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Coordina:

Valerio Fiorespino

Istat

Interventi:

Maurizio Franzini

Sapienza, Università di Roma

Ruben Razzante

Sessione plenaria

Big Data: tra etica e mercato

Di Big data abbiamo parlato ieri, ne parleremo oggi, ne parliamo sempre, naturalmen- te con diverse chiavi di lettura, prendendo la cosa da diversi punti di vista. L’angolo visuale di oggi, lo vedete dal titolo, è credo piuttosto impegnativo: big data tra etica e mercato. Ne parliamo con il professor Maurizio Franzini, ordinario di politica eco- nomica alla Sapienza, dove è anche direttore della scuola di dottorato in economia, direttore del Centro ricerca Tarantelli, della rivista Menabò di etica ed economia (che ci sta proprio bene, professore), membro del Consiglio dell’Istat e autore di oltre 200 pubblicazioni, che ho deciso di non elencare.

Poi abbiamo il professor Ruben Razzante, docente di diritto dell’informazione alla Cattolica di Milano, alla Lumsa di Roma e all’Università Pontificia della Santa Croce. Giornalista professionista, editorialista di molti giornali, autore da ultimo di un libro molto interessante dal titolo L’informazione che vorrei, che raccoglie testimonianze di molti operatori dell’informazione.

Etica. Il tema dell’etica deve stare molto a cuore a chi lavora nella pubblica ammi- nistrazione, a chi offre un servizio al pubblico, perché questo ci dà nel nostro agire una responsabilità diversa, superiore a quella di chi opera nel mercato. E tuttavia le vicende di quest’inverno di Facebook ci dicono anche che il tema dell’agire etico non può essere estraneo a chi opera sul mercato.

Dall’altra parte c’è dunque il mercato, che ha a che vedere con il valore dei dati, per quello che interessa a noi oggi; valore dei dati che per noi è il valore che il dato ha nei confronti dei decisori politici, per consentire loro scelte corrette, consapevoli. Il valore che ha nei confronti degli operatori dell’informazione, per dare informazioni corrette, puntuali, adeguate. Il valore che il dato ha verso i cittadini, per consentire loro di vi- vere la loro comunità in modo più consapevole. Però c’è anche un valore economico, un valore puramente economico.

Quello che è chiaro, che credo sia un fatto acclarato, è che tanti dati, molti dati di per sé non consentono un’informazione migliore, più adeguata, anzi! C’era un bellissimo passaggio ieri nella relazione introduttiva del Presidente dove si parlava di fatica dei fatti, di disorientamento in assenza di una guida nell’interpretazione attuale dei dati; e forse anche, chissà, di un alibi, per il fatto che avere tanti dati magari può essere una giustificazione a certi comportamenti. Parlava di orgoglio dell’ignoranza, altro pas- saggio secondo me assolutamente qualificante e molto interessante, molto puntuale. Vorrei partire per fare la prima domanda ai partecipanti a questo incontro da un epi- sodio successo la scorsa settimana, abbastanza divertente però secondo me abbastan- za indicativo, che avrete letto sicuramente sui giornali, perché ha avuto abbastanza risalto. Un gruppo di zuzzurelloni che gestisce un blog ha postato poche righe di un inesistente Tarim Bu Aziz, il quale diceva che per favorire l’integrazione dei popoli era necessario adottare i numeri arabi in Europa. Apriti cielo! È successo di tutto! Incu- ranti del fatto che usiamo da secoli e secoli i numeri arabi, hanno detto peste e corna. Allora, questo è un episodio tutto sommato divertente, che però ci propone anche una serie di domande. Il professor Razzante nel suo libro fa un discorso che io condivido

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molto: ormai è facile mettere in rete qualsiasi cosa, ma è anche facile verificarne la veridicità. Abbiamo mille strumenti, più di quanti ne abbiamo mai avuti, per verificare se quel che c’è scritto e quel che leggiamo sia vero o meno, eppure spesso questo non avviene. In un caso come questo non avviene.

Io chiedo perché. Forse perché, in le persone nei dati non cercano la verità, ma cercano conferme a quel che pensano? Forse, semplicemente per una carenza culturale, però allarmante? Come si fa a indurre, a educare a comportamenti corretti e più virtuosi? Cominciamo dal professor Razzante.

Innanzitutto benvenuti a tutti voi. Sono contento di affrontare questo tema anche alla luce della recente pubblicazione che ho fatto, perché ogni giorno ci sono spunti di questo tipo. Vado subito alla risposta perché poi è quello che conta. Io credo che bisogna far sì che la rete diventi un luogo più sicuro, nel quale la gente sta volentie- ri anche per approvvigionarsi di informazioni, ma non solo per questo. Quello che accade nella società dell’informazione è cosa diversa da ciò che accade nella società della conversazione, cioè quella tipica dei social dove le persone, più che cercare in- formazioni attendibili, verificabili, cercano conferma dei propri punti di vista, o addi- rittura usano questo spazio virtuale come sfogatoio delle proprie pulsioni individuali e anche per manifestare un pensiero che in altri luoghi non sarebbe loro consentito di manifestare.

Dobbiamo cercare di discernere un po’ e soprattutto di fare un’opportuna valutazione dei singoli luoghi della rete. Un conto è un sito on line, un’altra cosa un blog, un’altra ancora una pagina social. Ci sono differenti sfumature e differenti gradi di attendibilità. Quello che io provo a dire nell’ultima pubblicazione è che gli strumenti del diritto dell’informazione devono essere utilizzati tutti in modo armonioso per raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi. Certamente un quadro iper regolamentato non ser- virebbe, così come è preoccupante un quadro completamente deregolamentato. La legislazione certamente deve normare ciò che si può normare senza pretendere di estendere le vecchie categorie del diritto anche a un mondo virtuale, che presenta caratteristiche ontologiche profondamente diverse; però un po’ di legislazione ci vuole. Poi ci sono state delle illuminanti sentenze, testimonianze giurisprudenziali che han- no fissato dei paletti molto chiari, in termini di tutela dei diritti in rete: a proposito di tutela dell’onore, della reputazione, della privacy, del diritto d’autore. Quindi il se- condo strumento del diritto dell’informazione, che è la giurisprudenza, ha funziona- to; ci sono state delle illuminanti sentenze sia a livello nazionale che internazionale, l’ultima della Corte europea dei diritti dell’uomo della settimana scorsa per esempio sull’equilibrio tra oblio e censura in rete, tanto per citare un esempio.

Poi c’è il terzo strumento a cui lei faceva cenno prima, che è quello dell’autoregola- mentazione, dell’autodisciplina, dei codici etici e deontologici. Io credo che bisogna dare un po’ di fiducia a questi colossi della rete che investono tanti soldi in innova- zione tecnologica e che sono semplici piattaforme trasmissive, nel senso che rifiutano di accollarsi anche il ruolo giuridico di produttori di informazione e dunque di con- trollori della veridicità di ciò che viaggia sulle loro piattaforme. Però stanno facendo passi importanti dal punto di vista dell’autoregolamentazione, con delle policy costan- temente aggiornate (penso ai social), con dei codici di autoregolamentazione, con l’impegno dei colossi della rete e del principale motore di ricerca a sedersi attorno a un tavolo con gli editori e i produttori di informazioni, per valorizzare gli esempi virtuosi di informazione di qualità. Anche il terzo strumento, i codici di autoregolamentazio-

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ne, può quindi dare un apporto decisivo allo sforzo di evitare che si verifichino casi di questo tipo.

L’ultimo strumento è quello della dottrina che però io lego, in questo ambito particola- re, anche all’educazione digitale, cioè quello che lei diceva: è impossibile che non ci si renda conto del fatto che siamo di fronte a una bufala marchiana. Per questo occorre anche un po’ di educazione digitale e fare in modo che le persone navighino in modo intelligente, non random. Ovvero che quando cercano determinate informazioni an- che in sostituzione dei media tradizionali, abbiano dei punti di riferimento. Questo può darlo l’educazione digitale fin dalle scuole dell’obbligo, o anche dei percorsi for- mativi periodici a tutti i livelli, anche a livello di singole categorie professionali. Io credo che la rete non debba fare paura, è un grande strumento di approvvigio- namento di informazioni ed è anche un grande strumento attraverso il quale noi compiamo un sacco di operazioni che nella vita reale non potremmo compiere. È un grande strumento che ha consentito di risolvere tanti problemi, di affrontare tante emergenze ambientali, mondiali eccetera.

Io sono un sostenitore della rete, con tutte le criticità che certamente vanno combattu- te ed entro certi limiti bisogna cercare anche di governarle. Ritengo che con lo sforzo di tutti, con l’impegno di tutti si possa migliorare la qualità dell’informazione in rete ed evitare che casi del genere si verifichino in modo virale, come è successo in questo caso.

Grazie. Anch’io penso che tutto sommato i colossi della rete meritino fiducia, anche se mi chiedo se i passi avanti che lei citava sarebbero stati compiuti ugualmente se non si fossero trovati in mezzo alla bufera in cui si sono trovati. Che poi, alla fine, che cosa li guida? Se è sempre il profitto, se è sempre la possibilità di mantenere le quote di mercato, la fiducia un po’ condizionata deve essere. Perché poi comunque il risultato è comunque positivo, è un progresso, ma sempre dettato da ragioni in qualche modo legate alla propria sopravvivenza, alla sopravvivenza della propria fetta di mercato e all’ampliamento della stessa fetta di mercato.

Per carità, è tutto legittimo, però su un piano che con l’etica ha a che vedere in ma- niera un po’ lontana.

Se posso fare una chiosa su quello che lei diceva, certamente i nostri dati sono il loro petrolio, loro incamerano profitti grazie ai nostri dati ed è illusorio pensare che i ser- vizi che ci danno siano gratuiti, perché i nostri dati valgono molto di più per loro dei servizi che ci danno.

Però c’è anche da dire questo: per oltre 10 o 15 anni – parlo dell’Italia ma in altri Stati anche più anni – questi colossi della rete hanno cavalcato l’onda impetuosa dell’e- conomia digitale senza avere praticamente ostacoli giuridici di nessun tipo. Hanno avuto ampie praterie di crescita per il loro business ed è chiaro che a un certo punto è arrivato il redde rationem e ci si è resi conto che forse era giusto farli contribuire anche alla filiera di produzione e distribuzione dei contenuti.

Si sta arrivando perciò a forme definite di corresponsabilità, quindi sono d’accordo con lei che all’inizio c’è stata un’anarchia sostanziale dal punto di vista del regime giuridico di questi colossi. Oggi c’è una matura consapevolezza, sia da parte dei legi- slatori sia da parte dei colossi stessi, circa la necessità che, in una filiera di produzione di contenuti, tutti devono contribuire a vario titolo a questa produzione di contenuti.

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Professor Franzini, lei che ne dice, li abbiamo fatti questi passi avanti? Cerchiamo conferme a quel che pensiamo? Cerchiamo la verità?

Io sono un po’ più pessimista, per la verità; ho qualche perplessità in più. Partirei da qui: una cosa che non dobbiamo mai dimenticare è che quello che succede dipende dalle motivazioni che hanno coloro che le fanno succedere. Le motivazioni sono de- cisive perché alcune potenzialità positive si realizzino. Come tutti sappiamo, la tec- nologia consente di fare molte cose, però se chi la controlla ha la possibilità di trarne un profitto personale straordinario, la tecnologia non verrà utilizzata per realizzare il bene comune. La mia impressione è che oggi le motivazioni che sono dietro i compor- tamenti di coloro che governano la rete siano fortemente orientate a un arricchimento personale stratosferico, che è abbastanza poco etico anche considerando le conseguen- ze che ne derivano. Quando sento la notizia sui numeri arabi mi chiedo: ma che mo- tivazioni aveva chi l’ha messa in giro? È un burlone che voleva farsi solo due risate? O da tutto questo ha tratto profitto, perché qualche migliaio di persone visitando il suo sito lo ha arricchito indirettamente con i proventi della pubblicità?

Naturalmente la possibilità di comportarsi seguendo le motivazioni meno etiche di- pende dalle regole del gioco, che possono consentire o non consentire comportamenti ispirati a quelle motivazioni. Faccio un esempio per chiarire cosa intendo. Mi riferi- sco agli scandali finanziari, rispetto ai quali si pone un problema analogo a quello dell’educazione digitale, di cui si è parlato prima. Si è detto che i risparmiatori sono nei citrulli che perciò bisogna educarli alla finanza, istruirli sulle caratteristiche e le insidie dei vari strumenti finanziari.

Questo è giusto, ma se il risparmiatore ha di fronte a sé qualcuno che ha lo scopo persistente di ingannarlo perché questo gli consente di fare profitti, quel risparmia- tore difficilmente potrà difendersi: potrà anche essere educato, nel migliore dei casi, ai ‘vecchi’ strumenti finanziari ma non ai nuovi, che l’obiettivo del profitto, ottenuto anche con l’inganno, porta continuamente a realizzare. Quello che voglio dire è che far ricadere tutta la responsabilità sugli individui, che certamente in parte la hanno, è errato. A questo proposito mi viene in mente una frase che ho sentito un po’ di tempo fa: “Dalle mie parti si usa dire questo: prima di parlare taci”. Come dire che prima di reagire alla storia dei numeri arabi dovresti prenderti un attimo per riflettere. Mi sem- bra che questa pratica non sia molto diffusa ma, d’altro canto, non possiamo ritenere che tutto sarebbe risolto se lo fosse. Le strade dell’inganno sono infinite.

Gli economisti sanno che si è sempre stato detto che i mercati sono un’istituzione me- ravigliosa proprio perché non pretendono troppo dal consumatore; le regole del gioco – ed in particolare la concorrenza – fanno sì che il mercato gli consenta di ottenere, comunque, i migliori risultati. La regola della (vera) concorrenza è cruciale perché non dovrebbe consentire a nessun produttore di ottenere benefici ai danni dei consu- matori. È chiaro che questa è una sorta di utopia, però non dobbiamo dimenticare che dalle regole del gioco dipende come i guadagni e le perdite si distribuiscono tra i vari soggetti, chi risulta vincente o perdente e per quale motivo. Io ho l’impressione che oggi le regole siano tali da permettere arricchimenti ben poco meritocratici costruiti su un poco tollerabile squilibrio di potere.

Riprendendo il tema delle motivazioni direi che oggi vengono premiate motivazioni fortemente egoistiche, come sono quelle che portano a far circolare consapevolmente fake news o ad appropriarsi di dati personali e a sfruttarli economicamente. Sareb- be ben diverso se queste motivazioni non venissero premiate ed invece lo fossero, ad

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esempio, quelle che portano a utilizzare i big data per mettere tutti in condizione di conoscere meglio come funziona il sistema economico o quello sociale.

Credo che per capire quello che accade (ed anche quanto di diverso e di migliore potrebbe accadere) sia importante guardare alle motivazioni individuali e alle regole del gioco. Dalla loro interazione dipendono quasi tutti i fenomeni economici e sociali ai quali siamo di fronte. Inclusi quelli relativi all’appropriazione e all’utilizzo dei dati personali.

Sicuramente le motivazioni sono decisive, questo è del tutto condivisibile, come è con- divisibile il fatto che tante volte occorrerebbe tacere. Io mi accontenterei se si adottasse la tattica quantomeno di contare fino a dieci, già sarebbe un passo avanti.

In numeri romani però!

Il tema delle regole è già emerso. Io però vorrei tornarci un attimo sopra, perché dove c’è potere, dove c’è valore occorre una regolamentazione. Il punto è: fino a che punto la regolamentazione ci serve e ci basta, fino a che punto è sufficiente?

Vorrei citare un’espressione che è stata utilizzata in un suo recente scritto dal professor Franzini, secondo me molto centrata, quando dice che noi sostanzialmente diamo informazioni gratis in cambio dell’accesso alla rete: il baratto forzato. La sensazione è che la consapevolezza di chi fa questo scambio da una parte non ci sia e dall’al- tra invece sia molta, dato che il controvalore che si riceve sia di enorme importanza. Qualcuno mi raccontava l’altro giorno che il vero business delle biciclette di Roma che adesso si vedono da tutte le parti non è il fatto del guadagno, ma il fatto di poter tracciare i percorsi, dedurre una serie di conseguenze e da questo prendere decisioni. Quindi effettivamente esiste questo tema del baratto forzato.

Entriamo un po’ più forse nello specifico: bastano norme ad hoc? E poi la domanda: se un prodotto o un servizio è gratuito e i ragionamenti che ci siamo fatti sono giusti, è vero che il prodotto sei tu? E può essere sufficiente un compendio di norme, di regole? Ecco, questo è l’interrogativo.

Questo è un tema sconfinato. Io parto dal seguente presupposto: i dati, come giusta- mente diceva prima il professor Razzante, sono petrolio. Una bella copertina dell’E-

conomist titolava “il petrolio dei nostri tempi”. Solo che, diversamente dal petrolio, i

dati sono gratuiti. Il petrolio consentiva rendite ai possessori e veniva pagato. I dati invece sono completamente gratuiti. Si fa finta che ci sia uno scambio ‘volontario’, perché io ti dò l’accesso gratuito alla rete e tu mi cedi i tuoi dati, ma si tratta di uno scambio inconsapevole in cui non vi è modo di confrontare il valore di ciò che si scam- bia. Uno scambio apparente in cui la quantità appropriata (di dati) non è oggetto di una decisione informata da parte di chi li offre, basata anche sul prezzo che si potrà ottenere. Assumere che si tratti di un vero scambio perché si è ‘liberi’ di rinunciare alla connessione è, chiaramente, un’aberrazione. Gli scambi di mercato hanno ben altre caratteristiche.

Io penso che, a questo proposito, bisogna essere coraggiosi e un po’ radicali, comin- ciando a prendere seriamente, come qualcuno sostiene, l’idea di creare un vero mer-

Valerio Fiorespino Maurizio Franzini Valerio Fiorespino Maurizio Franzini

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cato dei dati. Può apparire un po’ paradossale, però secondo me è opportuno e neces- sario pensarci. Il dato è un elemento, un’unità elementare che viene in qualche modo ceduta, più o meno consapevolmente, da qualcuno che la produce e qualcun altro che la utilizza. Dunque, esiste una domanda e un’offerta di dati, come avviene in ogni normale mercato e dove il prezzo è decisivo per rendere coerenti domanda e offerta. Bisogna, però, partire dalla considerazione che un mercato per funzionare ha bisogno almeno di due condizioni: la prima è riconoscere di chi è la proprietà di ciò che viene scambiato. Non credo si possa dubitare che il dato è di proprietà di chi lo “produce” e non di chi se ne appropria e lo utilizza. Assegnare la proprietà agli utilizzatori equi- varrebbe ad affermare il principio che il produttore deve pagare l’utilizzatore se vuole che quest’ultimo non utilizzi il suo dato. È evidente che l’unica soluzione ragionevole è quella che impone all’utilizzatore di pagare per ottenere il dato, e pagare quanto rende conveniente a chi produce il dato di cederglielo.

La seconda condizione è l’enforcement, cioè la relativa certezza che una volta venduto il dato sia, da un lato, utilizzato esclusivamente per lo scopo per il quale è stato vendu- to e, dall’altro, non sia oggetto di una doppia o tripla vendita anche ad altri soggetti. In altri termini l’enforcement richiede che siano rispettate le normali regole contrattuali. Sulla strada del riconoscimento che il dato è di proprietà di chi lo produce, di recente sono stati fatti alcuni passi avanti. Per esempio in California c’è una proposta di legge