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In ambito poetico, l’adesione telqueliana a una «scrittura testuale» si carica di implicazioni forse ancora più radicali rispetto alla prosa. Come sottolinea Risset, là dove il romanzo ha almeno tentato, nel corso dei secoli, di rinnovare le proprie forme, «la poesia non ha fatto altro, in fondo, attraverso le sue apparenti rivoluzioni, che rafforzarsi nella sua forma di attività a parte, non vista, non guardata, sotto l’effetto di una sacralizzazione sempre più forte e sempre più difficile da combattere»208. Lo stesso rifiuto per la produzione poetica degli anni Sessanta si ritrova in Pleynet che, proprio in Théorie

d’ensemble, denuncia lo scarto con la sperimentazione che aveva investito l’ambito del

romanzo: «Si au cours de ces dernières années une certaine activité théorique semble avoir réussi à sortir le roman de l’impasse “naturaliste” […] rien de tel ne s’est produit pour la “poésie” qui reste, qu’elle le veuille ou non, complice d’une lecture esthétisante, décorative»209. L’operazione di Tel Quel si vuole in tal senso particolarmente rivoluzionaria e può essere riassunta in una formula apparentemente paradossale: «come fare, scrivendo poesia, per sfuggire al tranello “poetico”?»210. Occorre, nei termini di Denis Roche, rinunciare alla componente puramente estetizzante della poesia: «toute poésie qui se veut “poétique” contre une écriture à portée idéologique précise est vaine; et de même toute personne “poète” qui prétend exalter ce “poétique”211. Come nel romanzo, anche in questo caso l’intertestualità gioca un ruolo determinante: nella misura in cui essa priva la poesia di quella componente di “creazione ispirata” che la tradizione suole attribuirle, la pratica citazionale fa «diventare coscienti, e deludenti, le operazioni mentali immediate»212. Non sorprende allora che la poesia si costituisca come frammento, pratica scrittoria discontinua in cui a mancare è il senso ultimo, mentre a regnare è piuttosto «un rifiuto sistematico dell’”unità”»213.

Sulla base di queste premesse, nell’analisi della produzione rissettiana degli anni relativi a «Tel Quel», un posto di rilievo assume il già citato Poésie et Prose, e questo per

208 J. Risset, Poesia e testualità, in L’invenzione e il modello, cit., p. 220.

209 M. Pleynet, La poésie doit avoir pour but…in Tel Quel, Théorie d’ensemble, cit., pp. 94-95. Come

mostra l’articolo Poesie ’61 («Tel Quel» n. 8, hiver 1962), qualche nome sfugge alla condanna del panorama poetico degli anni Sessanta: Yves Bonnefoy, Jacques Dupin, André du Bouchet e lo stesso Michel Deguy, brevemente parte del comitato di redazione della rivista (cfr. 1.1), sono indicati come modelli della nuova concezione della poesia portata avanti da Tel Quel.

210 J. Risset, Poesia e testualità, cit., p. 220.

211 D. Roche, La poésie est inadmissible, in Tel Quel, Théorie d’ensemble, cit., pp. 226-227. 212 J. Risset, Poesia e testualità, cit., p. 220.

diverse ragioni. Prima di tutto, si tratta di una delle pochissime poesie di Risset ad essere state pubblicate singolarmente senza poi venire riprese in volume214; in secondo luogo, è l’unico testo dell’autrice a presentare una struttura in cui poesia e prosa sono marcatamente distinte e, al tempo stesso, in stretta prossimità; infine, è proprio in Poésie

et Prose che è possibile reperire alcuni dei tratti dello stile rissettiano che, se saranno poi

presenti in tutta la produzione poetica futura, mostrano un livello di sperimentazione mai più eguagliato nei successivi componimenti.

Come annunciato già dal titolo, Poésie et Prose – significativamente dedicato a Francis Ponge – è un testo composto da una prima parte in versi e da una seconda parte in prosa, peraltro senza che tra le due sezioni vi sia soluzione di continuità. Il titolo rematico, lontano dall’annunciare il tema del testo, mette ancora più in rilievo la dualità della forma. Questo primo dato appare particolarmente rilevante, soprattutto in relazione alla pratica di scrittura testuale che, come si è visto, è propria della fase che «Tel Quel» stava attraversando in quegli anni. Distruggere, nei termini di Sollers, «la vieille antinomie qui appartient à l’ancien monde»215 tra prosa e poesia significa valorizzare il linguaggio tout

court, consentendo lo sviluppo di una riflessione sulla scrittura che sappia dotarsi di

categorie nuove. Certamente, come osservato da Curtius, già l’ars dictaminis medievale non poneva una distinzione netta tra poesia e prosa216; in questo caso Risset sembra però fare atto di vero e proprio nominalismo, mostrando la caduta della tradizionale barriera tra i generi che appaiono qui posti sullo stesso piano grazie all’uso della congiunzione coordinante «et» del titolo.

Ma la coesistenza di prosa e poesia non costituisce l’unico aspetto sorprendente del testo. Basta una sola occhiata per essere colpiti dalla quantità di segni grafici non fonetici: parentesi tonde e quadre, barre, frecce, riquadri e, come è tipico della poesia rissettiana in generale, una lunga serie di spazi bianchi:

Surprenant l’Oasis

214 Salvo eventuali ritrovmenti in archivio, le uniche due poesie che condividono questo destino sono:

Le Regard l’attente, in «Ça cinéma», 3, 1975, s.n.p. e Blason de la voix, in F. Guetat-Liviani (sous la

direction de), Blasons du corps masculin, Marseille, NèPE & Spectres Familiers, 1990, (s.n.p.).

215 P. Sollers, Réponses, cit., p. 75.

216«Nella concezione antica, poesia e prosa non sono due forme espressive fondamentalmente diverse

nella loro essenza; entrambe sono, piuttosto, comprese nella più ampia categoria del “discorso”». E più avanti: «Nell’ars dictaminis così classificata, il binomio poesia-prosa viene dunque sostituito da un trinomio, o anche da un quadrinomio, i confini tra poesia e prosa diventano sempre più sfumati». Cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, La nuova Italia 1992, p. 167 e 169.

LA FEMME

/

AUTRE Sur le côté les bras robustes217

Come si nota facilmente, il primo elemento di questa sequenza218 è costituito da un gerundio, mode impersonnel per eccellenza della lingua francese che qui, in effetti, non sembra essere associato a alcun soggetto. Ma ecco che, immediatamente sotto, la freccia che parte da «La femme» collega il gerundio a un (possibile) soggetto, indicando una via di lettura. Non solo, ma il maiuscolo che accomuna «La femme» e il pronome «autre» stabiliscono una relazione, dapprima grafica e, quindi, semantica tra i due termini. La donna – l’Altro per eccellenza, come da lezione lacaniana – viene, quindi, investita di una serie di attributi, e questo unicamente attraverso l’uso dei caratteri tipografici. Lontani dall’essere un mero corollario della parola, quindi, i segni grafici di cui si avvale Risset ne costituiscono una fondamentale controparte, forse non del tutto estranea alla logica marxista dell’esibizione dei mezzi (ovvero, del processo) attraverso cui prende forma il “lavoro” del senso (cfr. 1.2). Non si tratta dell’unica occorrenza di questo fenomeno:

/

/

PUISSANCE (comme toujours) au centre regardant

/

[

Évidence

]

219

Qui ad attirare l’attenzione è, in particolare, lo spazio bianco, racchiuso tra due barre e collocato al centro dei termini «substantif» e «puissance»: a sorprendere è, naturalmente, il fatto che la cornice, formata dalle barre oblique, non racchiuda alcuna parola. Lo spazio, pur essendo precisamente delimitato (e delineato), è in realtà vuoto. L’andamento orizzontale del verso viene, di fatto, marcatamente sospeso: lo spazio

217 J. Risset, Poésie et Prose, in «Tel Quel» n. 22, été 1965, p. 39.

218 Impossibile, in effetti, parlare di strofe o di stanze. Tuttavia, questa parte della poesia è posta

all’inizio di una nuova pagina, dopo un ampio spazio bianco che lascia pensare a uno stacco con la parte precedente. Per una visione di insieme della poesia, che sarebbe difficile riprodurre per esteso, si rimanda alla versione apparsa su «Tel Quel».

219 J. Risset, Poésie et Prose, cit., p. 38.

bianco tra le barre oblique appare così leggibile come una resa in termini grafici dell’aposiopesi della retorica classica. La parentesi vuota così creata diviene traccia dell’«irriducibilità tra il dedans e il dehors sociale del testo» che «rompe […] il patto tra identità, frontalità e verità denunciando, in rapporto ad esse, uno straniamento e una profondità»220. Una simile inversione del normale processo cognitivo che regola la lettura si ha poco dopo, con il gerundio «regardant», seguito da uno spazio bianco, da un’altra barra, ma da nessun complemento oggetto, segno di quanto Stefano Agosti ha giustamente definito una «compressione» sul modello di «una scrittura stenografica volta a fermare l'istante stesso della sensazione, o della percezione, o dell'illuminazione mentale; dall’altro, e all'opposto, quello di assolutizzare la percezione, o lo stato»221. In tal senso, non sembra inopportuno supporre che a dominare questo testo poetico sia, più che una lineare progressione logica di segni che si allineano sulla pagina, una serie di associazioni che affiorano alla mente per poi essere fissate sulla carta. Così, il lemma «Évidence», incorniciato dalle parentesi quadre potrebbe caricarsi di reminiscenze husserliane, andando a mimare, graficamente e in maniera pressoché didascalica, proprio quell’epochè che prevede la «messa tra parentesi»222 dell’evidenza della realtà per come la scienza, o il senso comune, sembrano presentarla. Come più tardi intuito da Derrida a proposito di Nombres di Sollers, la parentesi annuncia un’«ouverture de présence» in cui regna un «temps sans limite qui n’est ni un “présent” ni une “histoire”» 223. In linea con una modernità che, a partire da Hegel, può dirsi fondata sulla nozione di «“cattiva infinità”, ovvero di un’infinità determinata che si conosce solo attraverso il suo processo», la messa tra parentesi denuncia la perdita «della credenza pacifica in una realtà esteriore» e la presa di coscienza che il mondo dovrà essere «oramai inteso come pura apparizione e non affermazione, nella realtà, di tutte le cose»224.

Per altri versi, è abbastanza evidente come l’uso che Risset fa dei caratteri tipografici possieda una spiccata ascendenza mallarmeana. Non solo la componente visiva riveste, in Poésie et Prose, un’importanza capitale, ma l’uso del maiuscolo – di cui si è già

220 M. Landi, Una cattiva infinità. Parentesi e parabasi nella modernità francese in A. Dolfi (a cura di)

Non finito, opera interrotta e modernità, Firenze, FUP, 2015, p. 57.

221 S. Agosti Il testo degli istanti. Nota sulla poesia di Jacqueline Risset, in M. Galletti (a cura di)

Jacqueline Risset. «Une certaine joie», cit., p. 57.

222 In tedesco, Einklammerung.

223 Cfr. P. Sollers, Nombres¸ Paris, Seuil, 1966 e J. Derrida, La Dissémination, Paris, Seuil, 1972, p.

341.

riportato qualche esempio – sembra richiamare da vicino quello del Coup de dés, soprattutto per i rapporti gerarchici che esso istituisce tra le varie componenti del tessuto poetico. Oltre al già menzionato raccourci che mette sullo stesso piano «femme» e «autre», vale la pena di citare un altro esempio particolarmente emblematico:

non se mouvant avec application

RIGUEUR

aveuglement

le long d’un mur à carreaux bleus

PUISSANCE 225

In questo caso, non solo le gerarchie tra le parole sono evidentissime ma la distinzione dei sostantivi mediante il ricorso a diversi caratteri tipografici permette di ipotizzare una certa chiave di lettura della sequenza. Mentre «puissance» e «rigueur» sono accomunati dal maiuscolo, risultando, in effetti, associati su base semantica, «fourmi» e «substantif» sono entrambi posti all’interno di un riquadro e sembrano essere legati da quella che può essere definita come una relazione logico-grammaticale poiché, effettivamente, «fourmi»

è un «substantif». Ad ogni modo, a prescindere dalla natura della relazione che lega questi

nomi, è chiaro come sia proprio il carattere tipografico scelto a costituirsi come discriminante. Appare legittimo affermare che la lezione mallarmeana, seppur presente, viene qui radicalizzata da Risset attraverso l’esplicitazione di alcuni processi di scrittura, come del resto ci si proponeva di fare a Tel Quel: in tal senso vanno forse lette le due frecce presenti nella sequenza le quali, a differenza della freccia a carattere biunivoco incontrata precedentemente, sembrano puntare verso un altrove indefinito, coincidente con lo spazio vuoto della pagina. Questa esplicitazione grafica, ovvero concreta, della relazione sembra porsi come una sorta di tracciato psichico e, al tempo stesso, come

225 J. Risset, Poésie et Prose, cit., p. 38.

FOURMI

un’algebrizzazione delle relazioni stesse, attraversate dal materialismo. Peraltro, quali strumenti puramente didascalici, le frecce potrebbero avere la funzione ironica di mettere in discussione, ostentando un altrove bianco (vuoto), la banalizzazione schematica del senso e l'univocità del rapporto segno-referente caratteristica della scrittura tradizionale.

Significativamente, il passaggio tra la parte in versi e quella in prosa non è segnalato da elementi di rilievo se non, come è tipico della scrittura di Risset, da un grande spazio bianco. Sul piano strettamente tematico, le due parti non sembrano particolarmente legate, se non, forse, per una sottile insistenza sul campo semantico della vegetazione e su quello della luce.

Quel che emerge con chiarezza, invece, è un primo accenno a quella tendenza anti- mimetica propria della poesia di Risset, tendenza che si traduce in un’evocazione della realtà talmente filtrata dalla percezione di chi osserva da risultare quasi irriconoscibile. In questo senso, le stanze possono essere «tremblantes», la terrazza «violente», la voce può disfarsi in «morceaux, vers la gauche»226. Persino i confini tra uomo e natura sono sfumati, come se nessuno dei personaggi evocati potesse essere distinto in maniera precisa, «s’échangeant entre eux avec des mouvements de nuage»227. E non è solo la presenza umana a risultare confusa, ogni informazione che questa piccola sequenza in prosa cerca di consegnare al lettore appare come un échec, peraltro per nulla camuffato:

Les plus fréquents sont un jeune homme sans caractéristiques précises […] et un chien pâle, agité. Ils ont entre eux un rapport qu’il faudrait déjà savoir […] Mais tant que ceci n’est pas résolu, on ne peut savoir s’ils sont ce qu’on veut. Sous cette forme ou une autre, qui se montrera plus tard.228

È l’evocazione stessa di un tempo altro («plus tard») che spinge il testo verso una dimensione diversa da quella della pagina scritta, con il risultato di rinviare a qualcosa che ancora dovrà essere scritto o che, forse, non lo sarà mai. Al modello semiotico della «fuga degli interpretanti» di stampo peirciano si sovrappone la traccia derridiana che qui entra prepotentemente in gioco mostrando quel lavoro che, solitamente, si cela dietro al volume finito.

Per molti versi classificabile come un testo “embrionale” – di cui Jeu riprenderà, per accentuarli, alcuni tratti – Poésie et Prose presenta anche un’importante riflessione sulla

226 J. Risset, Poésie et Prose, cit., p. 41. 227 Ibid.

componente identitaria che si traduce nell’insistenza sul pronome di prima persona, altrimenti del tutto assente nelle produzioni di questo periodo:

Des planches de travers dans le grenier presque sombre laissent voir un miroir appuyé, oblique.

Ma forme s’approche. Moi, immergé dans le monde avec cette forme, ce nom. Le monde toujours vu de cet angle.

Mais me voyant le voyant se recule, vu à son tour par un troisième, où se recule un autre regard

Le vertige tourne Maintenant je suis tout le reste du monde qui voit ce moi et puis cette forme reprend ses yeux son angle je ne suis que là

pour toujours descendue dans le monde en cet endroit voyant les choses par ces trous par l’intermédiaire de ce nom, où l’on m’a fait mettre

– mais le sachant –

les planches maintenant renvoient cette connaissance, le miroir presque vide229

Citare questo passo integralmente appare fondamentale per comprendere l’inizio di quello smembramento dell’Io che caratterizzerà Jeu. Qui il soggetto è espresso, persino reiterato. E, tuttavia, come si osserverà meglio nelle raccolte successive, esso appare lontano dal rappresentare un’entità definita, con dei connotati specifici. Viceversa, per riprendere l’espressione barthesiana, questo je «n’est qu’un effet de langage»230. Già ad un primo livello di analisi grammaticale del testo infatti, là dove ci si aspetterebbe l’accordo del participio passato che esprime il femminile («Moi, immergé»), a essere presente è invece il maschile, ovvero il neutro. Si registra allora una sospensione delle funzioni grammaticali, un isolamento del segno che appare così reificato, defunzionalizzato. Appena qualche riga dopo, la normale struttura morfo-sintattica appare di colpo ripristinata («descendue»).

Questa ibridazione tra il sé e l’Altro viene poi ampiamente accentuata se si procede ad un’analisi semantica di questa sequenza secondo una prospettiva lacaniana. Il fatto stesso che il soggetto venga colto nel momento in cui osserva la propria immagine non è privo di implicazioni: in primo luogo, il confronto con lo specchio mette in scena uno sdoppiamento tra l’Io e il suo riflesso, sdoppiamento che genera così un’interrogazione dialettica che investe il soggetto. Nel caso di Risset, la dialettica dell’«un se divise en deux» appare piuttosto problematica, e a tratti persino conflittuale, come se vi fosse un rifiuto della possibilità di riconoscersi nel riflesso dello specchio. Curiosamente, però,

229 Ivi, p. 42.

non è l’immagine riflessa a essere messa in discussione, bensì l’Io reale, quello in carne ed ossa («Mais me voyant le voyant se recule, vu à son tour par un troisième, où se recule un autre regard») attraverso un processo di vertiginosa replicazione che riguarda l’essere reale e non l’essere riflesso. Che vi sia un rovesciamento rispetto al normale processo di confronto con lo specchio è ulteriormente dimostrato dall’evocazione del nome come «intermediaire». Anche in questo caso, siamo in presenza di una messa in discussione dell’identità che passa attraverso l’indagine condotta sul patronimico, che è il segno per eccellenza dell’uscita dalla fase del presimbolico e dell’entrata nel simbolico, ossia in quel «regno dei padri»231 e della sfera sociale in cui è previsto che ad ogni cosa sia associato un nome. Un’entrata, questa, che secondo Lacan coincide proprio con il momento in cui il bambino, guardandosi allo specchio, vi si riconosce per la prima volta, cessando così di considerare il proprio riflesso come estraneo e prendendo possesso della propria identità. La sfera del simbolico appare quella in cui l’Io viene rovesciato («descendue dans le monde)» e, conseguentemente, osservato («Maintenant je suis tout le reste du monde qui voit ce moi») in una continua dialettica con l’Altro senza la quale non sarebbe possibile alcuna formazione identitaria.

Non è un caso che Poésie e Prose, questo primo testo pubblicato e mai più ripreso, si chiuda proprio con l’affermazione di una nuova «connaissance»: l’occasione è matura per una sperimentazione che, pur risultando meno radicale in apparenza (le frecce e i riquadri spariranno per sempre, così come pure le parentesi quadre), si rivelerà però più sistematica e capillare.