentre Henri
46 J. Risset, Paradisiaca XXXIII, in Sept passages de la vie d’une femme, cit., p. 121. 47 J. Risset, L’ennemi, in Sept passages de la vie d’une femme, cit., p. 83.
48 M. Favriaud, Quelques éléments pour une théorie de la ponctuation blanche – à partir de la poésie
contemporaine, cit., p. 21.
49 J. Risset, Histoire d’une absence, in Dante écrivain, Paris, Seuil, 1982, pp. 218-234. Nel 2001 il titolo
sarà ripreso con leggere modifiche: Dante en France, histoire d’une absence in L’Italia letteraria e
l’Europa, Atti del Convegno di Aosta, 20-23 ottobre 1997, Salerno editrice, Roma 2001.
50 A. Counson, Dante en France, Paris, Fontemoing, 1906, p. 5. 51 P. Sollers, La Divine Comédie, Paris, Gallimard, 2002, p. 9.
Hauvette parla addirittura di «misogallisme de Dante»52. In ambito italiano, infine, l’espressione «la sfortuna» di Dante, coniata da Arturo Farinelli per parlare del complesso rapporto che lega l’autore della Divina Commedia alla Francia, la dice lunga sull’assenza di una tradizione di studi danteschi che, invece, è delle più autorevoli sul fronte germanico (Erich Auerbach, Ernst Robert Curtius) o statunitense (T. S. Elliot, Ezra Pound o Charles Southward Singleton)53. Una «prova accessoria» di questa assenza, se mai necessaria, può essere, come spiega Risset, il fatto che la letteratura francese sia l’unica, tra quelle europee, a possedere una sola versione del mito di Ulisse, versione che termina in maniera univoca con il ritorno a Itaca e che non tiene conto, per l’appunto, del viaggio immaginato da Dante54.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una storia che procede all’insegna del rifiuto: da sempre iscritto nel canone classico italiano insieme a Petrarca e Boccaccio, Dante sembra, in effetti, far parte di quegli autori rispettati ma tenuti a distanza dai francesi, tutt’al più abbordabile dagli accademici ma non senza qualche riserva55. Stando alla dettagliata panoramica proposta da Risset, la traiettoria dell’assenza di Dante in Francia è costellata da una serie di pesanti fraintendimenti. In linea generale, là dove la produzione letteraria italiana riesce a farsi largo, lo stile privilegiato è quello di Petrarca, più vicino alla lirica dei trovatori56: il tema amoroso, forse più accessibile rispetto alla materia ultraterrena della Commedia, così come l’agevole forma del sonetto, meglio sembrano adattarsi alla sensibilità francese dell’epoca, con la conseguenza che un’importante scia di seguaci sembrerà formarsi alle regole di questa scuola ignorando quasi del tutto la lezione dantesca57. Fino all’avvento del romanticismo, Dante è per lo più considerato come
52 H. Hauvette, Études sur la Divine Comédie, Paris, Honoré de Champion, 1922, p. 190.
53 A. Farinelli, Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1922,
p. 213. Si rimanda, inoltre, per una panoramica sulle riscritture di Dante in Inghilterra, Russia e Italia al numero di «Semicerchio» intitolato «Rewriting Dante» (n. XXXVI, 2007).
54 J. Risset, Dante en France, histoire d’une absence in L’Italia letteraria e l’Europa, Atti del Convegno
di Aosta, 20-23 ottobre 1997, Salerno editrice, Roma 2001, p. 60.
55 Si veda in proposito E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, cit., pp. 251-253. 56 Sull’eredità di Dante in opposizione a quella petrarchesca, anche in ambito italiano, si veda P. V.
Mengaldo, Dante e Petrarca nella letteratura italiana, in «Semicerchio» n. XXXVI, 2007, «Rewriting Dante», pp. 14-18. Mengaldo sintetizza giustamente l’opposizione tra i due in questi termini «Petrarca agisce a lungo e capillarmente sulla lingua; Dante anche, e prepotentemente, sull’immaginario».
57 Non è da sottovalutare, in questo contesto, il carattere più “europeo” di Petrarca così come il fatto che
quest’ultimo soggiornò per diverso tempo in Provenza. Se il presunto viaggio di Dante a Parigi (cfr. infra) è ancora una questione dibattuta, l’attaccamento di Dante nei confronti di Firenze, città storicamente poco amata dai francesi, contribuisce a spiegare la predilezione per Petrarca. In tal senso non va dimenticato che la lirica petrarchesca, dopo qualche secolo di silenzio in seguito alla consacrazione dei poeti della Pléiade nel Cinquecento, ha continuato a esercitare la propria influenza in Francia da Rousseau fino a oggi.
l’autore di rime «aspre» in opposizione a quelle «dolci», più immediatamente fruibili, di Petrarca. Un confronto, questo, non del tutto privo di fondamento quando si considerano le Rime petrose e che, per certi versi, lo stesso Petrarca contribuì ad alimentare attraverso il celebre sonetto Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi in cui il poeta, pur rendendo omaggio alla tradizione stilnovistica, si pone però come innovatore rispetto alla “durezza” della lirica dantesca58.
Già tra Trecento e Quattrocento, ossia nel momento in cui le opere di Dante cominciano a diffondersi in territorio francese, la tendenza riscontrabile è quella di istituire un confronto tra la Commedia e il Roman de la Rose, confronto a carattere nazionalista che non poteva certo deporre a favore della prima. L’indifferenza nei confronti del poeta si trasformava facilmente in astio quando ad essere oggetto di lettura erano i versi del canto XX del Purgatorio dedicati all’invettiva contro la Francia e la dinastia capetingia: là dove non era il presunto oscurantismo di Dante a impedire l’empatia, subentrava il forte patriottismo59.
I pregiudizi contro il poeta fiorentino sembrano, almeno in questa fase, andare di pari passo con una diffidenza generale nei confronti delle opere letterarie italiane, talvolta giudicate espressione di uno stadio ancora primitivo della cultura nazionale: «Jean Villani, qui estoit de son pays [di Dante] et presque son contemporain, assure que personne jusqu’alors n’avoit écrit avec plus de noblesse et de majesté ni en vers ni en prose: mais comme il y avoit peu de gens qui eussent écrit avant lui, cette réputation n’a pas dû lui coûter beaucoup»60.
Non è quindi un caso che la gran parte del XV secolo non veda alcuna traduzione francese della Commedia, mentre negli stessi anni delle versioni in spagnolo e in catalano venivano già date alle stampe. Questa lacuna è in parte spiegabile se si considera che i manoscritti danteschi arrivati in Francia erano scarsissimi e perlopiù di proprietà di famiglie nobili che, però, non necessariamente erano interessate al loro studio61.
58 Su questo punto si rimanda, in particolare, a T. Hunkeler, Dante à Lyon: des «rime petrose» aux «durs
épigrammes», «Italique» XI, 2008, pp. 9-27. Per l’opposizione tra Dante e Petrarca in Francia cfr. J. Risset, Dante en France, histoire d’une absence in L’Italia letteraria e l’Europa, Atti del Convegno di Aosta, 20-
23 ottobre 1997, Roma, Salerno editrice, 2001, p. 62.
59 In tal senso, l’astio sfociava in una compilazione biografica inesatta, attraverso la quale i tratti di
Dante venivano resi più aspri, quasi imbarbariti, come dimostrano le parole di Isaac Bullard: «taille médiocre, face longue, nez aquilin, lèvre d’en bas grosse, et poussant en dehors, cheveux noirs et crépus». Cit. in A. Counson, Dante en France, cit., p. 60.
60 Ivi, p. 61. Vedi anche A. Farinelli, Dante e la Francia dall'età media al secolo di Voltaire, Milano,
Hoepli, 1908, v. II, pp. 14-15.
Occorrerà attendere la seconda metà del XVI secolo perché un autore di cui ancora si ignora l’identità proceda alla traduzione della totalità delle tre cantiche (si tratta del cosiddetto manoscritto di Vienna), mentre la prima versione data alle stampe e firmata dall’abate Balthazar Grangier, in alessandrini in rima baciata, è soltanto del 1596. Viceversa, in questa fine del XV secolo, la traduzione si limita ad alcuni passi, come nel caso di quella di François Bergaigne, conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi, che comprende solo alcuni canti del Paradiso in decasillabi e in terza rima62. La scoperta, relativamente recente, del cosiddetto manoscritto di Torino – tutt’ora considerato come il più antico esemplare di traduzione della Commedia esistente – non fa che confermare la frammentarietà e la tardività delle operazioni di traduzione: pubblicato per la prima volta da Charles Casati nel 1873, questo testo precede in effetti la versione di Bergaigne, ma risale comunque alla fine del XV secolo ed è per di più circoscritto al solo Inferno. Un dato forse ancora più sconcertante riguarda invece la sorte della Vita Nova, la quale, fatta eccezione per alcuni frammenti sui quali lavorò Sainte-Beuve nel 1830, rimase senza traduzione fino al 1841 finendo per essere pubblicata come semplice appendice alla
Divine Comédie e trovando una parziale riabilitazione soltanto verso la fine degli anni
Settanta, quando Barthes la indicò come riferimento principale per il progetto di romanzo mai concluso dall’omonimo titolo. Un percorso simile ebbero anche il De Monarchia, il
Convivio e il De vulgari eloquentia, tradotti per la prima volta in francese da Sébastien
Rhéal nelle Œuvres complètes de Dante soltanto tra il 1843 e il 185663.
Proprio il manoscritto di Vienna presenta un tratto tipico delle prime traduzioni della
Commedia: sulla scia di quanto osservato rispetto a una ricezione di carattere nazionalista
dell’opera dantesca, i versi risultano sistematicamente edulcorati o modificati al fine di cancellare i passi più esplicitamente antifrancesi. È così che nel XX canto del Purgatorio, al verso 52, il riferimento alla leggenda secondo cui Ugo Capeto fosse «Figliuol […] d’un beccaio di Parigi» viene completamente cancellata e sostituita da un resoconto che si
62 Cfr. C. Morel, Les plus anciennes traductions françaises de la Divine Comédie, Paris, Librairie
Universitaire H. Welter, 1897. La datazione esatta della traduzione di Bergaigne è incerta, ma gli studiosi sono concordi sul fatto che essa non possa essere anteriore alla fine del XV secolo.
63 Cfr. C. Trinchero, La prima traduzione francese della “Vita Nuova” nell’opera dell’italianista
Étienne-Jean Delécluze, in «Studi Francesi», 176 (LIX, II), 2015, p. 303. Certamente, considerato il fatto
che il De Monarchia e il De vulgari eloquentia erano stati redatto in latino, la loro diffusione non era del tutto impedita in Francia anche prima della traduzione ma, con il passare degli anni, sempre meno persone erano in grado di leggere questi testi in lingua originale, rendendo dunque necessaria una versione in francese.
vuole storico: «Mon père en ce temps la fut de Paris le compte»64. Più in generale, queste prime traduzioni, ad eccezione di quella di Grangier, sono raramente complete; al contrario, si registrano operazioni di adattamento o riduzione all’interno di una stessa cantica: è il caso, nuovamente, del manoscritto di Vienna, in cui il Paradiso è più corto di due terzi65. Non solo, ma la qualità delle traduzioni sembra denunciare una conoscenza solo sommaria della lingua italiana che porta con sé evidenti errori di interpretazione: come registrato tra Dario Cecchetti, ad esempio, in Paradiso I (vv. 67-75) «consorte» viene reso con «confort», «di me» con «diz moy», «Nel suo aspetto» con «En son peuvoir»66. Particolarmente rivelatrici della ricezione della Commedia da parte degli stessi traduttori sono poi le prefazioni o gli avis au lecteur. Cecchetti riporta quello di Grangier, in cui la difficoltà di lettura del poema dantesco viene nuovamente messa a confronto con la chiarezza di stile della lirica francese: «tu ne trouveras pas une poésie délicate, mignarde, coulante et bien aysée, comme est celle quasi de tous noz poètes Françoys»67.
In questo contesto, in cui Dante sembra come passare inosservato, un’interessante eccezione è costituita dalla poetessa Christine de Pisan, le cui liriche sembrano riprendere motivi e immagini della Commedia, segno di uno studio accurato non a caso facilitato dalle origini italiane della scrittrice. Nell’ambito del già menzionato dibattito tra il Roman
de la rose e il poema fiorentino, Christine de Pisan fu uno dei pochi intellettuali a
difendere la superiorità di quest’ultimo, giudicato «mieux fondé et plus subtilement» del romanzo francese68. In Le Chemin de long estude (1402), forse l’opera più nota della poetessa, il tema del viaggio negli inferi è esplicitamente preso in prestito da Dante. Non solo, ma il tema stesso del lutto69, vissuto e raccontato in prima persona, avvicina ancora di più le due opere. Mentre è intenta a leggere il De consolatione philosophiae, lo stesso libro in cui Dante trovò conforto dopo la morte di Beatrice (Convivio II, XII), la protagonista viene rapita in sogno dalla Sibilla e condotta dapprima sul Parnaso, poi in Asia e, infine, alla soglia del Paradiso terrestre, dove la vera e propria ascesa al cielo ha inizio. Un’ascesa che, tuttavia, si rivela più simile a quella di Boezio che non a quella
64 C. Morel, Les plus anciennes traductions françaises de la Divine Comédie, cit., p. 432. Si veda anche
D. Cecchetti, Dante e il rinascimento francese, «Letture classensi», n. 19, 1990, pp. 55-56.
65 D. Cecchetti, Dante e il rinascimento francese, cit., p. 51. 66 Ivi, pp. 52-53.
67 Ivi, p. 53.
68 J. Risset, Dante en France, histoire d’une absence, cit., p. 61. 69 Christine de Pisan aveva in effetti perso il marito.
dantesca: affinché possa giungere all’ultimo cielo, la Sibilla – doppio femminile di Virgilio – porgerà alla protagonista una scala composta da «spéculation» che la condurrà a un Paradiso molto diverso da quello del pellegrino fiorentino: privo dell’esplosione di luce e musica che caratterizza quest’ultimo, la beatitudine per Christine de Pisan è fondamentalmente coincidente con la sapienza suprema70.
Con il Rinascimento, un’altra lettura equivoca del poema relega Dante in un’ottica pseudo teologica piuttosto che letteraria. Il Medioevo, e con esso tutto l’apparato tolemaico proposto dalla Commedia, sono tacciati di oscurantismo. Tutt’al più, le tre cantiche interessano i calvinisti, pronti a vedere nel poeta il fautore di un regime antipapale71. Nemmeno Montaigne, nella sua pur immensa biblioteca, possedeva un qualsiasi volume del poeta72, mentre nella sua Défense et illustration de la langue
française, Du Bellay omette persino di citare Dante come modello di lingua volgare,
facendo unicamente menzione, tra gli italiani, di Petrarca e Boccaccio. Forse – come ipotizza Farinelli73 – se Bembo, allora piuttosto diffuso e apprezzato in Francia, avesse dedicato una più ampia analisi a Dante nei suoi scritti, quest’ultimo sarebbe stato maggiormente conosciuto e tenuto in considerazione dai poeti della Pléiade con i quali, in realtà, il De vulgari eloquentia sembra largamente in linea.
Solo due grandi eccezioni sfuggono a questo generale ostracismo. Da un lato, Marguerite de Navarre che, alla corte di Francesco I, aveva istituito una sorta di «académie dantesque» in cui le terzine della Commedia erano lette quasi ogni giorno in un clima di osservanza neoplatonica, motivo per il quale buona parte della produzione poetica della principessa, e la poesia Les Prisons sopra tutte, risulta influenzata dalle immagini dantesche dell’aldilà74. Dall’altro, Maurice Scève il quale, grazie agli stretti contatti della città di Lione con l’Italia e, in particolare con Firenze, fu probabilmente in
70 Farinelli lo definisce, addirittura, «il beato regno della pedanteria medievale». Cfr. Dante e la Francia
dall'età media al secolo di Voltaire, cit., v. I, p. 172 e p. 183.
71 Cfr. A. Counson, Dante en France, cit., p. 42 e J. Risset, «Histoire d’une absence», cit., p. 219.
L’essere tacciato di oscurantismo è una condanna che affligge Dante anche all’interno dei confini nazionali: come ricorda Farinelli, lo stesso Pico della Mirandola lo definisce come «sublime ma oscuro e talvolta ripugnante». Cfr. A. Farinelli, Dante e la Francia dall'età media al secolo di Voltaire, cit., v. I, p. 223.
72 Nonostante questo, Risset parla di due citazioni dalla Commedia rintracciabili negli Essais, anche se
il nome di Dante non appare mai. Cfr. J. Risset, Dante en France, histoire d’une absence, cit., pp. 68-70.
73 Cfr. A. Farinelli, Dante e la Francia dall'età media al secolo di Voltaire, cit., v. I, p. 250.
74 A. Counson, Dante en France, cit., pp. 22-29 e A. Farinelli, Dante e la Francia dall'età media al
secolo di Voltaire, cit., pp. 317-356. Farinelli precisa che la lettura neoplatonica non fu, come invece in
molti casi italiani (cfr. infra 2.5) influenzata dal commento di Landino. Per Les Prisons si veda l’edizione di S. Glasson, Genève, Droz, 1978.
grado di leggere Dante in una prospettiva meno ostile rispetto a quella della gran parte del contesto nazionale francese. Resta il fatto che l’influenza del poeta fiorentino su quello lionese è una questione ancora dibattuta. In particolare, rispetto all’autenticità di una lettera dell’editore Jean de Tournes a Scève posta in esergo al volume Il Dante, sulla quale i critici sono ancora discordi: per alcuni questo documento, in cui l’autore di Délie viene posto come erede di Dante in opposizione a Petrarca, farebbe pensare ad un interesse concreto nei confronti della lirica fiorentina, forse persino ad un debito manifestamente dichiarato; per altri, al contrario, malgrado una certa somiglianza nello stile dei due, appare impossibile qualificare Scève come discepolo di Dante75. Ciò nonostante, tanto nelle immagini utilizzate quanto nello stile, alcuni passi sceviani lascerebbero pensare che l’autore abbia, quantomeno, letto gran parte dei versi danteschi e non solo la Commedia. La ripresa integrale di alcuni rimanti (particolarmente significativa appare, in questo senso, la coppia «Dyaspre» / «aspre») sembra persino suggerire la possibilità che, nella già menzionata dialettica tra Petrarca e Dante, il poeta francese protendesse per quest’ultimo e per le sue liriche meno “dolci”. Questo spiegherebbe, peraltro, come mai già tra i commentatori dell’epoca l’associazione tra Dante e Scève fosse così diffusa e si collocasse proprio nel segno di una poetica «difficile» e «oscura»76. Anche Risset avvalora questa prossimità tra i due autori, vedendo nel Microcosme un intenzionale rovesciamento dell’ordine cosmico della Commedia: mentre quest’ultima termina con il Paradiso e la visione divina, il poema di Scève comincia proprio da qui e, in opposizione all’ascesa dantesca, termina con l’esaltazione della gioia umana, ovvero della creazione di un regno di beatitudine che è, di fatto, un Paradiso terrestre77.
Ignorata dai più grandi nomi del Seicento (Corneille, Racine, ma soprattutto Pascal che, pure, avrebbe potuto trovarvi più di un’affinità), l’opera dantesca continua a passare sostanzialmente inosservata anche per tutto il XVIII secolo e non senza momenti
75 Di questo avviso è, ad esempio, A. Counson, per il quale, inoltre, l’epistola non ha alcuna importanza
storica (cfr. Dante en France, cit., p. 30). Pur riconoscendo l’autenticità della lettera, A. Farinelli dubita che un’influenza dantesca possa essere riscontrata in Scève (cfr. Dante e la Francia dall'età media al secolo
di Voltaire, cit., v. I, p. 391). Di parere contrario è T. Hunkeler, Dante à Lyon: des «rime petrose» aux «durs épigrammes», cit., pp. 13-14.
76 Per la vicinanza delle rime sceviane e dantesche si rimanda a T. Hunkeler, Dante à Lyon: des «rime
petrose» aux «durs épigrammes», cit., da cui sono tratte anche le citazioni.
77 Cfr. J. Risset, Histoire d’une absence, cit., p. 119 e J. Risset, Dante en France, histoire d’une absence,
parossistici, come l’affermazione da parte del Père Hardouin che l’autore della Commedia sarebbe stato un non meglio identificato eretico inglese firmatosi come Alighieri per sfuggire alle probabili critiche derivanti dall’adesione alle dottrine riformiste di John Wycliffe di cui le tre cantiche si sarebbero fatte portavoce. O, in un mélange ancora più inverosimile (ma giustificato dall'immaginario barocco europeo di cui Dante e Shakespeare figurano tra i massimi rappresentanti), la pubblicazione del Roméo et Juliette di Jean-François Ducis in cui il conte Ugolino diventa membro della famiglia dei Montecchi78. Gli autori entrati nel canone letterario sono perlopiù i classici del secolo precedente (Racine, per l’appunto), mentre il periodo illuminista sembrerà ancora vedere nel poeta fiorentino quell’emissario ecclesiastico che già il Rinascimento aveva condannato, non da ultimo a causa dell’errata trasmissione del titolo a cui, come è noto, era stato aggiunto da Boccaccio il fuorviante “divina”. Nonostante questo, la Commedia e il suo autore restano appannaggio di pochi eruditi, mentre l’epopea di matrice cristiana