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Il diabete (termine originato dal greco “passare attraverso”) è definibile come una patologia metabolica, caratterizzata da una cronica condizione di iper-glicemia, causata da un’azione parzialmente o totalmente insufficiente dell’insulina nel ripristinare i normali livelli di glucosio ematico. (World Health Organization, 1999) L’iperglicemia che ne deriva, se protratta negli anni, si associa a gravi danni a carico di diversi organi, soprattutto di occhi, reni, nervi, cuore e dei vasi sanguigni. Le manifestazioni cliniche di queste complicazioni, includono l’insufficienza renale (nefropatia), problemi alla retina (retinopatia) che possono portare alla cecità, ulcerazioni e, in alcuni casi, amputazione dei piedi per neuropatia, alcune caratteristiche disfunzioni del sistema nervoso autonomo, tra cui la disfunzione sessuale. Inoltre, le persone con diabete sono ad aumentato rischio di malattie cardiovascolari, cerebro-vascolari e vascolari periferiche Per tale motivo il diabete mellito è anche definito come un insieme di anomalie caratterizzate da uno stato di iperglicemia sostenuta. I sintomi clinici del diabete sono poliuria, polidipsia, perdita di peso, nonostante la presenza di polifagia, chetoacidosi, alterazioni della vista, infezioni della pelle, prurito. Nel caso di iperglicemia lieve tali sintomi sono poco apprezzabili e diventa difficile fare una diagnosi chiara. Vi sono differenze anche nella percezione della sintomatologia nei soggetti che hanno appena scoperto la patologia, rispetto a quelli che sono in cura da vari mesi o anche anni. (West, 1978)E’ anche questo uno dei motivi per cui tale patologia viene spesso definita come silente, e del perché moltissime persone vivono con stati diabetici senza saperlo. Bauer ha condotto uno studio su 1.700 diabetici (Bauer, 1967) relativo ai sintomi che si sono presentati all’inizio o a patologia già conclamata da tempo, notando che più della metà dei pazienti (52%) non ha avuto nessuno dei classici sintomi del diabete. Un altro studio, condotto da Welborn et al. ha rilevato che tra i “nuovi” diabetici solo il 12% ha riscontrato un aumento della sete e il solo il 28% ha riportato una poliuria.

Esistono testimonianze antiche di questa patologia, tanto che situazioni di poliuria somiglianti a quelle di una condizione diabetica sono stati narrati già nei papiri egizi del 1550 aC. (McFarlane, et al.,1997) Una prima descrizione delle manifestazioni cliniche della patologia si deve ad Areteo di Cappadocia che nel II secolo d.C. fece

una generica narrazione delle condizioni che causano un aumento della produzione di urina. (Papaspyros, 1964) Il termine mellito (ovvero mieloso) è stato utilizzato per la prima alla fine del XVIII secolo da John Rollo (Rollo, 1797) come riferimento al gusto di miele delle urine, distinguendo tale stato di poliuria da altri in cui le urine erano, invece, insapore. Fu invece Matthew Dobson, un medico di Liverpool, a rendersi conto per primo che il diabete era una patologia sistemica visto che, anche il siero del sangue, così come l’urina, conteneva zucchero e aveva un sapore dolce. (Dobson, 1776). 
 In effetti, lo studio della storia naturale e della patogenesi del diabete, nonostante la grande varietà di manifestazioni cliniche, si basa su un fattore comune e consolidato, ovvero la presenza di una glicemia alta nei soggetti. Dalla fine degli anni ’70 ci si è, però, accorti che tale condizione non è più sufficiente da sola a spiegare molti degli aspetti della malattia, e che potrebbero essere molto più complessi i meccanismi (genetici, ambientali, immunologici) a monte della patogenesi, del decorso clinico e delle complicanze dello stato diabetico. (Fajans, et al.,1978) I processi patogenetici coinvolti con l’insorgenza del diabete sono diversi e portano, ad esempio, alla distruzione auto-immune delle beta cellule del pancreas, le uniche in grado di produrre insulina, ormone che esercita un controllo fondamentale non solo nel metabolismo dei carboidrati, ma anche delle proteine e dei grassi.

Una cosa è però ormai chiara: il diabete è una patologia che dilaga a macchia d’olio, progredendo, incessantemente, tra l’umanità. Non la si considera più un evento epidemico, con una ben delimitata diffusione nello spazio e nel tempo, ma si è di fronte ad una condizione ad oggi definita come “pandemica” (dal grego pan-demos, ovvero tutto il popolo) perché interessa tutte le aree del mondo più o meno industrializzate, occidentali e orientali, con una diffusione irregolare e in continua crescita nel tempo. In effetti, risulta essere tra le malattie croniche più comuni al mondo. Solo negli Stati Uniti, colpisce circa il 9,3% della popolazione, pari a 29,1 milioni di persone, di cui 21 milioni i casi diagnosticati e 8,1 milioni quelli ritenuti ancora non diagnosticati (cioè il

27,8% dei casi di diabete) (Centers for Disease Control and Prevention, 2014) Nel

2012 il diabete è costato agli USA un totale stimato di 245 miliardi di dollari (circa 220 miliardi di Euro), di cui 176 miliardi in costi medici diretti (beni e servizi medici) e 69 miliardi di dollari in costi indiretti (giorni lavorativi persi, attività limitata, disabilità e morte prematura). (ADA, 2013) Le dimensioni della patologia in Italia non raggiungono quelle degli Stati Uniti, ma destano crescente preoccupazione per l’aumentare della sua diffusione. I dati annuali ISTAT del 2015 ci dicono che circa 4 milioni di italiani

(ISTAT, 2015; CINECA, SID, ARNO Report 2015) hanno ricevuto una diagnosi di diabete, a cui vanno aggiunti circa 1 milione di coloro che, per mancanza di sintomatologia effettiva, hanno tale patologia senza saperlo. Se pensiamo che nel nostro paese, nel 1985, i casi di diabete erano circa 1,5 milioni (Vaccaro, SID, 1996) a fronte degli attuali 4 milioni (5 milioni includendo i casi ancora non diagnosticati), possiamo dire che in 30 anni l’incidenza di questa patologia è aumentata di oltre due volte e mezzo, con un caso di diabete ogni 16 abitanti (1 caso ogni 12 considerando anche il milione di soggetti misconosciuti). Si stimano circa 5-7 nuovi casi di diabete tipo 2 ogni 1.000 persone per anno, senza particolari differenze di genere nei soggetti colpiti.
 (Bonora et al. 2004; Brocco et al. 2007;
Bonora et al., 2016)

A fronte di tale diffusione, i costi per la cura sono, ovviamente, molto elevati. L’International Diabetes Federation (IDF) stimava per l’anno 2015, una spesa mondiale per la prevenzione ed il trattamento del diabete e delle sue complicanze pari a 673 miliardi di dollari americani (US$). Le proiezioni per l’anno 2040 stimano una spesa di oltre US$ 802 miliardi, con una crescita del 20%. (IDF, 2015) Seppure in modo inferiore rispetto ad alcuni paesi industrializzati, l’Italia spende circa 15 miliardi di Euro all’anno, cioè il 10% della spesa sanitaria nazionale totale, a supporto dei soggetti diabetici (CINECA, SID, ARNO Report 2015) Purtroppo, questo ingente esborso economico arriva, addirittura, a circa 30 miliardi se calcoliamo anche le spese determinate dai costi indiretti della patologia (10-12 miliardi dovuti ad assenze dal lavoro e pre-pensionamenti) e i costi sostenuti direttamente dalle famiglie stesse (circa 3 miliardi). L’IDF ha stimato che per il 2040 l’Italia avrà un aumento di tale spesa del 14.4% ovvero lievemente più contenuta del 18% previsto per la spesa totale europea. (IDF, 2015) Da notare che la maggior parte dei costi tollerati dal Sistema Sanitario Nazionale, scaturiscono dai trattamenti effettuati per ridurre le complicanze della patologia diabetica. Il diabete è, infatti, associato all’insorgenza di diverse problematiche di salute, in particolare problemi renali, cardiovascolari, oculari, neurologici. Il diabetico incorre, spesso, in una accelerata patologia aterosclerotica, che può colpire le arterie del cuore, del cervello e delle estremità inferiori. La concomitanza di questa problematica parallela al diabete, è causa di un rapido incremento di problemi arteriosi agli arti inferiori che, in congiunzione con i problemi neuropatici, mostrati dal 60% dei diabetici, portano, negli USA, a più del 50% delle amputazioni non traumatiche (Skyler, 2012) Allo stesso modo, l’insulino-resistenza e il diabete incrementano da 3 a 8 volte il rischio di patologie cardiovascolari. Il 30% circa

dei pazienti ospedalizzati per infarto del miocardio sono diabetici e il 35% hanno una condizione di IGT (Impaired Glucose Tolerance) (Norhammar et al., 2002)