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Al di fuori dei confini francesi: Mandel’štam e Borges

CAPITOLO 2 «T RADUZIONE E MEMORIA POETICA »: D ANTE

2.4. Al di fuori dei confini francesi: Mandel’štam e Borges

Il riferimento a due autori come Borges e Mandel’štam che poco – o nulla – hanno a che fare con il contesto francese potrebbe stupire in un’analisi che si proponga di esaminare la ricezione di Dante nelle poesie di Risset. Tuttavia, è proprio grazie a questi nuovi approcci critici al testo dantesco che la lettura di Risset in Dante écrivain, così come la successiva traduzione, poterono orientarsi in netta rottura con i lavori precedenti. Ragion per cui si rende necessario esaminare più nel dettaglio queste letture così eterodosse.

È certamente in Osip Mandel’štam che può essere osservato il più stretto legame tra scrittura e critica; legame che, come si è visto, appare centrale per Tel Quel e che, quindi, non deve essere sfuggito all’attenzione di Risset. Разговор о Данте188 si presenta, in effetti, come una serie di immagini giustapposte – metafore, analogie, similitudini – volte a illustrare alcuni tratti della scrittura di Dante. Si tratta di immagini che, per la loro ricchezza e vivacità, sembrano quasi costituire un’estensione del testo dantesco piuttosto che un suo commento. È così che una sorta di «dialogo circolare»189 sembra mettersi in moto tra il poeta russo e quello fiorentino, al punto che la definizione usata da Mandel’štam per parlare delle similitudini dantesche pare applicarsi perfettamente anche a quelle da lui stesso impiegate nell’analisi della Commedia: «Les comparaisons de Dante ne sont jamais descriptives, purement figuratives. Elles ont toujours pour objet concret de rendre la forme interne d’une structure ou d’une tension»; non solo, ma esse si trovano ad essere puramente gratuite, mai dettate da «une indigente nécessité logique» 190. Questa formulazione – vicina a una dimensione ludica della scrittura molto familiare alla contemporaneità – allontana Dante dall’immagine solenne di certe rappresentazioni: il poeta diventa direttore d’orchestra che sapientemente si muove tra «les comparaisons, assimilables à de grands envolées, et les parties de solo, je veux dire les arie et ariosi que sont tous ces aveux, toutes ces coulpes clamées, ces récits autobiographiques»191. È proprio tale polifonia della Commedia a affascinare Mandel’štam, che la descrive come

188 O. Mandel’štam, Разговор о Данте, Moscow, Iskusstva, 1967. Traduzione francese di Louis

Martinez, Entretien sur Dante, Lausanne, Editions l’Âge d’homme, 1977.

189 L’espressione è tratta dal titolo di un saggio di Risset: Il dialogo circolare: Bonnefoy traduttore di

Yates in Cesare De Petris (a cura di), Yates oggi. Studi e ricerche, Roma, Terza Università di Roma, 1993,

pp. 158-66.

190 O. Mandel’štam, Entretien sur Dante, cit., pp. 28-29. 191 Ivi, p. 57.

un cristallo dalle mille facce, tutte regolari, tutte perfettamente strutturate: le cantiche vengono immaginate dall’autore come un lavoro svolto da migliaia di api, lavoro che, pur presupponendo delle difficoltà specifiche ad ogni parte dell’opera, è tuttavia svolto senza perdere di vista l’insieme192. Anche le metafore utilizzate da Mandel’štam si moltiplicano: l’Inferno è «une gigantesque expérience de Foucault mobilisant non plus un seul mais une foule de pendules jouant aux mille coins»193; l’architettura della

Commedia è descritta come un enorme caos in cui «toutes les salles de l’Ermitage

devenaient folles»194; o ancora, attraverso un’immagine presa in prestito alla sfera musicale – cosa che curiosamente avvicina Mandel’štam a Sollers (cfr. 2.3) – il poema dantesco è definito come «un orgue d’une infinie puissance» di cui l’autore «a savouré tous les registres pensables, en a gonflé tous les soufflets, a mugi et roucoulé dans tous les tuyaux195». Assaporare: è questa la chiave interpretativa di Mandel’štam; Dante, in accordo con il paradigma medievale della poesia come nutrimento del palatum mentis, è colui che gusta fino in fondo le rime, la sintassi del verso, il ritmo delle allitterazioni196. Pertanto, anche se evidentemente nessuna bozza, né manoscritto autografo, può costituire materiale per un’analisi genetica della Commedia, per Mandel’štam non cedere al falso mito dell’ispirazione (in questo caso, addirittura, divina): al contrario, l’autore pone l’accento sulla fase del lavoro, da intendersi proprio come labor, la fatica del produrre. L’alone mistico che accompagna il poeta si trasforma in un universo colorato, in cui egli passa dall’essere «le Dante “mystérieux” des eaux-fortes françaises, réduit à son capuchon, à son nez aquilin»197 a un impacciato discepolo di Virgilio che segue il maestro senza ben sapere cosa dire o come comportarsi, trovandosi talvolta ad essere rimproverato e talvolta incoraggiato. Insistere su questo punto significa ridare a Dante la sua umanità, sottrarre la Commedia a un’interpretazione ancora legata alla «retorica scolastica»198. Soprattutto, significa leggere il poema non più come ancorato al passato, ma tutto volto al futuro: nel voler conferire all’opera un valore simbolico che trascendesse la propria epoca, Dante si è fatto portavoce di una scrittura che Mandel’štam definisce

192 Ivi, p. 28. 193 Ivi, p. 68. 194 Ivi, p. 80. 195 Ivi, p. 23.

196 Sulla poesia come nutrimento della mente si veda E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo

latino, cit., pp. 154-156.

197 O. Mandel’štam, Entretien sur Dante, cit., p. 31. 198 Ivi, p. 80.

«antimoderna» nel suo essere radicalmente altro e che ben si applica all’universalità della storia. «Il serait absurde de lire les Chants de Dante sans les tirer vers l’actualité», senza adottare, cioè, una prospettiva che sia anche sincronica, capace di vedere i versi certo come riconducibili a un genotesto, ma al tempo stesso come appartenenti ad un unico insieme dove il senso viene generato dal loro accostamento, dalla loro interazione. «Etudier Dante dans l’avenir» conclude perciò Mandel’štam, «ce sera, je l’espère, étudier la relation d’un texte à son envol»199.

Sebbene non sia affatto certo che Borges abbia letto Разговор о Данте, la sua analisi del «poema sacro» sembra situarsi sulla scia dell’auspicio di Mandel’štam. Come sottolinea Hector Bianciotti200, l’incontro di Borges con il testo dantesco è quanto di più lontano si possa immaginare da un approccio accademico: nelle tre ore di tragitto in tram che separavano la sua abitazione dal posto di lavoro in biblioteca, l’autore scopre la

Commedia confrontando il testo italiano con la versione anglosassone (e in prosa) di John

Aitken Carlyle, riuscendo così a entrare in contatto con l’originale, a rigore più vicino allo spagnolo che non all’inglese. Ma è proprio attraverso questo strano percorso di assimilazione che i Nueve ensayos dantescos201 riescono a mettere in luce una dimensione intertestuale troppo spesso trascurata. Collocandosi all’estremo opposto dell’interpretazione claudeliana ma in linea con quella del già menzionato Claude Fauriel202, la lettura borgesiana dell’architettura dell’Oltretomba dantesco è quella di uno spazio creato appositamente perché il Dante scrittore possa rincontrare l’amata vestendo i panni di un personaggio. Come già intuito da Bonnefoy in L’Improbable, Dante «demande au rythmes, aux rimes, à tous les moyens de solennité du langage de dresser pour [Béatrice] une terrasse, de construire pour elle un château de présence, d’immortalité, de retour»203. Letto in quest’ottica, Dante appare molto lontano dalle vesti di teologo, mentre ad emergere è la compassione nei confronti delle anime dei dannati, in

199 Ivi, p. 82.

200 H. Bianciotti, Borges et la dimension du cœur, prefazione a J. L. Borges, Neuf essais sur Dante,

Paris, Gallimard, 1987, pp. 9-19. Si veda anche il racconto dello stesso Borges in Divine Comédie, «L’Infini» n. 3, été 1983, p. 34. Il trovarsi agli antipodi di un approccio accademico è sottolineato anche da Giorgio Petrocchi, il quale ricorda però che «non bisogna far caso a momenti che un dantologo di professione potrebbe considerare ingenui e talvolta fallaci (come Ulisse collocato tra i falsari anziché tra i consigliari di frode, che sono peccati ben diversi), ma guardare a Borges, non perder mai di vista lui, e amarlo per la sua fedeltà al dettato dantesco, […] a scrivere per Dante oltre che su Dante». G. Petrocchi,

Prefazione a J. L. Borges, Nove saggi danteschi, Milano, Franco Maria Ricci, 1985, p. 15.

201 J. L. Borges, Nueve ensayos dantescos, Madrid, Espasa-Calpe, 1982.

202 Cfr. C. Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italiennes, cit., p. 448: «Cette

intention première de la Divine Comédie est une pensée d’amour».

special modo quelle di Paolo e Francesca, i due amanti ai quali, secondo Borges, Dante invidiava la possibilità di restare insieme anche dopo la morte, seppur nel regno degli inferi. Un privilegio, questo, che lo status beatifico di Beatrice non consente e che si tradurrà in uno degli episodi di più complessa interpretazione della Commedia su cui lo stesso Borges sembra soffermarsi non senza empatia: L’incontro, nel canto XXX del

Purgatorio, con Beatrice. Lungi dall’essere un momento di gioia estatica, l’apparizione

della donna amata si rivela occasione per un solenne rimprovero a causa dello smarrimento spirituale che il poeta aveva conosciuto in seguito alla morte terrena di Beatrice stessa. Dante si ritrova così al cospetto di una sorta di tribunale, il cui giudice è proprio Beatrice. Un elemento completa la scena e scatena il pianto di Dante (vv. 54-57): Virgilio, compagno di viaggio e saggio maestro, non può più seguire il proprio discepolo poiché l’accesso al Paradiso terrestre non è concesso a coloro che non hanno conosciuto la grazia del Cristo. L’interpretazione di Borges relativa a questo canto è rivelatrice della lente attraverso la quale lo scrittore lesse l’intera Commedia: se il poema è il racconto di un sogno, Dante «sognò di Beatrice, ma la sognò severissima»204, non dissimile da colei che, nella Vita Nova si era presa gioco di lui e, più tardi, dalla Laura petrarchesca apparsa in sogno a Sade, immagine impossibile da trattenere che lascia dietro di sé unicamente dolore205. Tutte le raffigurazioni dell’amata possono dunque essere riconducibili a un dato: «Infinitamente esistette Beatrice per Dante. Dante pochissimo, forse nulla per Beatrice»206.

Poco importa se, come sostiene Bianciotti, Borges vide in Dante un suo doppio dallo sfortunato destino sentimentale207; l’analisi borgesiana prende per la prima volta in considerazione la componente umana del narratore-autore in opposizione alla gran parte degli approcci critici accademici. Come ha notato Lore Terracini, Borges «si impadronisce [di Dante] a sua volta come narratore» tanto è vero che è possibile affermare che «Borges narratore di Dante è onnisciente nei riguardi del suo personaggio»208. In questo caso, l’analisi critica sembra diventare – e forse è proprio qui che andrebbe

204 J. L. Borges, Nove saggi danteschi, cit., p. 115.

205 Sulla prossimità tra la Laura petrarchesca e la Laure di Sade cfr. R. de Ceccatty, Laure et Justine,

Paris, Lattès, 1996.

206 Ivi, p. 116.

207 Cfr. H. Bianciotti, Borges et la dimension du cœur, cit., pp. 13 e sgg. Bianciotti sostiene che, durante

gran parte della sua vita, Borges amò diverse donne senza essere corrisposto e questo fino a quando, poco prima della morte, non sposò María Kodama. Secondo Bianciotti, quindi, «Il aurait donné une autre vision de la Commedia s’il s’y était penché pour la première fois à la fin sa vie».

ricercata la fascinazione di Risset per i Nueve Ensayos Dantescos – l’anticamera della finzione letteraria. Dante assume in effetti i tratti di un personaggio borgesiano (forse una proiezione dell’autore stesso, se si segue Bianciotti), generando così una profonda contaminazione tra critica e scrittura209. Non solo, ma la novità di questa lettura risiede anche nell’insistere sul farsi del poema, vale a dire sull’assoluta consapevolezza autoriale rispetto alla struttura che l’opera avrebbe dovuto avere. Nell’analisi della Commedia Borges rileva infatti un’unità di misura temporale del tutto inedita, ossia quella dell’istante. Dante appare in grado, meglio di chiunque altro, di presentare i personaggi che popolano il racconto nello spazio di qualche breve terzina, là dove, nei romanzi contemporanei, occorrono spesso intere pagine prima di poterli inquadrare210. Come possono, allora, delle figure evocate così rapidamente fissarsi per sempre nella memoria del lettore e, persino, in quella collettiva? Secondo Borges, perché Dante è in grado di coglierle nell’istante decisivo della loro esistenza, nell’attimo in cui la loro essenza sembra fissarsi eternamente. Come nel caso di Ulisse, non più immortalato, alla stregua dei racconti omerici, nel momento di massima gloria dopo la vittoria contro i troiani ma in quello in cui il desiderio dell’ignoto lo spinge a rimettersi in mare211. Così, contrariamente a buona parte dei commentatori, Borges vede in Ulisse un doppio di Dante non rispetto alla pericolosità del viaggio (dell’uno per mare, dell’altro tra i morti) quanto piuttosto per la consapevolezza del rischio di scrivere un poema nel quale sarebbe stato necessario trattare di dogmi religiosi e mettere per iscritto le sorti dei contemporanei e delle figure storiche. Ma, soprattutto, di concepire un’opera in cui Beatrice, Maria, e Gesù sarebbero stati, per la prima volta, posti sostanzialmente sullo stesso piano 212. La scrittura della Commedia diventa così per Borges un atto sacrilego: niente di più lontano dalla figura del poeta-teologo che compone i versi sotto l’influenza di un’ispirazione mistica. Questa consapevolezza del farsi del poema significa anche, diversamente dall’interpretazione di Claudel, ammettere una dimensione finzionale in cui alcuni

209 Questa è la tesi sostenuta da A. R. Hermetet in Dante ou le profil du grand écrivain au XXe siècle,

in H. Levillain (sous la direction de), Dante et ses lecteurs, cit., p. 133.

210 J. L. Borges, Divine Comédie, cit., p. 39.

211 J. L. Borges, Divine Comédie, cit., pp. 33-45. Come è noto, per il racconto del «folle volo» di Ulisse

Dante prende le mosse dalle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 154 e ss.) in cui Macareo racconta di come Ulisse, dopo essere rimasto per un anno insieme a Circe, convinse i compagni a intraprendere un nuovo viaggio che la maga predisse pericoloso e ricco di ostacoli. Come ricorda Sapegno, Dante ignorava invece i poemi omerici in cui si parla del ritorno di Ulisse a Itaca (cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia.

L’Inferno, a cura di N. Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 292).

elementi sono volutamente lasciati in sospeso, non subordinati alla legge del realismo: «Il problema storico se Ugolino della Gherardesca abbia esercitato nei primi giorni di febbraio del 1289 il cannibalismo è evidentemente insolubile. Il problema estetico o letterario è di ben diversa indole»213. E questo perché, quando la parola entra nello spazio letterario, la categoria di “verità” non appare più pertinente:

Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a varie alternative opta per una ed elimina o perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che somiglia a quello della speranza e dell’oblio. […] Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto214.

Se, nei termini di Terracini, «la lettura dantesca di Borges risulta un atto creativo»215, non stupisce che, da oggetto di interpretazione critica nei Nueve ensayos dantescos, Beatrice diventi protagonista del racconto L’Aleph che chiude l’omonima raccolta216: giovane donna scomparsa prematuramente e amata dal narratore, Beatriz Viterbo è però una figura più oscura, dai tratti insondabili. La spiegazione di tanto mistero, come svela l’epilogo, è la presenza di un «Aleph» nella cantina in cui abitava l’amata, ora di proprietà del cugino Carlos Argentino Daneri, alter ego di Dante. È attraverso questa specie di varco temporale scoperto da Carlos – buco nero di natura mistica – che il narratore accede alla visione dell’universo, preceduta, come nella Commedia, da quella di Beatriz.

Quel che colpisce nell’accostamento degli studi di Borges e Mandel’štam è l’insistenza sistematica su tre elementi strettamente connessi tra loro e perfettamente in linea con quella che sarà la lettura dantesca di Risset: prima di tutto, la presa di distanza da un’erronea ricezione di Dante che passa per un interesse esclusivamente teologico; da qui, un approccio che in entrambi i saggi può essere definito «psicologico», ossia interessato ad un’altra dimensione rispetto a quella sociale, politica e storica in cui la Commedia venne scritta217; infine, l’insistenza sulla consapevolezza autoriale che si

213 Ivi, p. 85. 214 Ivi, p. 87.

215 L. Terracini, Dante e Borges, cit., p. 131.

216 J. L. Borges, L’Aleph (traduzione italiana di F. Tentori Montalto) Milano, Feltrinelli, 2010. Vedi

anche J.-P. Ferrini, Lectures de Dante, cit., pp. 64-65. I riferimenti alla Commedia sono presenti anche in altre opere, specialmente attraverso la ripresa di alcuni personaggi meno noti quali Pietro Damiano o Baconte di Montefeltro. Per un’analisi approfondita di questo procedimento si veda E. Durante, La

«poétique conjecturale» de Dante selon Borges, «Revue de littérature comparée», n. 320, 2006/4, pp. 447-

457.

217 Come sottolinea giustamente A. R. Hermetet, cfr. Dante ou le profil du grand écrivain au XXe siècle,

traduce in una ricchezza linguistica in grado di rendere l’opera ancora fruibile dalla contemporaneità. «Jusqu’à ce jour, la gloire de Dante a été le principal obstacle à sa connaissance et à son étude approfondie»218, scriveva Mandel’štam nei primi anni Trenta, riassumendo quattrocento anni di fraintendimenti e anticipando alcune delle posizioni del XX secolo.

2.5. Due illustrazioni della Commedia a confronto: Doré e Botticelli