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Per definire il perimetro del modernismo letterario occorre partire dall’assunto che, diversamente da termini come ‘moderno’ e ‘modernità’, il

239 T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in Id. Il bosco sacro: saggi sulla poesia e

sulla critica, traduzione di Vittorio Di Giuro e Alfredo Orbetello; con una nota di Massimo

Bacigalupo, Milano, Bompiani, 2003, p. 69. 240 Ivi, p. 80.

241

Cfr. P. Pellini, Naturalismo e modernismo. Zola, Verga e la poetica dell’insignificante, cit. 242

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modernismo è un concetto più circoscritto, attinente – come detto poc’anzi – alla sola sfera estetica.

5. 1. Il passaggio di paradigma estetico

Il salto di paradigma che il romanzo modernista porta con sé è ben descritto dallo spagnolo José Ortega y Gasset, che grossomodo divide la tipologia del

romanzo d’azione identificato col romanzo classico ottocentesco, da quella del romanzo di idee, cioè la novela deshumanizada dei primi decenni del Novecento,

in cui l’azione diventa un mero supporto meccanico funzionale a introdurre ingredienti più consoni a fornire il puro godimento artistico. Ortega y Gasset, sebbene sia maggiormente conosciuto come filosofo, è stato anche un teorico del romanzo: le sue teorie sul genere romanzesco sono esposte in maniera sparsa in

Meditaciones del Quijote (1914), in La deshumanización del arte (1925) e in Ideas sobre la novela (1925).243 Nei riguardi di Ortega, già Salvatore Battaglia sosteneva che «non si può parlare della letteratura moderna senza rifarsi alle considerazioni del pensatore spagnolo»244 poiché «egli è stato il primo a porre il problema dell’arte recente nei giusti termini». Le riflessioni di Ortega del 1925 (Ideas sobre la novela) su questioni di poetica letteraria prendono avvio dalle polemiche scagliate contro le opere del connazionale Pio Baroja (1872-1956), uno scrittore a lui coevo, il quale, nell’opera Las figuras de cera245

del 1924, inserisce un prologo in cui contesta le critiche estetiche avanzate proprio da Ortega. Il filosofo spagnolo descrive bene il passaggio dal romanzo ottocentesco a quello modernista affermando che il genere in questione da narrativo e indiretto si è trasformato in descrittivo o diretto. Considerando che il genere romanzesco

243 Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit.; Id., La deshumanización del arte, cit.; e Id., Ideas sobre la novela, cit.

244 S. Battaglia, L’arte disumanizzata, in Id. Mitografia del personaggio, cit., p. 401. In generale, vd. Id., L’arte disumanizzata, cit., pp. 401-17.

245

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attraversa un periodo di crisi (Ortega si riferisce soprattutto al panorama spagnolo), il teorico enuncia i precetti estetici del nuovo romanzo, dai quali si evince come il filosofo colga per tempo i tratti caratterizzanti la narrativa modernista. In primis, Ortega suggerisce al romanziere di rifuggire dall’azione e dalla trama, alle quali il lettore non attribuisce più valore (mentre fino all’Ottocento, affinché un romanzo fosse di successo, era sufficiente la novità tematica), per concentrarsi sulla descrizione della verità del personaggio, cioè della sua vita interiore, e indicando come modello del nuovo romanzo lo stile di un grande modernista come Marcel Proust. Nel far questo, il narratore non deve effettuare un ritratto in piedi, frontale, della psicologia del personaggio, ma il lettore deve coglierne le peculiarità attraverso l’osservazione dei suoi atti e delle sue reazioni e riflessioni interiori. Posto che ormai il potere del plot è esaurito, la narrazione deve quindi trasformarsi solo in un filo conduttore che racconti fatti quotidiani legati ai personaggi che abitano l’opera, in una dimensione del tutto immanente.

5. 2. Realismo ottocentesco e realismo interiore

Quantunque probabilmente nessuna definizione di una categoria tanto sterminata e sfaccettata come quella del realismo letterario potrebbe soddisfare l’attributo dell’esaustività, è generalmente piuttosto condiviso che, sul piano formale, il realismo consista in una serie di tecniche mediante le quali si tenta di gestire la realtà esteriore e la realtà interiore, che sono sempre smisuratamente troppo vaste per essere rappresentate in maniera integrale.246 Il realismo diventa

246 Le pagine di inchiostro scritte sul concetto di realismo sono innumerevoli. Sulla teoria del romanzo – e, quindi, anche per il concetto di realismo – ho anticipato nella Premessa di essermi appoggiato ai teorici “storici” del romanzo, oltre che a sistematizzazioni e saggi più aggiornati. In particolare, indico un recente saggio dettagliato e complessivo sulle adozioni e le definizioni del termine ‘realismo’ nella storia e nella critica letteraria: F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una

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così un codice di mimesi della realtà secondo una sua coerenza interna, un modo di raccontare la realtà che introduce nell’opera quanta più realtà possibile fino a quando l’autore riesce a gestirla con sufficiente controllo. Sul piano della rappresentazione, il realismo del romanzo moderno costituisce la mimesi seria e problematica della realtà quotidiana di persone ordinarie. Il realismo “classico”, quello di primo Ottocento, per descrivere il quale è nato proprio il concetto di realismo, si connota per la visione uni-prospettica con cui mima la realtà. Questa tendenza letteraria corrisponde a livello ideologico e sociale con la grande avanzata della borghesia della fase iniziale e centrale del XIX secolo, l’acme del pensiero unitario, l’epoca in cui il pensiero borghese moderno crede di poter dominare la realtà e di saper leggere tutte le passioni.

È fondamentale evitare di identificare tutto il realismo col realismo del romanzo classico ottocentesco e non contrapporre frontalmente realismo e modernismo, poiché – come ritiene a ragione Fredric Jameson – «il realismo stesso condivide quella dinamica di innovazione che abbiamo ascritto al modernismo come caratteristica che ne segna unicità»247. La generazione degli scrittori modernisti ha infatti «ucciso la bestia nera del realismo (o del naturalismo) solo per farla risorgere in forma nuova»248. Ogni opera modernista presenta:

Un punto di partenza situato in quel mondo reale convenzionale [rappresentato nei romanzi realisti], una specie di nucleo interno realistico che le diverse deformazioni e distorsioni “irrealistiche” rivelatrici attuate dal modernismo […] prendono come pretesto e materia prima.249

Nella narrativa modernista d’inizio Novecento convivono un forte impianto sperimentale e una mai sopita vocazione realista. Mentre le avanguardie predicano la rottura radicale con la realtà, i modernisti credono ancora che il gesto narrativo,

247 F. Jameson, Una modernità singolare. Saggio sull’ontologia del presente, cit., p. 133. 248

F. Bertoni, Realismo e letteratura, cit., p. 269. 249

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sebbene in forme diverse dalle convenzioni del romanzo ottocentesco, sia in grado di offrire una mimesi del reale. Infatti, «il romanzo del Novecento non ha affatto destituito la letteratura di una funzione referenziale e rappresentativa»250.

Però, mentre il romanzo dell’Ottocento, in particolare il romanzo realista della prima metà del XIX secolo, era più adatto a dipingere soprattutto grandi affreschi della vita esteriore, offrendo una mimesi seria della sfera pubblica, i romanzieri modernisti, certificato il decadimento del valore della vita sociale, sviluppano tecniche efficaci per penetrare il mondo interiore dei personaggi. Rispetto all’età del realismo classico ottocentesco, il pirandelliano strappo nel

cielo di carta si fa ancora più profondo e il «maledetto Keplero» impone allo

scrittore modernista di scomporre l’essenza dell’io e del mondo. In questi romanzi i fatti del mondo avranno importanza solo per le ripercussioni che provocano negli animi dei personaggi. Questa nuova impostazione conduce a un realismo di tipo diverso, esistenziale e psicologico, che potrebbe descrivere adeguatamente la rivoluzione della mimesi operata dai romanzieri modernisti: un realismo interiore. Valentino Baldi ha debitamente parlato, in riferimento a Pirandello e Gadda, di

reale invisibile,251 che diventa il vero nucleo di senso che i modernisti puntano a rappresentare. Gli scrittori modernisti non rifiutano il realismo in sé, che ben rappresenta la materialità della vita e della socialità, ma perseguono piuttosto un «nuovo tipo di realismo, di secondo grado»252. I modernisti smascherano le convenzioni del classico romanzo realista ottocentesco, compiendo effrazioni dei dispositivi narrativi delle opere ottocentesche che ne palesano l’inautenticità rispetto ai meccanismi del reale, ma che non per questo rifuggono dalla realtà. Anzi, puntano a rappresentarla nei suoi meccanismi più complicati, raffigurando la realtà più complessa, quella in interiore homine. Questa è la natura e lo scopo del realismo modernista, un realismo – come detto – esistenziale e psicologico, che si potrebbe definire anche come realismo dell’introspezione psicologica.

250 R. Castellana, Realismo modernista, cit., p. 26. 251

V. Baldi, Reale invisibile, cit. 252

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Tra gli ultimi in ordine di tempo, Valentino Baldi afferma debitamente che per «modernismo si intende quella letteratura sperimentale e antinaturalista che esprime una sensibilità nuova, tipica di alcuni scrittori che vivono il passaggio tra Ottocento e Novecento»253. Nei primi venti anni del Novecento assistiamo al disciogliersi dei nessi causa-effetto, all’esaurirsi della vitalità e della validità delle strutture organiche tradizionali del romanzo e della poesia e allo sfaldamento della frontalità dei ritratti psicologici. Tutto ciò presuppone la fine del naturalismo, ma anche dell’estetismo decadente, secondo il quale la forma-romanzo è volutamente non-realistica e concentrata solo sui virtuosismi formali. Il romanzo ottocentesco, sia quello realista di tipo classico che quello naturalista, e il romanzo modernista condividono la mimesi seria del quotidiano, quasi sempre di persone qualunque: a questo proposito, la denominazione dell’Ottocento come Il secolo serio, coniata da Franco Moretti,254 potrebbe venire estesa ai primi tre decenni del XX secolo. Tuttavia, se il romanzo ottocentesco era tutto, o in buona parte, estroflesso e concentrato quindi sugli eventi storici, e dunque pubblici, il romanzo modernista si caratterizza per l’introflessione, trattando con serietà solo i rivoli dell’interiorità dei personaggi.

Da ultimo, lo scrittore modernista, al contrario di quello ottocentesco, che nutre una fede aprioristica nella narrazione, è consapevole che quest’ultima, soprattutto nella forma del romanzo classico, è costruita su artifici letterari. Tozzi, nel definire Pirandello uno scrittore realista, precisa però che

Il realismo di Pirandello non è incosciente, come quello di Zola o del Maupassant. Si potrebbe chiamare, piuttosto, la coscienza del realismo. Una coscienza che, ad ogni suo respiro, ha bisogno di riattaccarsi con avidità giovanile a verosimiglianze brutali e dure. Per vedere se si possono cambiare in possibilità spirituali.255

253 Ivi, p. 67.

254 Cfr. F. Moretti, Il secolo serio, cit., pp. 689-725. 255

F. Tozzi, Luigi Pirandello, in Id., Opere. Romanzi, Prose, Novelle, Saggi, a cura di Marco Marchi, introduzioni di Giorgio Luti, Milano, Mondadori – I Meridiani, 1987, pp. 1313-19: 1313.

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Persino il filtro della lingua non è affatto neutro, ma costituisce inevitabilmente un prisma deformante, artificioso e illusorio.256 Per lo scrittore modernista la lingua costituisce un problematico e antinomico elemento di distorsione della realtà e di espropriazione dell’essere. L’Idion, la particolarità dell’individuo, il suo privato intrapsichico, per non rimanere inespresso deve diventare Idioma, un linguaggio condiviso dagli altri. Ma, ciò che è il sentimento privato del personaggio, diventando idioma, diventa altro: l’uomo vorrebbe esprimere la sua particolarità, la sua sostanza interiore, invece deve espropriarsi nella parola. Così, l’individuo modernista si infila in un’impasse: per lasciar parlare le cose, egli (sia lo scrittore che il suo protagonista) dovrebbe ritrarsi; ma nel romanzo modernista il protagonista non vuole retrocedere, considerando se stesso e il suo mondo interiore l’unico centro degno di interesse. In Quer pasticciaccio brutto de via

Merulana (1946) di Gadda il Commissario Ingravallo è accusato da molti di usare

parole vacue e fuorvianti, prive di significato:

Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari.257

In un saggio sul poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, molto amato da Gadda, si evince che per l’ingegnere la scelta del dialetto, cioè di uno strumento linguistico «prima parlato e vissuto che non ponzato e scritto» risponde proprio a un’esigenza etica e gnoseologica che favorisca la sua «autonomia del discernere»258 e la sua ansia di verità, e che riflette la sua sfiducia nelle potenzialità della lingua-codice. Per questi motivi, Gadda ammira e accosta degli scrittori così diversi come Belli e Manzoni, che eppure hanno saputo egualmente

256 Cfr. J. Rabaté, Una lingua straniata. Gli stili del modernismo, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, cit., vol. I, pp. 750-73.

257

C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, cit., p. 5. 258

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affrontare con coraggio e coerenza «il dramma dell’espressione», per tentare di approssimarsi il più possibile «a quanto la propria consapevolezza certifica per vero, in eventuale opposizione ai rimandi pigri d’ogni verbale conformità»259

. Spesso, invece, nel modernismo il codice del linguaggio perde la sua funzione primaria, quella di comunicare, per retrocedere a mero flatus vocis. Attestato che la mancanza di oggettività comprende anche lo strumento linguistico, il narratore modernista opera una poetica della mediazione:

Per i modernisti la verità va detta o almeno allusa nelle finzioni e nell’alterità della lingua e della letteratura, senza l’illusione di un suo accesso diretto. La loro è, in questo senso, una poetica della mediazione: fra istanze soggettive e un patrimonio collettivo che trascende l’individuo, fra bisogno di senso, e denuncia dell’insensatezza, fra consapevolezza dell’artificio e ricerca del vero.260

259

Ibidem. 260

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CAPITOLO IV

La poetica etica ed estetica di Borgese

1. Borgese critico e Borgese scrittore

Il presente Capitolo non vuole tracciare un discorso esauriente sulla poetica di Borgese (servirebbe un volume monografico sul tema), ma si prefigge piuttosto di mettere in luce alcuni aspetti centrali, che lo scrittore siciliano poteva condividere o no con altri scrittori modernisti, della sua poetica e gli elementi sui quali voleva riedificare un’idea di letteratura e che hanno informato la scrittura di Rubè: la centralità del genere romanzesco, i modelli ottocenteschi e soprattutto di Verga, la battaglia contro il frammentismo e il calligrafismo vociano, la concezione etica e organica della letteratura, l’interesse verso le letterature straniere, la critica militante.1

Prima di addentrarci nella poetica di Borgese, qualche notizia biografica.2 Giuseppe Antonio Borgese (12 novembre 1882, Polizzi Generosa – 4 dicembre

1

Una parte del contenuto di questo Capitolo verrà pubblicata nell’autunno 2019, sebbene con alcune modifiche, negli Atti del XVII Congreso Internacional de la S.E.I. (Sociedad Espaňola de

Italianistas), tenutosi presso l’Università di Salamanca (17-19 maggio 2018), in un articolo dal

titolo “L’umanesimo etico ed estetico di Giuseppe Antonio Borgese: la riedificazione del genere romanzesco”.

2 Per profili biografici più approfonditi: G. Librizzi, Nota biografica, in ‘Rubè’ e la crisi

dell’intellettuale del Novecento, Atti del Convegno di studi nazionale per il novantesimo

anniversario della prima edizione del romanzo ‘Rubè’ di Giuseppe Antonio Borgese (Palermo- Polizzi Generosa 22 e 27-29 maggio 2011), a cura di Gandolfo Librizzi, Palermo, Fondazione G. A. Borgese, 2012, pp. 247-80, ora in Id. (a cura di), Biografia di Giuseppe Antonio Borgese,

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1952, Fiesole) trascorre l’infanzia sulle Madonie e frequenta le scuole a Palermo. Da ragazzo legge, nella biblioteca paterna, i classici della letteratura italiana e i saggi di De Sanctis, il cui magistero influenzerà profondamente la sua poetica. Si iscrive all’Università di Palermo, ma dopo un anno continua gli studi a Firenze, presso l’Istituto di Studi Superiori, dove nel 1903 discute col maestro Guido Mazzoni la tesi sulla Storia della critica romantica in Italia. Benedetto Croce ne coglie immediatamente il talento e provvede nel 1905 a pubblicare la tesi, che diventa il precoce esordio critico di Borgese, per le edizioni della rivista da lui diretta «La critica», alla quale collabora lo stesso Borgese dal 1903.3 Tuttavia, ben presto Croce diventa un severo avversario di Borgese, dal momento che quest’ultimo prende le distanze dall’estetismo crociano. Il giovane siciliano frequenta i circoli letterari fiorentini degli albori del secolo, collaborando anche al «Leonardo» di Papini e a «Il Regno» di Corradini. Nel 1904 fonda la rivista «Hermes», dannunziana sia artisticamente che politicamente, la cui effimera vita termina già nel 1906.

Personaggio poliedrico, oltre alla critica letteraria, dal 1906 avvia la carriera giornalistica: diventa redattore capo de «Il Mattino» di Napoli, per il quale è corrispondente in Germania dal 1907, scrive per «La Stampa» nel 1911-’12 e avvia negli stessi anni una collaborazione col «Corriere della Sera» che durerà fino alla sua morte. All’approssimarsi della guerra si proclama acceso

Polizzi Generosa, Fondazione G. A. Borgese, 2012; G. P. Giudicetti, La narrativa di Giuseppe

Antonio Borgese: una risposta alla crisi letteraria e di valori del primo ‘900, cit., pp. 19-22; P. V.

Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 29-33; L. Sciascia, Borgese, in Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 202-08; V. Licata, L’invenzione

critica. Giuseppe Antonio Borgese, Palermo, Flaccovio, 1982, pp. 137-46. L. Baldacci, Borgese in

Id., I critici italiani del Novecento, Milano, Garzanti, 1969, pp. 45-52; Relativamente agli anni americani (ma non solo) segnalo: I. de Seta, American citizen. G. A. Borgese tra Berkeley e

Chicago (1931-1952), Roma, Donzelli, 2016; I. de Seta – Sandro Gentili (a cura di), Borgese e la diaspora intellettuale negli Stati Uniti, Firenze, Franco Cesati, 2016.

3

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interventista e negli anni del conflitto scrive libri di politica, oltre a prestare servizio con incarichi diplomatici.4

Nel 1909 inizia una precoce e brillante carriera accademica, dapprima a Torino e a Roma, dove insegna letteratura tedesca, poi dal 1917 a Milano, dove dal 1926 è titolare della prima cattedra di estetica e storia della critica. Dopo una giovanile infatuazione dannunziana (molto comune, del resto, alla sua generazione), col saggio Gabriele D’Annunzio del 1909, nel cercare di definire l’opera del poeta, Borgese esprime di volontà di superare l’estetismo dannunziano.5 In pochi anni il critico siciliano pubblica altri libri di critica: i tre volumi de La vita e il libro (1910, 1911, 1913) e Studi di letterature moderne (1915).6

Nel dopoguerra, amareggiato dagli effetti politici e morali del conflitto mondiale, dopo la militante attività critica del primo ventennio del XX secolo, Giuseppe Antonio Borgese si cimenta negli Anni Venti con la scrittura artistica: nel suo prolifico “decennio creativo” (1921-1931) scrive tre romanzi e un racconto storico, pubblica una raccolta di poesie e tre raccolte di novelle, compone due drammi.7 La sua opera romanzesca è così composta: il suo primo

4 In questi anni Borgese, per conto del primo ministro Emanuele Orlando, svolge missioni diplomatiche in Francia, Albania e Macedonia e Svizzera, tutte collegate alla complessa questione balcanica e al problema della nascente azione propagandistica italiana. A questo riguardo, è prossimo all’uscita il volume I balcani. 1917-1919. La missione in Albania e la questione

jugoslava con scritti e fotografie inedite, a cura di Riccardo Cepach e Ilaria de Seta, Trieste,

Luglio Editore, 2019. 5

Id., Gabriele D’Annunzio (1909), introduzione di Anco Marzio Mutterle, Milano, Mondadori, 1983. Sul rapporto tra Borgese e D’Annunzio: A. Cavalli Pasini, L’unità della letteratura, cit., pp. 50-117; M. Olivieri, G. A. Borgese: L’antidecadente, in G. A. Borgese. La figura e l’opera. Atti del Convegno nazionale, Palermo-Polizzi Generosa, 18-21 aprile 1983, Palermo STASS, 1985, pp. 55-67; A. De Stefano, Borgese e D’Annunzio, in G. A. Borgese. La figura e l’opera. cit, pp. 99- 109.

6 G. A. Borgese, La vita e il libro: saggi di letteratura e di cultura contemporanee cit.; Id., Studi di

letterature moderne, cit.

7

122

romanzo, Rubè, pubblicato nel 1921, rimane l’unica opera creativa piuttosto conosciuta;8 I vivi e i morti, suo secondo romanzo, è del 1923; infine, il terzo e ultimo romanzo, Tempesta nel nulla, definito da altri (e dallo stesso Borgese) piuttosto un racconto lungo, esce nel 1931.9

Tuttavia, sempre agli anni Venti risalgono alcuni degli scritti critici e teorici più importanti: oltre al meno influente Risurrezioni (1922), Tempo di edificare (1923) è fondamentale e va considerato in binomio insieme a Rubè nel suo progetto di ricostruzione estetica della letteratura italiana, mentre Ottocento

europeo (1927) esprime al contempo l’orizzonte internazionale di Borgese e la

centralità della narrativa ottocentesca nel suo discorso teorico-critico.10

Dagli anni Trenta – si può stabilire come data-spartiacque, anche per precise ragioni politiche, il 1931, anno dell’esilio negli Stati Uniti in seguito al rifiuto del giuramento al regime fascista11 – fino alla sua morte, avvenuta nel 1952, Borgese vive un’evoluzione che lo porta a scrivere soprattutto opere di taglio politico e

- NOVELLE: Id., La città sconosciuta (1925), Palermo, Sellerio, 1991; Id., Le belle (1927), con una nota di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1991; Id., Il sole non è tramontato (1929), cit. - RACCONTO STORICO: Id., La tragedia di Mayerling. Storia di Rodolfo d’Austria e di Mary

Vetzera (1925), Milano, Mondadori, 1972.

- TEATRO: Id., L’Arciduca. Dramma in tre atti, Milano, Mondadori, 1924; Id., Lazzaro. Un

prologo e tre atti, Milano, Mondadori, 1925.

8 Sui rapporti tra Rubè e l’anteriore produzione critica di Borgese cfr. M. Kuitunen, La narrativa di