• Non ci sono risultati.

50 anni di mestiere.

Analizzando l’Italia dappertutto e rasoterra

Giuseppe De Rita

Presidente Censis

Sessione plenaria

L’incontro con… Giuseppe De Rita

Credo sia difficile presentarmi, ma voglio dire una cosa, che quest’anno a dicembre compio 63 anni di carriera (sono entrato in Svimez il 1° dicembre del ’55), quindi sono sostanzialmente un anziano e di conseguenza ho tutti i difetti degli anziani che ricordano con nostalgia le cose passate.

Ricordo benissimo il giorno in cui ho iniziato a lavorare: il Direttore generale della Svimez era Alessandro Molinari, che era stato per 15 anni Direttore dell’Istat. Nel ’45, con la nuova stagione politica, fu il primo ad essere epurato, non perché fosse socia- lista ma in quanto Presidente dell’Istat. Quindi fu assunto come Direttore generale da Saraceno, che aveva il gusto di andarsi a cercare quelli che si trovavano in difficoltà economica e politica.

Molinari quindi è stato il primo con cui ho lavorato. Per il centenario dell’Istat doveva- mo realizzare un grande volume: così ci mettemmo tutti ventre a terra a fare tabelle. Io cominciai il mestiere facendo tabelle per il libro sui 100 anni della statistica italiana. Molinari aveva anche il gusto del piccolo studio statistico. I miei primi testi furono per il notiziario Svimez: il primo fu sugli incidenti stradali, il secondo sull’infortunistica sul lavoro.

Tuttavia i due uomini forti della Svimez erano Saraceno e Sebregondi: Saraceno faceva piani pluriennali, Sebregondi faceva sviluppo internazionale e sviluppo del territorio. Mi ritrovai quindi a dover fare due mestieri diversi. Con Saraceno scrissi i capitoli di Piano Vanoni, di Rapporto Saraceno, di Piano Giolitti, e diventai un esper- to di sociale, in particolare di scuola. Tutti i capitoli dei Piani – istruzione, cultura – li scrissi io e questo mi servì quando nel ’63 lasciammo la Svimez. L’eredità che mi portai appresso era un lavoro con il Ministero della Pubblica istruzione che ci fornì i primi contratti.

Più divertente è stata l’esperienza con Sebregondi, per la sua concezione che il sociale fosse più importante dell’economico. A quell’epoca si facevano soltanto testi econo- mici, mentre secondo lui bisognava affermare il valore del sociale. Mi disse che nel corso della vita ci dovevamo dare tre obiettivi: fare una relazione annuale sociale che compensasse o integrasse la relazione economica generale (che a quell’epoca veniva presentata a marzo dal Ministero del Tesoro), creare un istituto speciale per i problemi del sociale, istituire un ministro degli Affari sociali.

Devo dire che detto nel 1955-56 tutto ciò sembrava una follia, invece alla fine ce l’ab- biamo fatta.

Che cosa è rimasto di quel periodo? È rimasta l’attenzione alla realtà sociale fuori dagli schemi economici, una tensione a capire il sociale, e capire il sociale era capire il territorio. Cominciai a girare l’Italia: nel ’57-’58 girai il Mezzogiorno e capii che l’Italia stava nella realtà territoriale, non nelle statistiche di Molinari. Anche Molinari cominciò a girare l’Italia, in particolare le aree industriali, però la ricerca sociale la facemmo io e il gruppo che si era formato attorno a me.

Questa capacità di andare sul territorio a capire ci ha fornito una notevole capacità di sviluppo. Nel ’63 Saraceno licenziò tutti noi, i quattordici ragazzi della sezione socio-

Giuseppe De Rita

sessione plenaria

66

logica. Dopo esserci consultati pensammo di restare insieme e tentare l’avventura. Così andai da Saraceno e gli dissi: “Noi abbiamo contratti per venti-venticinque milioni, se lei ce li cede possiamo tentare di metterci in proprio, ci calmieriamo gli stipendi, e con sessanta milioni ce la facciamo”. Saraceno mi disse: “Va bene, vi dò trenta milioni di contratti. Anzi, se vi prendete anche una segretaria e un usciere ve ne do trentacinque”. Io accettai, e così, con questo baratto, cominciò il Censis.

Dove crebbe il Censis? Nel momento della difficoltà, della crisi. Crebbe sulla dimen- sione saraceniana dei Piani, della scuola in particolare. Continuammo a studiare e continuammo a lavorare con il Ministero del Bilancio fino a fine anni ’60 e andavamo in giro per trovare contratti sul territorio. Cominciammo con un contratto con il porto di Brindisi per duecentocinquantamila lire.

Così è nato il tipo di approccio del Censis, che è rimasto sempre quello e che ci ha dato il senso di quella che è la società italiana. Andare in giro per l’Italia è servito a capire che lo sviluppo italiano non era al centro, non era nel programma, non era nel Piano, non era nella Cassa del Mezzogiorno, non era nel volume dei soldi che arrivavano dalla Banca mondiale. Lo sviluppo italiano, come ho scritto poi nel rapporto di sintesi dei miei cinquant’anni di Rapporto Censis, era “dappertutto e rasoterra”. Andammo dappertutto e capimmo l’Italia.

Era difficile spiegare alla gente che l’Italia stava crescendo a Prato, a Sassuolo, a Mon- tebelluna, a Valenza Po, a Fermo, a Casarano, ma era lì che l’Italia stava nascendo, nella piccola impresa, e in particolare nell’impresa sommersa, che era tipica di questa Italia. Nessuno lo capiva nel 1967, perché mentre noi facevamo già le prime ricerche a Prato, la cultura economica italiana era centralizzata, faceva le fusioni d’impresa. Nel ’67, la fusione Montecatini-Edison fu il più grande fallimento della storia italiana. Nessuno capiva che quella cosa lì non andava, mentre andava molto di più lo sviluppo del territorio.

Questo ci ha dato grande forza perché ha garantito due categorie di analisi: l’econo- mia sommersa e il localismo, che ci hanno accompagnato e sono state confermate in tutti gli anni ’70.

L’economia sommersa ha alimentato una serie di polemiche, di discussioni spavento- se. Dire nel 1971 – il Rapporto Censis che ne parlava, codificandola, era di quell’anno – che c’era un’occupazione non istituzionale chiamata economia sommersa aveva creato un po’ di problemi. Economia non istituzionale, economia nera, economia diffusa: fu la dottoressa Ipsevich, allora Direttore dell’Isco, in una riunione al Cnel, a dire: “Ma perché cercate una definizione complicata? Chiamatela economia som- mersa”. Io ho sempre detto che se mi avessero dato un premio per aver inventato l’economia sommersa sarei stato soddisfatto, invece tutto il mondo parla di economia sommersa ma non sa che è nata lì.

È stata una cosa terrificante parlare di economia sommersa. Se penso a Prato nel ’69- ’70 significava aziende che non esistevano, scantinati di case trasformati in aziende, contributi previdenziali non pagati, tasse non pagate, doppi lavori. Gli autisti di pul- lman di Prato andavano a Livorno a prendere vagonate di stracci, li portavano a Prato e cominciavano a rigenerarli.

Noi facemmo la prima stima dicendo che c’era un’economia sommersa in Italia che aveva quattro milioni e mezzo non di occupati ma di spezzoni di lavoro. L’uscita di questa stima provocò una grave crisi con l’Istat. L’allora Presidente, il professor De Meo, fece un comunicato ufficiale dicendo che una manica di giovani mascalzoncelli avevano osato dire che c’erano quattro milioni e mezzo di nuovi occupati, ma che non era vero. Vai tu a spiegare che erano spezzoni, è quello che oggi si chiamerebbe preca-

sessione plenaria

riato diffuso. La polemica con l’Istat continuò a lungo perché l’idea che ci fosse nella realtà del Paese una dimensione di economia non registrata, non codificata, allo stato brado, faceva pensare che ci fosse anche un reddito superiore al normale. La nostra stima era di un 27% in più di reddito. Questo naturalmente scatenò ulteriori reazioni dell’Istat, che si chiedeva come ci permettessimo di discutere i metodi che l’Istat aveva garantito per tanto tempo. Noi rimanemmo sulle nostre posizioni e negli anni ’70 si cominciò a pensare, col governo Moro/La Malfa, di mettere nel Pil un po’ di economia sommersa, ma La Malfa era contrario. La questione si risolse solo negli anni ’80, con Craxi, che per entrare nel G7, aveva bisogno di un Pil più alto.

Tutto quello che è stato fatto poi dai diversi Ministri del lavoro, da Salvi fino a Treu, è stato garantire un minimo di regolazione del mercato del lavoro spezzonato. Se Di Maio dichiara che non accetterà mai che si difenda il precariato, io dico che non accetterò mai che si pensi che il mercato del lavoro sia un mercato del lavoro unico, stabile, sistematico.

In fondo, ragionare di economia sommersa, ragionare di 50-60 distretti industriali – adesso sono 110, io non me li sono fatti tutti ma almeno la metà me li sono visti di persona – significava che c’era una potenza. Negli anni duri del ’74-’75, quando il governatore della Banca d’Italia chiedeva di non fare arrivare le navi a Napoli perché non c’erano i soldi per pagare il petrolio, l’avanzo attivo della bilancia dei pagamenti di Prato e Sassuolo – due localismi – compensava il disavanzo negativo di tutti gli altri settori industriali italiani. C’era potenza vera!

La potenza vera non era soltanto nell’aggregato statistico – quanti spezzoni di lavoro in più, quanti lavoratori in più, quanto Pil in più, quanto bilanciamento dei deficit commerciali – era nel fatto che c’erano milioni di persone che lavoravano in queste realtà e ci lavoravano con una spinta, una grinta, una determinazione incredibili. Rifaccio l’esempio di Prato perché è stata la mia prima esperienza (nel ‘69-’70) di re- altà territoriale viva. I pratesi erano dei draghi! Intere famiglie che mettevano il telaio in cantina e lo ricaricavano ogni ora, mettendo la sveglia all’altro componente della famiglia perché si svegliasse e lo ricaricasse. Una capacità di fare di tutta la comunità. Ricordo quando mi dissero: “Siamo orgogliosi di quello che stiamo facendo, siamo stracciaroli, però ci compriamo la statua di Moore che i fiorentini non hanno voluto pagare”. Si sono comprati Moore e l’hanno messo in piazza San Marco a Prato. Tanto per dirvi dell’orgoglio di questa popolazione minuta.

Negli anni ’73-’74, quando io ho cominciato a partecipare al Cernobbio di Ambrosetti, ogni volta che arrivavo, Modigliani e Agnelli mi dicevano: “Arriva l’amico degli strac- ciaroli pratesi!”. Io avevo voglia di dirgli: ma voi avete fatto la fusione Montecatini- Edison! Voi avete tentato la grande impresa e non ce l’avete fatta!

Quello che era importante era la carica della dimensione soggettiva. Dappertutto, do- vunque andavi, anche a Casarano che è la punta estrema dell’Italia, trovavi la dimen- sione di fare, una capacità di fare anche cultura settoriale: del cuoio a Santa Croce all’Arno, delle scarpe da montagna a Montebelluna, dei gioielli a Valenza Po. Erano padroni del mondo, padroni di tutti i processi esportativi e in qualche modo lo sono rimasti.

Ma è la carica soggettiva che era importante. Nessuno si era mai reso conto, guardan- do i dati dei due censimenti del ’71 e dell’81, che negli anni ’70, le aziende industriali italiane (cioè le unità locali) sono passate da cinquecentomila a novecentocinquanta mila. Lo stock di imprese, fatto nei 100 anni precedenti, negli anni ’70 è raddoppiato! Noi lo dicevamo, ma nessuno riteneva che fosse un fatto importante. Allora usammo la metafora del Paese di fili d’erba. In effetti erano fili d’erba, erano milioni di imprese,

sessione plenaria

68

milioni di piccole e piccolissime imprese, di imprese artigiane, di imprese commercia- li, di imprese terziarie, di imprese di trasporto: tutti correvano l’avventura dell’attività imprenditoriale.

Pensate ai trasporti: noi pensavamo che i trasporti fossero l’Istituto nazionale traspor- ti, poi negli anni ’70 sono arrivati i trasportatori, quelli che si facevano le notti sul camion, che hanno fatto la ricchezza loro e di tutto il settore.

Un po’ dappertutto c’è stata la moltiplicazione dell’iniziativa e della responsabilità individuale. L’Italia è stata quella, ed è stata dappertutto. È avvenuto soprattutto nei distretti industriali, nei localismi industriali, e anche nelle medie città. Soltanto le grandi città, specialmente le ex grandi città industriali hanno avuto un flusso di ritor- no, e hanno avuto una ripresa soltanto negli anni 2000. Però in gran parte l’Italia è stata fatta in questa maniera.

Quali sono stati i due momenti cruciali in cui la dimensione di moltiplicazione e di molecolarizzazione ha cercato di andare oltre?

Il primo è stato il passaggio dai fili d’erba al cespuglio (uso i termini che usammo allora). I fili d’erba non potevano durare a lungo, dovevano in qualche modo concen- trarsi. Se andate a vedere le medie imprese italiane di oggi, insediate in tutti i mercati internazionali, nascono dai fili d’erba, sono cespugli di fili d’erba. Pensate a tutte le aziende vinicole, olearie, a tutte le aziende del made in Italy, sono tutte legate a questo. Tod’s non è nata come Tod’s, Tod’s l’abbiamo conosciuto come scarparo marchigiano e poi è diventato un brand mondiale. I fili d’erba quando sono diventati cespugli ce l’hanno fatta; dove non ce l’hanno fatta sono scomparsi, oppure si sono annidati nei mercati locali. Questo è stato il primo processo di cambiamento, di maturazione della moltiplicazione dei soggetti.

Il secondo meccanismo è stato il consolidamento progressivo della dimensione setto- riale. Abbiamo cominciato col made in Italy negli anni ’80, anni in cui venne scoperto, composto da brand di piccolissime imprese ad alto design, ad alta capacità, ma sempre piccole. Per certi versi ancora oggi alcuni settori del made in Italy, dell’enogastrono- mico, dei macchinari industriali, sono rimasti quelli, con quel gusto di fare piccola impresa. Oggi quando giro l’Italia più del made in Italy, dell’enogastronomico, mi interessano i produttori di macchinari: li trovate dappertutto. Non hanno brand, ma i più grandi produttori al mondo di macchinari sono gli italiani. E sono piccoli. Noi abbiamo avuto questa doppia vittoria: i fili d’erba diventati cespugli e i fili d’erba che hanno fatto brand nei settori.

Quale è stata la dimensione che ha accompagnato questo sviluppo dappertutto e ra- soterra? Il processo che ha accompagnato, nel bene e nel male, è stato il processo di cetomedizzazione, l’esplosione del ceto medio in Italia. Il ceto medio per molti anni è stato il lago in cui entravano tutti. Ceto medio siamo diventati tutti. Ma è ceto medio senza più istanze di élite.

La gamba dell’iniziativa individuale è stata quella che ha portato avanti la dimensione economica, la gamba delle creazione del ceto medio – alcune volte impiegatizio, a volte puramente commerciale, a volte di terziario – ha creato una seconda situazione che è stata quella della cetomedizzazione.

Cosa c’era in comune in questi aspetti? C’era la molecolarietà dei soggetti. Non c’è stato un addensamento imprenditoriale, al massimo il cespuglio è diventato media impresa internazionalizzata di grande brand. La maggior parte di coloro che oggi fanno parte della filiera del made in Italy, della filiera dell’enogastronomico, della filiera degli impianti e dei macchinari, della filiera del turismo è molecolare. La nostra generazione aveva la Ciga come grande azienda turistica; oggi il turismo italiano è

sessione plenaria

fatto dai bed & breakfast, cioè dalla molecolarità. Non è detto che sia un bene, però la molecolarità ha invaso tutto.

Qualcuno l’ha chiamata società liquida. Toni Negri la chiamò “la moltitudine”. È un indistinto: quando hai milioni di molecole non sono tanto i soggetti, quanto i com- portamenti che devi andare a guardare. Il censimento dei soggetti vale fino a un certo punto; è il comportamento che modifica il sistema. Quando hai miliardi di compor- tamenti, con milioni di soggetti, gestire questa società diventa difficile. Questa società liquida, o di moltitudine, o indistinta, o molecolare, negli anni 2000, quando è iniziata la crisi, ha cominciato a vacillare.

Ce la fai a reggere una società indistinta fatta di singole molecole? Ce la fai di fronte a meccanismi di rottura anche internazionale – la crisi finanziaria, la crisi delle torri gemelle – a reggere la dimensione locale, la dimensione individuale? Noi abbiamo retto per due ragioni. La prima è che la dimensione locale ha vinto sull’aggressione internazionale: si poteva fare anche la guerra in Iraq o la guerra ovunque, ma l’Italia resta un posto di localismi. Nel rapporto Censis del 2001, anno dell’assalto alle torri gemelle, e della guerra di Bush contro l’Afghanistan e l’Iraq, noi scrivemmo: “Bevagna in guerra non è tesi plausibile”. Perché in qualsiasi paesetto d’Italia sentivi una specie di pace, una tranquillità dei borghi che non volevano essere implicati in questo, che si difendevano.

Quando la dimensione della crisi è diventata ancora più forte, negli anni dal 2010 al 2016, la seconda difesa è stata altrettanto molecolare, in parte borghigiana, localistica, in parte molecolare attraverso un meccanismo che abbiamo chiamato l’egoismo dello “scheletro contadino” del Paese. Siamo diventati scheletro contadino. Abbiamo fatto più economia, abbiamo controllato i consumi, abbiamo monitorato i nostri compor- tamenti e ce l’abbiamo fatta.

Qualcuno ha detto che siamo diventati una società sobria. Non è del tutto vero, perché oggi c’è una tendenza a tornare a una certa opulenza. Però nel periodo 2010-2018 abbiamo avuto questa doppia difesa: la difesa nel borgo e la difesa nella sobrietà in- dividuale e familiare. Anche qui dappertutto e rasoterra. Però la molecolarità resta. Questo è un Paese non governato e non governabile, lasciato a uno spontaneismo che non ha regole, che non ha obiettivi, che non ha indirizzi, che si arrangia. La continuità di un sistema deriva dal fatto che ci si assesta. Pensate ai mesi dopo le elezioni, sembra- va che ci dovesse essere una grande discontinuità; ma dopo un po’ vedrete che buona parte degli assestamenti al nuovo o al presunto nuovo ci saranno stati. Si ritorna ad una logica di continuità, magari con alcuni adattamenti, però ci si arriva, perché una società come la nostra, fatta di soggetti, fatta di comportamenti, fatta di realtà locali, fatta di vitalità molecolare, si assesta, si arrangia, difende la sua continuità.

Dove si è annidata un po’ di crisi su questa società? La prima crisi è stata quella della cetomedizzazione. La cetomedizzazione che aveva soddisfatto milioni di persone, che aveva fatto dire a tanta gente: “Siamo ceto medio” cioè “abbiamo fatto un salto”, ad un certo punto non ce l’ha fatta più, perché l’ascensore non saliva e loro non salivano con l’ascensore. Il ceto medio ha uno spazio per diventare borghesia, come c’è in tutti i Paesi del mondo: la Francia ha una borghesia amministrativa, l’Inghilterra ha una borghesia finanziaria e industriale; i tedeschi hanno una borghesia una volta militare adesso amministrativa e politica; noi non abbiamo borghesia. È possibile che siamo destinati ad essere solo ceto medio, senza il salto alla borghesia? Questa è la prima crisi che abbiamo vissuto, una crisi che non è coperta dalla molecolarità.

Oggi tutte le filiere italiane sono prime al mondo: la filiera dell’enogastronomico ci vede tra le prime due o tre potenze del mondo, nella filiera dei macchinari siamo i più

sessione plenaria

70

potenti del mondo, nella filiera del lusso e del made in Italy siamo ancora al terzo o quarto posto. Nel turismo stiamo scendendo di qualità e quindi probabilmente scen- deremo, però non nella quantità, con tutti i processi di piccola imprenditoria, dell’ap- partamento che diventa bed & breakfast. Nella dimensione imprenditoriale resistiamo ancora e restiamo nelle filiere forti del mondo.

Non ce la facciamo, invece, là dove c’era il processo di cetomedizzazione che si è ferma- to. Allora nascono alcuni processi, alcuni meccanismi, alcuni disagi psichici collettivi. Quattro anni fa il Rapporto Censis – molto criticato per certi versi perché considerato troppo psicoanalitico – disse che in Italia c’era un calo di desiderio. Noi lo vedevamo nella voglia di crescere, nella voglia di rischiare, nella voglia di trovare obiettivi diversi, nella voglia di pensare in grande: mancava il desiderio.

Se manca il desiderio, manca la spinta della soggettività individuale a perseguire qual- cosa.

Noi stessi, che allora scrivemmo di desiderio, ci siamo ritrovati nell’ultimo anno a parlare di rancore. Se non hai desideri, qual è il sentimento fondamentale? È il rancore di non aver ottenuto quello che speravi, o di non aver neppure desiderato qualcosa di diverso. Sostituisci il desiderio del nuovo con il rancore e il risentimento di quel che