Un romanzo che si presenta lontano dalle aspettative del pubblico va sovente incontro a un iniziale insuccesso. Lo stesso Verga, modello imprescindibile per Borgese, rimase amareggiato del fallimento dei Malavoglia tanto che ebbe a dire all’amico Luigi Capuana, con cui intratteneva una fitta corrispondenza:
I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che ne hanno detto bene, molti, Treves per primo, hanno detto male, e quelli che non me l’hanno detto mi evitano come se avessi commesso una cattiva azione. Dei giornali, all’infuori del Sole, della
Gazzetta d’Italia della domenica, della Rivista Europea o letteraria che sia e
della Gazzetta di Parma, nessuno ne ha parlato, anche i meglio disposti verso di me e ciò vuol dire chiaro che non vogliono spiattellarmi il de
profundis. Il peggio è che io non sono convinto del fiasco, e che se dovessi
tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto […]. Caro Luigi, io sono perfettamente nauseato dall’indifferenza con cui il pubblico che si dice letterario si occupa di tentativi siffatti in Italia.16
14 Id., Per un ritratto dello scrittore da giovane, Milano, Adelphi, 2000, pp. 44-85, p. 73. 15 Id., La corda pazza, Scrittori e cose della Sicilia, Milano, Adelphi, 1991, p. 142. 16
G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, a cura di Gino Raya, Firenze, Le Monnier, 1975, pp. 168 e 170.
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Poche righe dopo, Verga offre una chiosa in chiave socio-culturale del suo insuccesso, a cui fanno da contraltare la contemporanea fortuna di Malombra (1881) di Fogazzaro e il successo di poco successivo di D’Annunzio, che testimoniano l’apprezzamento del grande pubblico per il romanzo decadentista ed estetizzante: «in Italia l’analisi più o meno esatta senza il pepe della scena drammatica non va e […] ci vuole tutta la tenacità della mia convinzione, per non ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter poi ridergli in faccia»17.
Questo vale anche per Rubè, contro il quale si scatena ben presto un acceso furore stroncatorio,18 mentre sul valore del suo romanzo Borgese rimane pervicacemente convinto, come lo era Verga per i suoi Malavoglia, senza cedere agli ammiccamenti in direzione dei gusti del pubblico. Sul momento, poiché Borgese era già noto per la sua opera di critico e per le sue posizioni politiche, già in polemica verso Mussolini, Rubè ha vasta risonanza. Il giovane Guido Piovene afferma che «col romanzo il suo nome circolò nel gran pubblico […]. Ne fui toccato a fondo, forse anche perché l’argomento mi era interamente nuovo. Leggevo infatti per la prima volta un romanzo che rappresentava la crisi dell’intellettuale moderno»19
. Il libro suscita scalpore per le sue componenti formali che vanno contro la moda estetica frammentista del momento e per i costituenti psicologici del suo protagonista. Le critiche si concentrano contro la
17 Ibidem.
18 Sulla ricezione critica di Rubè: A. Carta, Rubè, in Il romanzo in Italia, cit., pp. 168-71. S. Ferlita, Rubè stroncato, in ‘Rubè’ e la crisi dell’intellettuale del Novecento, cit., pp.139-46; A. Carta, Il cantiere Italia, cit., pp. 131-33; G. De Leva, Dalla trama al personaggio: ‘Rubè’ di G. A.
Borgese e il romanzo modernista, cit., pp. 1-2 (si parla anche brevemente della ricezione positiva
in Francia e negli Stati Uniti); P. Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese, cit., pp. 47-68; M. Onofri, Fortuna di ‘Rubè’, in Storia generale della letteratura italiana, vol. XII, t. II, a cura di Walter Pedullà e Ninò Borsellino, Roma, Motta, 2004, pp. 1038-43; A. Mauriello,
Simmetrie narrative nel Rubè di Borgese, in «Critica Letteraria», 1996, pp. 283-306: 283 e 283n;
M. Kuitunen, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese, cit., pp. 45-54; L. De Maria,
Introduzione, cit., pp. XXI-XXII.
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prosa nervosa e poco classica: Emilio Cecchi, uno dei critici più rilevanti del primo Novecento, la definisce una «prosa abborracciata» e parla di «esecuzione del lavoro […] convenzionale, approssimativa, sciatta» e di «ridondanze verbali»20, mentre Attilio Momigliano definisce lo stile «unico, troppo logico e critico»21. Ma, la stroncatura del primo romanzo borgesiano attiene anche al disprezzo verso i ragionamenti astratti e cervellotici del protagonista.22 Pietro Pancrazi, proprio additando lo stile poco letterario di Rubè, conia l’espressione «il romanzo di un critico»23. Ciononostante, la recensione di Pancrazi, diversamente da altre, non è del tutto negativa. Egli riconosce l’alto valore dei contenuti e il vasto disegno di Rubè, che lo distingue dalla letteratura ripiegata su se stessa dei vociani, seppur vanificato dalla pochezza stilistica:
Se ripensiamo Rubè a distanza, sentiamo che, come in nessun altro racconto d’oggi, qui c’erano gli elementi narrativi drammatici e di pensiero per un ampio romanzo moderno; fuori finalmente della letteratura chiusa in se stessa, e fuori della letteratura ch’è soltanto rappresentazione del contenuto. A raggiungere il fine, occorreva che la ricca materia del racconto decantasse meglio, si convertisse più naturalmente in arte. E vien fatto di pensare se, per avventura, Borgese non abbia verso l’arte alcuni dei torti che il suo Rubè ha verso la vita: se non difetti anche lui d’intimo disinteresse e pazienza.24
20 Cfr. E. Cecchi, Borgese romanziere, «La Tribuna», 13 aprile 1921; poi, con il titolo
Testimonianza su Borgese, in Letteratura italiana del Novecento, a cura di Pietro Citati, Milano,
Mondadori, 1972, pp. 460-65: 461. 21
Cfr. A. Momigliano, Rubè, «Il Giornale d’Italia», 23 aprile 1921; poi, con il titolo Giuseppe
Antonio Borgese, in Id., Impressioni di un lettore contemporaneo, Milano, Mondadori, 1928, pp.
261-95: 269-70.
22 A. Gargiulo, Conclusioni sul ‘Rubè’, «L’Italia letteraria», n. 11, 1931; poi in Letteratura
italiana del Novecento, cit., pp. 185-91.
23 P. Pancrazi, Romanzo di Borgese, «Il Resto del Carlino», 14 maggio 1921; poi in Id., Ragguagli
di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi (1918-1922), Bari, Laterza, 1941, pp. 153-59.
L’articolo di Pancrazi in un primo tempo era intitolato proprio Il romanzo di un critico. 24
Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze, Vallecchi, 1923, cit. in L. De Maria,
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L’intervento invece più tranchant contro il protagonista Filippo Rubè è firmato da Alfredo Gargiulo, non a caso un rondista, il quale giunge ad affermare che «Rubè è un allucinato; ma sul serio: di quelli da affidare alla psichiatria»25. Questa considerazione è figlia dell’avversione di Gargiulo verso il genere del romanzo e del rifiuto di personaggi nevrotici dalla complessa struttura psicologica (il critico vorrebbe veder sempre separate psicologie e letteratura), fattori che usa anche contro altri due romanzieri prediletti da Borgese come Tozzi e Moravia. Oltre alle risentite obiezioni contro lo stile, Gargiulo non è il solo a bollare negativamente il romanzo per un disprezzo verso le articolate componenti morali del protagonista, tanto che Cecchi parla di «furente e rozzo spasimo autobiografico»26. Molti anni dopo, un anziano Piovene registra proprio questo sentimento ostile verso Filippo Rubè: «Un segno dell’umore maligno con cui Rubè fu accolto fu anche la condanna morale del personaggio. Lo si accusava essere di un egotismo odioso, con la chiosa che Borgese ne era il modello autobiografico»27. Infine, la ricezione negativa dei critici del tempo può trovare giustificazione anche nel fatto che Rubè rappresenti «una storia paradigmatica e profetica»28 della dissoluzione morale di quella generazione, e quindi, scomoda (come non accomodante è sempre stata, del resto, la figura del suo autore) per tanti intellettuali che non volevano fare i conti con una storia, quella del primo dopoguerra, che ha condotto all’avvento del fascismo.
Tuttavia, tra i giudizi dei contemporanei, non mancano alcune voci positive, come quelle di Attilio Momigliano29 (le sue critiche si fermano al livello stilistico) e di Lorenzo Giusso, che identifica la qualità del romanzo proprio nell’essere riuscito a tratteggiare in Filippo Rubè un inetto, che è «la più pallida e inquietante
25 A. Gargiulo, Patologia di un romanzo, «L’Italia letteraria», n. 11, 22 marzo 1931; poi in
Letteratura italiana del Novecento, cit., pp. 177-84.
26 E. Cecchi, «Rubè» di G. A. Borgese, cit.
27 G. Piovene, Ritorno di ‘Rubè’, cit., pp. 400-404: 401. 28
L. De Maria, Introduzione, cit., p. XIX. 29
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figura della recente letteratura italiana»30, nel quale si consuma il «fallimento dell’ideologia nietzschiana»31
:
Nell’affannosa vicenda di Filippo Rubè, titano ambizioso ma inadatto a vivere, il quale consuma la sua divorante febbre tra le stracche vicende d’una vita inferiore ai suoi avidi miraggi, Borgese ha inteso processare e punire tutta la generazione di titani senza comando, di Titani spodestati, di giganti costretti a tornare travets e capi-ufficio. In Filippo Rubè si adunano infatti tutte le malattie e le irrequietudini che un secolo di morale romantica ha accumulate, in torbido deposito, nella fosca coscienza moderna: il Titanismo, il superomismo, la religione dell’io sovrano e divino, identificato nello spirito del mondo e fatto centro propulsore della Storia.32
Le stroncature di Rubè e gli attacchi inflitti a Borgese a partire dagli Anni Venti (l’ostracismo contro l’intellettuale Borgese comincia invece già negli Anni Dieci) determinano come conseguenza un oblio quarantennale, che giunge fino alle soglie degli anni Settanta, dell’opera narrativa dell’autore siciliano. A questa dimenticanza contribuiscono anche altri fattori, quali la fine della fase creativa di Borgese, chiusa col romanzo breve (o racconto lungo) Tempesta nel nulla del 1931, il suo esilio statunitense e il clima politico non certo favorevole a riabilitare una figura invisa a molti, pur da schieramenti diversi, come quella dell’intellettuale siciliano. Dagli anni Settanta si cominciano a registrare alcuni studi su Rubè, senza tuttavia che questo libro sia studiato nella giusta misura in rapporto alla produzione narrativa ad esso coeva (ancora più deficitaria è la ricezione critica relativa al secondo romanzo I vivi e i morti, mentre quasi scevri di studi permangono la novellistica e il racconto lungo Tempesta nel nulla)33. Invece, dagli anni Settanta (da Debenedetti in poi) di Rubè viene almeno
30 L. Giusso, Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Edizione Cremonese, 1942, pp. 165-77: 170.
31 Ibidem. 32 Ibidem.
33 Per una ricostruzione sulla ricezione critica che parli anche della narrativa borgesiana ‘minore’: G. P. Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese, cit., pp. 47-68; M. Kuitunen, La
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riconosciuto il valore esemplare di opera che segna un turning point nella narrativa italiana, il punto di partenza della ripresa del romanzo negli anni Venti del XX secolo, a tal punto che secondo alcuni critici il primo romanzo di Borgese costituisce il primo lavoro significativo successivo alla prima guerra mondiale e rappresentativo della inquieta temperie storica, politica ed umana del primo dopoguerra, agli albori del fascismo,34 come certifica anche il fedele allievo Guido Piovene: Rubè «è il primo romanzo di alta qualità scritto in Italia dopo la grande guerra»35. Infatti, nonostante numerosi critici neghino che il romanzo borgesiano abbia avuto una notevole influenza tra i romanzieri:
Con Rubè si maturava un nuovo filone della nostra narrativa, di impianto realistico, che si sarebbe sviluppato, in alternativa o in antagonismo dell’egemonia ‘rondista’ della ‘prosa d’arte’ nell’arco degli anni venti, incidendo decisamente sul destino della narrativa degli anni trenta. Non a caso la pubblicazione di Rubè (e dei romanzi di Tozzi) fu seguita da un’esplosione di romanzi di carattere realistico, di diversa misura e di diverso valore, da La Velia di Cicognani a Gli ubriachi di Viani, ad Angela di Fracchia, ecc.; né a caso La coscienza di Zeno (1923) trovò nel «nuovo» pubblico un clamoroso e crescente favore […]; Né a caso durante il decennio […], malgrado l’egemonia rondista, si accentuò e crebbe l’interesse per il «romanzo» (interesse che trovò nella rivista «Solaria» la sede più qualificante e autorevole), premessa essenziale di
34 Debenedetti ricostruisce la storia di tale ripresa (Il romanzo del Novecento, cit., pp. 10-55 e pp. 125-63). Ho già parlato di questo (supra, pp. 19, 128). Oltre a Debenedetti, per gli studi di riscoperta di Rubè, compresi tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, mi riferisco sopratutto ai lavori di Battaglia (Ritorno di Borgese, cit., e Mitografia del personaggio, Milano, Rizzoli, 1968, 533-41), Isnenghi (Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970, pp. 198-202), De Maria (Introduzione, cit.), Biasin (Il rosso o il nero: testo e
ideologia in ‘Rubè’, «Italica», LVI, 1979, n. 2, pp. 172-97 e poi Id. Il rosso o il nero, in Id., Roma,
Bulzoni, Icone italiane, 1983, pp. 147-80), Santoro (Esemplarità di ‘Rubè’, in L’uomo nel
labirinto, Napoli, Federico & Ardia, 1981, pp. 75-121; Id., Da ‘Rubè’ a ‘I vivi e i morti’, in G. A. Borgese. La figura e l’opera, cit., pp. 179-206), Kuitunen (La narrativa di G. A. Borgese, cit., pp.
45-93) e Licata (L’invenzione critica, cit., pp. 27-68). 35
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quella «rinascita del romanzo» che, secondo una comune periodizzazione, avrebbe avuto la sua epifania negli anni trenta.36
È fondamentale la difesa di Borgese da parte di un giovane Guido Piovene, in risposta all’etichettatura ‘il romanzo di un critico’ data da Pancrazi, contro l’accusa che alcuni intellettuali gli muovono, i quali gli rimproverano che la sua espressione artistica sia soffocata dall’ingombrante presenza del critico:
Per qualche anno, l’accusa dei critici contro il Borgese fu ch’egli è più critico che artista: è un’accusa che dimostra l’impreparazione di chi l’ha formulata. La critica d’un uomo vivo è la condizione dell’arte: artistico per eccellenza il sentimento che la muove. Essere critici significa spontaneità non confondere con l’incoscienza. Per questo sono giunto al Borgese artista parlando del critico: e certo egli sa che l’accusa che gli facevano un tempo, diventerà un titolo d’onore.37
Per Borgese critica e narrativa sono due côtés di un medesimo progetto letterario e culturale: egli è un intellettuale – secondo la definizione di Bourdieu – “produttore di beni simbolici”38
, che mira a incidere sul contesto nazionale sulla base di un progetto politico-culturale. Infatti, in Tempo di edificare, «un testo capitale per la biografia intellettuale dell’autore come per la storia della narrativa italiana»39
, Borgese riesce sul fronte teorico a imprimere quel nuovo passo in direzione della nuova narrativa che Rubè ha avviato nella prassi romanzesca.
36 Cfr. M. Santoro, ‘Tempo di edificare’ e il romanzo degli anni Venti, in L’uomo nel labirinto, cit., pp. 57-74: 73-74;e in «Esperienze letterarie», n. 6, 1981, pp. 28-45: 44-45. Cfr. anche A. Carta, Rubè, cit., pp. 159-171: 159-160.
37 G. Piovene, Scrittori contemporanei. Giuseppe Antonio Borgese, in «Nuova Antologia», 16 aprile 1930, pp. 502-515: 507.
38 P. Bourdieu, Le regole dell’arte: genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, 2005, pp. 207-43.
39 M. Santoro, ‘Tempo di edificare’ e il romanzo degli anni Venti, cit., p. 57. Sull’importanza di
Tempo di edificare: cfr. M. Santoro, ‘Tempo di edificare’ e il romanzo degli anni Venti, cit., pp.
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A causa delle letture spesso pregiudiziali e ideologizzanti, che hanno visto predominare il giudizio sull’autore e sul critico mettendone in ombra l’opera narrativa e che hanno comportato una condanna morale dell’anti-eroe Rubè, è risultata spesso carente un’analisi strutturale, narratologica e tematica di Rubè che comparasse anche il libro borgesiano con i maggiori romanzieri italiani (ed europei) a lui coevi appartenenti alla tendenza modernista del romanzo, che è l’obiettivo del prossimo Capitolo – il più ampio – e che ha segnato il disegno di questo lavoro.
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